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la Costituzione ride, ma è una cosa seria close

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Archive for category: profstanco

Morire in Toscana o in Puglia? (Non si risolve il tribaco con una soluzione anapestica)

in profstanco / by Gian Luca Conti
07/02/2025

Il Consiglio regionale della Toscana sta per avviare la discussione in aula di un progetto di legge sul fine vita.

La questione suscita un ampio dibattito che, però, come tipicamente accade nelle questioni che hanno un tono religioso, mischia il culo con le quarant’ore.

Il primo punto da chiarire riguarda il sistema normativo attualmente in vigore per coloro che trovano insopportabile continuare a vivere a causa della loro situazione di salute.

Queste persone, ai sensi della legge 38/2010 e 219/2017, possono chiedere, purché siano in grado di esprimere una scelta libera e consapevole, di essere poste in uno stato di sedazione profonda e l’interruzione dei trattamenti medici che le mantengono in vita.

In particolare, l’art. 1, legge 219/2017 stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere somministrato senza il consenso informato del paziente e considera come trattamenti sanitari anche l’idratazione e l’alimentazione forzati. L’art. 2, legge 219, cit. impone ai medici di alleviare le sofferenze di coloro che hanno bisogno delle loro cure e, secondo comma, consente il ricorso alla sedazione profonda continua per i pazienti prossimi alla morte, vietando ogni trattamento, in questi casi, che non abbia come scopo l’il sollievo dalla sofferenza.

Di conseguenza, il nostro ordinamento giuridico conosce una forma di suicidio assistito perché consente al paziente di rifiutare l’alimentazione e l’idratazione forzati e di essere posto in sedazione profonda, ovvero impone ai medici di astenersi dal mantenere in vita artificialmente i pazienti che non acconsentano più a questi trattamenti sanitari.

Non consente, invece, al paziente che non voglia morire di fame e di sete in uno stato di profonda incoscienza di optare per una soluzione più rapida.

Su questo punto, è intervenuta (da sei anni) la Corte costituzionale con la sentenza 242/2019 nella quale si afferma che se il paziente vuole porre termine alla sua vita perché le sofferenze che deve patire gli sono intollerabili; non vi è alcuna speranza di miglioramento o guarigione, la sua volontà deve essere accertata da una struttura pubblica e vagliata da un comitato etico. Ove da questo scrutinio, che deve svolgersi in un tempo compatibile con lo stato di sofferenza del malato, la volontà espressa dal paziente risulti riferibile a una sua decisione liberamente assunta, colui che lo aiuta a porre termine alla propria esistenza non è punibile ai sensi dell’art. 580, c.p. (aiuto o istigazione al suicidio) che invece punisce coloro che portano alla morte persone non pienamente capaci di esprimere la propria volontà o che non versano in uno stato patologico irreversibile.

Questa la massima ufficiale della sentenza: È dichiarato costituzionalmente illegittimo, per violazione degli artt. 2, 13 e 32, secondo comma, Cost., l’art. 580 cod. pen., nella parte in cui non esclude la punibilità di chi, con le modalità previste dagli artt. 1 e 2 della legge n. 219 del 2017, ovvero, quanto ai fatti anteriori alla pubblicazione della presente sentenza nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica, con modalità equivalenti nei sensi di cui in motivazione, agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente.

Il secondo punto da chiarire riguarda il contenuto della proposta di legge di iniziativa popolare attualmente in discussione presso il Consiglio regionale della Toscana: la Regione Toscana non introduce il suicidio assistito, si limita a definire le modalità con cui il servizio sanitario della Regione Toscana potrà procedere alla verifica dell’esistenza delle condizioni che consentono il ricorso al suicidio assistito e le modalità di esecuzione di questo trattamento, nonché le modalità con cui si deve esprimere il comitato etico.

La questione merita di essere approfondita sotto due diversi aspetti. Da una parte, è un problema di riparto di competenze fra Stato e regioni: se lo Stato non interviene con una legge, le regioni possono regolare autonomamente le proprie attribuzioni in questa materia? Dall’altra parte, è un problema di dignità delle persone: se l’ordinamento giuridico mi consente di decidere liberamente di morire, nei limiti in cui questa terribile decisione può essere davvero libera e pienamente consapevole, posso decidere come morire o devo necessariamente morire di sete e fame nel sonno?

Il primo aspetto viene risolto da coloro che ostacolano la proposta di legge seguendo due argomenti principali. Per il primo, la materia del suicidio assistito sarebbe nella competenza esclusiva dello Stato perché riguarda l’ordinamento civile e penale e quindi alle regioni sarebbe interdetto qualsiasi forma di intervento. Per il secondo, non sarebbe ragionevole ipotizzare che solo una su 20 regioni possa regolare il suicidio assistito nell’inerzia delle altre.

Entrambi gli argomenti possono essere considerati non ragionevoli. La proposta di legge n. 5 attualmente in esame non definisce ciò che è penalmente lecito o illecito. Si limita a dare al servizio sanitario, che dipende pacificamente dalle regioni, le istruzioni necessarie per adempiere ai propri compiti e il compito di intervenire nell’accertamento delle condizioni che consentono il ricorso al suicidio assistito è assegnato al servizio sanitario dalla sentenza della Corte costituzionale 242/1019.

Molto più persuasivo in apparenza l’argomento per cui non sarebbe una e indivisibile la Repubblica in cui in una regione fosse possibile chiedere di morire serenamente nel proprio letto e nelle altre diciannove questo diritto fosse negato. E’ sicuramente vero ma è altrettanto vero per tutta l’assistenza sanitaria che non è sicuramente erogata secondo gli stessi livelli in tutte le regioni e l’argomento potrebbe essere tollerabile solo se non vi fossero cittadini costretti a percorrere diverse centinaia di chilometri per curare la tiroide, come sa chiunque prenda spesso il treno per Pisa.

Soprattutto, il suicidio assistito non è un trattamento sanitario. La Corte costituzionale non afferma l’esistenza di un diritto al suicidio assistito inteso come un livello essenziale delle prestazioni da erogare per garantire la libertà di cura del paziente. Molto più semplicemente afferma che non vi è disvalore nel comportamento di colui che presta il proprio ausilio a un malato incurabile che desidera porre termine alla propria sofferenza ricorrendo determinate condizioni che si sono ricordate. Sotto questo aspetto, la proposta di legge regionale guarda più che ai diritti del malato a un riparto di attribuzioni fra la magistratura e l’amministrazione, perché, sino al momento in cui la Corte costituzionale non vedrà la propria decisione attuata dal legislatore nazionale, è il magistrato che indaga sulla morte del malato incurabile che decide se vi sia spazio per l’azione penale o meno ma questo, da una parte, non è ragionevole perché il processo interviene solo quando oramai il bene tutelato è già stato sacrificato e, dall’altra parte, pone un forte discrimine fra cittadini perché non tutti si possono permettere un medico disposto a rischiare la propria fedina penale.

Il piano etico del suicidio assistito, invece, non è sul tavolo. E’ stato risolto dalla Corte costituzionale che ha riconosciuto il diritto di ogni cittadino a scegliere se completare nel proprio corpo la passione del Cristo o abbandonare questa vita di passaggio. Sul tavolo, c’è il diritto di decidere se morire consapevolmente o inconsapevolmente, il diritto di rifiutare di morire nel sonno e di preferire una morte che guarda negli occhi le persone che si amano.

Negare il diritto di morire è ragionevole solo se si considera la vita un bene indisponibile anche nel caso in cui si è irreparabilmente destinati a morire fra atroci sofferenze e la Corte costituzionale ha detto che non è così.

Negare il diritto di morire guardando negli occhi chi si ama, una volta che questo diritto viene affermato sulla base della Costituzione, ha un che di disumano.

Negarlo sulla base del riparto di attribuzioni fra Stato e regioni è artificioso e, dispiace scriverlo, vigliacco.

Il pubblico ministero di Calamandrei (A proposito di separazione fra le carriere)

in profstanco / by Gian Luca Conti
26/01/2025

I magistrati hanno protestato contro il disegno di legge di revisione costituzionale che renderebbe costituzionalmente necessaria la separazione fra le carriere.

E’ una protesta che deve essere presa sul serio.

Dal punto di vista della protesta, l’idea di separare rigidamente la carriera della magistratura inquirente da quella giudicante sarebbe contraria alla Costituzione.

Non è così: per 101, secondo comma, i giudici sono soggetti soltanto alla legge e, perciò, godono della massima autonomia di cui può godere un funzionario dello Stato. Per 107, quarto comma, il pubblico ministero gode delle garanzie che gli sono garantite dalle norme sull’ordinamento giudiziario, di talché la sua autonomia è l’oggetto di una particolare riserva di legge.

La Corte costituzionale ha applicato questi principi chiarendo in più occasioni che la separazione delle carriere non sarebbe incostituzionale: la disciplina costituzionale in materia di esercizio della funzione giurisdizionale “non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni” (Corte cost. 37/2002 e 58/2022).

Di conseguenza, il senso della protesta dovrebbe essere diverso: sarebbe contraria a Costituzione una modifica della stessa che imponga la separazione fra le carriere. Tuttavia affermare che una modifica alla Costituzione sia vietata dalla Costituzione significa ammettere l’esistenza di principi supremi che impongono ulteriori limiti alla revisione costituzionale rispetto a quelli imposti dall’art. 139, Cost. e appare complesso sostenere che la forma repubblicana oggetto del referendum costituzionale del 1946 sia violata nel momento in cui la carriera del pubblico ministero viene separata da quella del giudice.

La verità è che in assemblea costituente si è discusso di separazione delle carriere e che in questo senso era la posizione dell’on.le Leone, relatore in Seconda sottocommissione sull’ordinamento giudiziario, unitamente a Piero Calamandrei: il pubblico ministero avrebbe dovuto essere ricondotto “direttamente al circuito democratico, in quanto espressione della pretesa punitiva dello Stato, e rientrante, dunque, nella sfera d’azione dell’Esecutivo”, trattandosi della figura che funge da “tramite o organo di collegamento fra potere esecutivo e potere giudiziario”. In questa chiave di lettura, il pubblico ministero avrebbe dovuto essere “privato di quelle attuali attribuzioni che lo accostano al potere giudiziario, in funzione di organo del potere esecutivo, come tale alle dipendenze del Ministro della giustizia, in modo da stabilire un […] punto di collegamento con gli altri poteri” (assemblea costituente, Commissione per la costituzione, Seconda sottocommissione, seduta del 5 dicembre 1946).

Sul piano storico, non appare quindi corretto affermare che la scelta per la separazione delle carriere si ponga in contrasto con l’opzione per la forma repubblicana manifestata dal corpo elettorale il 2 giugno 1946 perché se così fosse, l’assemblea costituente non avrebbe neppure prendere in esame questa opzione nei suoi lavori.

La questione, quindi, è di carattere eminentemente politico e, in questo senso, la protesta dei magistrati deve essere presa sul serio perché il suo vero significato dovrebbe essere quello di richiamare il circuito Parlamento – governo a una maggiore attenzione per i principi costituzionali di cui l’ordinamento giudiziario deve essere il corretto svolgimento.

Il primo di questi principi è sicuramente l’eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge e rispetto a questo principio l’obbligatorietà dell’azione penale si pone come inevitabile: se siamo tutti eguali dinanzi alla legge, non è immaginabile che due persone possano commettere lo stesso fatto e l’una sia indagata mentre l’altra sfugga alle maglie della giustizia, non perché è riuscita a farla franca ma perché il suo fascicolo langue sulla scrivania di un pubblico ministero per tutto il tempo necessario alla prescrizione o non sia oggetto della stessa intelligenza investigativa che invece il primo ha visto dispiegarsi. Lo ebbe a sostenere con la sua estrema chiarezza di pensiero Calamadrei nella lezione inaugurale dell’anno accademico all’Università di Siena, il 13 novembre 1921 (P. Calamandrei, Governo e magistratura, in Opere giuridiche, a cura di Mauro Cappelletti, vol. II, Morano, Napoli, 1966, 195 ss., part. 202): “affermare da una parte che la legge è eguale per tutti e dall’altra lasciare al potere esecutivo la possibilità di farla osservare soltanto nei casi in cui non dispiace al partito che è al governo, è tale un controsenso ,che non importa spendervi su molte parole”.

Quindi ci si deve chiedere se il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale sia meglio servito da una carriera unica o da due carriere separate fra di loro.

Quello che importa, qui, però, non è la separazione delle carriere ma la certezza che la decisione sull’esercizio dell’azione penale sia presa da un magistrato preoccupato unicamente dalla necessità di proteggere il corpo sociale dai comportamenti antisociali vuoi perché come scriveva Calamandrei alieno da qualsiasi ingerenza politica (“è ben vero che il pubblico ministero in base al principio di legalità dovrebbe ritenersi indipendente dal Ministro rispetto ad ogni obbligo funzionale impostogli dalla legge e che il Ministro, in ossequio al principio medesimo, non ha facoltà di ordinare al P.M. di non procedere nel caso concreto, né di arrestare o ritardare l’azione penale una volta promossa, ma ciò che si insegna a scuola è ben diverso da quello che accade nella concreta realtà. Infatti gli uomini politici si guardano bene dal dare ordini in materia giudiziaria ma preferiscono dolcemente suggerire di ritardare o sospendere e il P.M. sa di non godere della garanzia di inamovibilità riservata ai magistrati giudicanti”, ivi, 203), vuoi perché affatto disinteressato alle conseguenze dell’esercizio dell’azione penale perché assolutamente indifferente al tribunale dell’opinione pubblica.

Il secondo di questi principi è nell’art. 27, per il quale la pena deve avere una funzione rieducativa per il condannato: la funzione rieducativa della pena è il vero fondamento della obbligatorietà dell’azione penale nel senso che questi due principi si compongono in uno schema nel quale l’azione penale deve essere esercitata perché il reato che è stato commesso impone di rieducare il colpevole, di talché l’unico caso in cui si può non esercitare l’azione penale è quello in cui la pena non avrebbe una funzione rieducativa, ovvero in cui la condanna determinerebbe un lack of justice, secondo l’espressione che è tipica della common law per indicare quando la condanna sarebbe profondamente ingiusta malgrado la colpevolezza sia palese (il padre che aiuta il figlio a suicidarsi dopo che questi ha tentato di farlo più volte senza riuscirci a causa della propria malattia è sicuramente colpevole ma non ha senso rieducarlo).

Anche la valorizzazione di questo principio postula una funzione giurisdizionale del tutto indifferente rispetto al tribunale della opinione pubblica.

La discussione sulla separazione delle carriere, secondo queste minime note, sul piano costituzionale è del tutto legittima e, forse, dovrebbe muovere dalla constatazione che il pubblico ministero cui pensava l’assemblea costituente era il pubblico ministero che guidava l’azione penale in un sistema inquisitorio che non esiste più e che l’indipendenza della magistratura deve essere intesa sia come indipendenza dal potere politico, secondo l’impostazione classica, ma anche come indipendenza dal tribunale della opinione pubblica, ovvero come capacità del potere giudiziario di esercitare le proprie funzioni con un’autorevolezza sufficiente a impedire a chiunque di pensare che quella azione penale trovasse delle giustificazioni estranee al principio di rieducazione che si è cercato di valorizzare.

La protesta dei magistrati contro il disegno di  legge in discussione da parte delle assemblee parlamentari non è esattamente coerente con questi principi: da una parte, interpreta la Costituzione in termini assai discutibili. Dall’altra parte, si rivolge direttamente al tribunale dell’opinione pubblica ovvero proprio al soggetto con cui la magistratura non dovrebbe avere mai niente a che fare.

Profumo di Sangiuliano

in profstanco / by Gian Luca Conti
04/09/2024

Il ministro Sangiuliano sta passando delle brutte giornate sia al governo che in famiglia.

Conviene cominciare dalla famiglia.

Il ministro è sposato regolarmente con una giornalista RAI, Federica Corsini, e, secondo voci più o meno accreditate, la sposa del ministro si sarebbe sentita offesa dal fatto che il marito apparisse sempre più spesso in pubblico con una collaboratrice, la signorina Maria Rosaria Boccia, assai più giovane del marito, non saprei se anche della moglie.

In particolare, la discussione in famiglia sarebbe giunta all’apice quando la sposa sarebbe venuta a conoscenza della nomina della signorina Boccia a consigliera per i grandi eventi del ministro e le avrebbe fatto una telefonata di fuoco invitandola a strappare l’atto di nomina.

La signorina Boccia, che il ministro Sangiuliano dapprima ha negato di conoscere e successivamente ha detto di avere finanziato pagandole sempre il conto del ristorante e dell’albergo, come si usa fra signorine e gentiluomini, ha reagito con un diluvio di immagini caricate su Instagram in cui appare insieme al ministro o comunque in ambienti collegati al ministro.

Il caso è diventato rovente grazie a Dagospia e agli altri giornali di quella che solo con un certo coraggio si può chiamare opposizione, e la Presidente del Consiglio ha convocato il ministro a Palazzo Chigi per un colloquio di novanta minuti, il tempo esatto di una partita della Nazionale e il ministro si deve essere sentito più o meno come l’Italia contro la Svizzera agli ultimi Europei.

La Presidente del Consiglio, in particolare, sarebbe stata preoccupata per l’eventuale condivisione di documenti riservati relativi al G8 di Pompei con la signorina Boccia, ma il ministro ha negato recisamente di avere mai condiviso informazioni sensibili con la sua ex collaboratrice e il tutto è finito con un comunicato stampa del ministro piuttosto laconico ed evasivo.

Sembra di poter dire che si è piuttosto lontani dall’Affare Profumo, quando il ministro della guerra del governo conservatore, John Profumo, intratteneva una liaison con l’amante di una spia russa nel pieno della guerra fredda.

Ma l’Affare Boccia fa emergere una nuova dimensione del potere di coordinamento del Presidente del Consiglio dei Ministri ai sensi di 95, primo comma, e della responsabilità ministeriale di cui al secondo comma della stessa disposizione, perché Sangiuliano avrebbe revocato l’incarico di consigliere per i grandi eventi (o non lo avrebbe concesso dopo averlo promesso: poco cambia) sulla base delle direttive ricevute dalla sposa offesa dalle disinvolte apparizioni della signorina Boccia accanto al consorte.

Come dire, la moglie viene prima del Presidente del Consiglio e i doveri di marito oltrepassano i limiti della responsabilità ministeriale.

Sicuramente sembra una storia adatta più a Novella 2000 che alle austere pagine dei quotidiani politici e, nello stesso tempo, un affare che si adatta molto meglio alla disinibita disinvoltura di Sgarbi che non al mite Sangiuliano ed è proprio questo che dà da pensare: davvero l’art. 95, Cost. può entrare nella vita familiare di un ministro?

La risposta è che c’entra nella misura in cui il comportamento del ministro ne lede la credibilità e perciò offende il prestigio del Governo, anche se in fondo Sangiuliano ha fatto quello che molti maschi nell’età di mezzo fanno: si è commosso per le attenzioni che gli venivano dedicate senza pensare troppo alle convenienze e quando si è reso conto che la faccenda stava andando troppo avanti è tornato repentinamente sui suoi passi.

Il problema è che le debolezze vanno sapute portare perché se nessuno può considerare un ministro fedifrago o una ministra disinvolta incapaci di condurre gli affari di governo, molti potrebbero ritenere che il Governo della nazione non abbia bisogno di altri bischeri oltre a quelli che già hanno avuto accesso a quegli scranni e non sono pochi.

La Russa dal punto di vista di Calamandrei

in profstanco / by Gian Luca Conti
02/04/2023

Il Presidente del Senato si è espresso in maniera disordinata sulla strage di via Rasella e sulla connessa strage delle Fosse Ardeatine e altrettanto disordinatamente ha corretto la propria opinione il giorno successivo che, non a caso, era il 1 aprile.

Le reazioni seguono due filoni altrettanto disordinati. Read more →

La Costituzione tradita? 75 anni dopo, ipotesi per un bilancio

in profstanco / by Gian Luca Conti
03/01/2023

La Costituzione compie, quest’anno, settantacinque anni.

Li ha compiuti, più precisamente, il 27 dicembre 1947, perché quello è il giorno in cui la Carta costituzionale è stata promulgata, anche se è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 1 del 1 gennaio 1948 e perciò, come ci ha ricordato il Capo dello Stato nel suo messaggio di fine anno, è il 1 gennaio 2023 che si festeggia il suo 75° compleanno.

Non sono pochi: lo Statuto Albertino nel 1922 aveva 74 anni. Read more →

La fiducia sul disegno di legge di conversione del cd. Decreto Rave

in profstanco / by Gian Luca Conti
28/12/2022

La discussione parlamentare sul disegno di legge di conversione del cd. Decreto Rave è piuttosto animata.

Sono state respinte le pregiudiziali di costituzionalità e il Governo ha posto la questione di fiducia, il che significa che la conversione del Decreto Rave è una questione di gabinetto: se la Camera non facesse propria la decisione di considerare un reato l’organizzazione di raduni musicali illegali, il Governo cadrebbe. Read more →

Ravanare 17

in profstanco / by Gian Luca Conti
02/11/2022

Chi comincia bene è già a metà dell’opera.

E’ il proverbio che viene in mente leggendo il d.l. 31 ottobre 2022, n. 162.

La norma che, forse, dovrebbe essere oggetto di maggiore attenzione è quella che è stata messa a punto in vista della trattazione in Corte costituzionale della questione di legittimità costituzionale dell’ergastolo ostativo. Ma probabilmente il marchingegno messo in piedi per superare l’ergastolo ostativo – non si dà seguito al Fine pena mai nel caso in cui il condannato dimostri di non avere più niente a che fare con le ragioni che avevano giustificato la sua condanna, prova che forse non è molto semplice – serve solo a un aggiornamento della udienza pubblica fissata dalla Corte costituzionale all’8 novembre 2022.

La norma che, allora, vale la pena prendere in esame è l’art. 5 intitolato Norme in materia di occupazioni abusive e organizzazione di raduni illegali, che introduce l’art. 434 bis, c.p. (Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica), fra l’art. 434 (Crollo di costruzione e altri disastri dolosi) e l’art. 435 (Fabbricazione o detenzione di materie esplodenti).

E’ una norma che nasce ad horas e che ha un intento chiaramente muscolare: ci sono stati dei ragazzi che hanno avuto l’ardire di organizzare un rave party per Halloween e il Governo non è restato con le mani in mano.

Questa norma punisce chiunque organizza o partecipa a un raduno di oltre cinquanta persone in un terreno o un fabbricato di proprietà altrui senza il consenso del proprietario se ci può essere un pericolo per la salute, l’incolumità o l’ordine pubblico.

La pena è compresa fra un minimo edittale di 3 anni e un massimo di 6 anni e come misura accessoria si prevede la sorveglianza speciale di pubblica sicurezza.

Il primo problema è perché una norma speciale rispetto all’art. 633, c.p. che punisce l’invasione di terreni o edifici con la pena da uno a tre anni e da due a quattro anni se il fatto è commesso da più di cinque persone o da persona palesemente armata. Ce n’è bisogno se il fatto che viene commesso determina un pericolo per la salute, l’incolumità o l’ordine pubblico? Forse sì, può essere ragionevole.

Ma non è ragionevole se il fatto che determina il reato è l’organizzazione di un “raduno”, perché un raduno è esercizio della libertà (costituzionale) di riunione e l’esercizio di una libertà costituzionale non può costituire l’aggravante di un reato. Suona proprio male. Terribilmente male.

Il secondo problema è la nozione di ordine pubblico.

E’ facile dire che in Costituzione non c’è. E’ facile dire che è figlia di un testo unico di pubblica sicurezza che i Costituenti aborrivano per averne fatto le spese. E’ triste aggiungere che si tratta di una nozione utilizzata sempre più spesso dal legislatore e che questo accade perché la nostra società ha voglia di ordine pubblico. Più voglia di ordine pubblico che di libertà costituzionali.

Il terzo problema è la forma utilizzata per costruire il reato: un decreto legge. Dei ragazzi organizzano un rave e il Governo lo considera un motivo sufficiente a giustificare un decreto legge. I decreti legge sono atti che hanno la forza di legge per effetto di una situazione di eccezionale urgenza che non tollera ritardi per essere affrontata. Il raduno di Modena, sgomberato la mattina successiva, o quello del Salviatino, poco più di un pubblico schiamazzo, non sembrano raggiungere questa soglia.

Ma soprattutto se succede qualcosa che il Governo considera disdicevole, il Governo può ricorrere al decreto legge per vietarlo? Sembra molto forte e soprattutto molto in contrasto con il divieto di norme penali eccezionali.

Sono tutte considerazioni ovvie per un costituzionalista e sicuramente un penalista ne potrebbe aggiungere altrettante, ancora più forti.

Il punto, però, è che più che essere il d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, sembra il 31 ottobre 1922, n. 162…

Fra Draghi e Conte, c’è Forlani? (Non fiducia, Fiducia sfiduciante e Fiducia intermittente)

in profstanco / by Gian Luca Conti
14/07/2022

I senatori del Movimento 5 Stelle si sono allontanati dall’aula al momento del voto di fiducia al Governo Draghi sulla conversione del decreto aiuti.

Draghi è salito al Quirinale annullando il Consiglio dei Ministri già fissato per le 15:30. Ha parlato per un’ora con il Capo dello Stato. E’ rientrato a Palazzo Chigi e ha convocato un nuovo Consiglio dei Ministri che si sta svolgendo mentre si scrivono queste righe.

La tesi di Conte, il leader del Movimento 5 Stelle, che pare avere il convinto sostegno di Di Battista e di Grillo, è che il Movimento sostiene convintamente il Governo da cui non ritira i propri ministri ma non può accettare di votare a favore di provvedimenti che si pongono in contrasto con la transizione ecologica.

I precedenti parlamentari sono due: il governo della non sfiducia di Andreotti (1976) e il fallito governo della fiducia sfiduciante di Forlani (1987).

Il primo precedente ha un che di antico e di nobile: è il Governo che ha gestito l’affare Moro, quello delle convergenze parallele o del compromesso storico (che non sono due espressioni per lo stesso fenomeno ma due visioni opposte del futuro). In questo caso, la fiducia fu votata da 258 deputati su 630, con 44 no e 328 astenuti; al Senato i “sì” furono 137 su 315, con 17 no e 161 astenuti. La visione che stava dietro alla non fiducia era la necessità di condividere scelte di grande impatto per la società. E’ di questo Governo sia il d.P.R. 616/1977, di attuazione del sistema regionale, che la riforma del sistema sanitario e quella del bilancio dello Stato. Condividere delle scelte trasversali rispetto all’indirizzo politico non significa condividere la visione politica della Società dei partiti che formano la maggioranza di Governo amalgamando le proprie ideologie. Per questo, coerentemente, il P.C.I., ma anche il Partito Socialista, quello Repubblicano, il Socialdemocratico e i liberali, hanno sostenuto il Governo nei voti parlamentari, non ne hanno provocato la caduta votando la sfiducia, ma non hanno partecipato né alla votazione della fiducia, che vale come adesione rispetto a un programma, né al Governo indicando taluni dei ministri che vi parteciparono.

Molto diverso lo sceneggiato che andò in onda il 23 aprile 1987, d’altraa parte Drive In e Colpo Grosso avevano preso il posto di Sandokan, con protagonisti Forlani, Craxi, Pannella, Martinazzoli e, perfino, Nicolazzi. Forlani aveva i numeri per confezionare un esecutivo di fine legislatura. Craxi fece crollare questa ipotesi annunciando il voto favorevole dei socialisti. Martinazzoli, di cui tutto si può dire ma non che fosse una persona seria, per evitare che i democristiani fossero condizionati dai socialisti nell’esperienza di governo, fece sì che i parlamentari D.C. si astenessero dal voto, con il risultato che un monocolore D.C. non passò per effetto dell’astensione dei parlamentari della D.C.

In questa operazione, vi era tutta la genialità regolamentare di Pannella e l’arrogante spavalderia di Craxi.

In entrambi i casi, si rivela la sostanza etica della fiducia parlamentare: nella “non sfiducia” dell’Andreotti III, il P.C.I. accetta di sostenere una politica che ritiene essere nell’interesse della Repubblica ma non può ideologicamente condividere la responsabilità del Governo, perché la sua ideologia gli consente di condividere determinate scelte ma non gli consente di condividere la visione generale degli interessi della Nazione che amalgama i partiti della maggioranza di Governo e che consente al Presidente del Consiglio di operare l’attività di sintesi che chiamiamo indirizzo politico. E’ la stessa visione che giustifica il rifiuto di Martinazzoli ad accettare una fiducia sfiduciante: se chi mi dà la fiducia, non ha la mia stessa visione degli interessi della Nazione, la fiducia è un sofisma, perché non esprime l’indirizzo politico che giustifica l’unione fra esecutivo e rappresentanza.

Il ragionamento di Conte è esattamente il contrario: posso stare al Governo anche se non ne condivido singole scelte.

In un mondo normale, un mondo diverso dai monster movies che passano in questi giorni sull’Ansa, chi non condivide una scelta deve fare del proprio meglio perché quella scelta non produca conseguenze e se non ci riesce si deve dimettere.

Se non mi piace risolvere con un termovalorizzatore l’emergenza dei rifiuti di Roma, devo cercare soluzioni alternative, continuando a incenerire i rifiuti della capitale a Torino; se non mi piace che in un testo di conversione di un decreto legge vi siano delle disposizioni disomogenee, devo protestare alla Camera nel Comitato per la Legislazione e al Senato in Commissione Affari Costituzionali, e così via. Non mi posso allontanare e lasciare che quella scelta faccia il proprio corso.

Non è una cosa seria.

E’ difficile immaginare che cosa deciderà Draghi, se dimettersi irrevocabilmente, come pareva avere anticipato nelle sue ultime dichiarazioni, o se tornare alle Camere per un nuovo voto di fiducia.

Sicuramente, però, Conte sta introducendo un nuovo modello di non fiducia: la fiducia intermittente e questo pare in assoluto contrasto con l’essenza del nostro regime parlamentare e, forse, anche con l’essenza logica del regime parlamentare.

P.s.

Draghi, alla fine, si è dimesso e Mattarella gli ha chiesto di presentarsi alla Camere, parlamentarizzando la crisi, che è diventata una cosa seria, assolutamente seria.

Il nodo politico della questione è anche costituzionale: l’unica alternativa nell’effettivo interesse del Paese sembra essere un governo a guida Draghi formato esclusivamente da tecnici e fondato sulla Non Fiducia di tutti i partiti politici.

Una sorta di estremizzazione del compromesso storico e della logica delle convergenze parallele che odora molto di Giolitti e rammenta da vicino la non ideologia che ha caratterizzato il De Pretis del discorso di Stradella.

Potrebbe essere arrivato il momento di staccare definitivamente la funzione di Governo dai partiti politici: se i partiti politici non esistono più, perché devono ostacolare una funzione che è sempre più vicina all’amministrazione in senso tecnico e distante dall’indirizzo politico?

Sicuramente è l’unica ipotesi che potrebbe consentire di arrivare a una riforma della legislazione elettorale che tenga conto della riduzione del numero dei parlamentari.

P.p.s.

Conte ha la stessa statura Shakespeariana di Lino Banfi, con tutta la stima per l’avanspettacolo in politica che chi scrive è capace di manifestare.

Si è trovato in una situazione assai complicata da gestire nel momento in cui ha perso Palazzo Chigi. Era il momento di abbandonare la politica, scegliere la via dell’esilio, allontanarsi dal palcoscenico.

Non ha voluto farlo e ha dovuto subire il tradimento dell’ala governista del Movimento e non ha compreso che l’ala più estremista aveva un unico interesse: fare cadere il Governo restando pura.

Lo ha fatto.

Suicidandosi, perché voglio vedere se Di Battista e Grillo si lasciano guidare dalla sua autorevolezza in una campagna elettorale tutt’altro che semplice.

Suicidando anche il P.D. perché in queste condizioni un campo largo è impossibile. Ma, per una volta, si potrà capire che l’opposizione è l’unico punto di partenza ragionevole per costruire una proposta politica e di lungo periodo.

Aristotele e la guerra in Ucraina

in profstanco / by Gian Luca Conti
14/05/2022

E’ facile seguire la Carlassarre sul valore assiologico dell’art. 11, Cost. (L. Carlassarre, L’art. 11, Cost. nella visione dei Costituenti, in Costituzionalismo, 2013). Quella disposizione, lo chiarisce Ruini (Assemblea seduta pomeridiana del 24
marzo 1947), esprime il proprio valore normativo nella caratterizzazione lessicale del divieto: rifiutare avrebbe significato soltanto non accettare, condannare avrebbe significato che l’illegittimità derivava da un ordine diverso e superiore a quello costituzionale, ripudiare, invece, è il verbo che nasce dalla necessità di allontanare chi ci ha tradito e la condanna della guerra è la condanna di un sistema di soluzione delle controversie che tradisce la natura stessa del patto costituzionale, che viola la radice del legame su cui la Repubblica fonda il proprio sistema di valori.

E’ una pista interpretativa, ma anche etica, che sembra condurre a una scelta necessaria di neutralità: la condanna della guerra sembra dover riguardare entrambe le parti del conflitto. L’una si sostiene ha aggredito l’altra per delle ragioni che esistono e che hanno una sicura caratura politica e ideologica. L’altra non poteva non difendersi.

La condanna della guerra non può che essere incondizionata, secondo questo schema interpretativo. Impone una scelta per la neutralità e non ci possono essere ragioni superiori al valore espresso dalla condanna costituzionale.

Eppure non è così.

Condannare la guerra significa condannare tutti coloro che non ripudiano la guerra. Vale per un mettersi incondizionatamente dalla parte di chi è vittima di una guerra. Impone un esercizio complesso e intimamente politico perché obbliga, in caso di conflitto a schierarsi da una parte o dall’altra. Scegliere quale delle due o più parti del conflitto è stata costretta alla guerra e quale invece ha scelto di utilizzare la forza per affermare la propria volontà di dominio.

Aristotele ricorda che fra le leggi promulgate da Solone vi era quella che puniva l’atimia (Athen. Poi, 8, 5), ovvero il rifiuto di prendere parte in una guerra civile per l’una o per l’altra parte. In questo caso, il colpevole veniva allontanato per sempre dalla città e i suoi beni venivano confiscati (si ob discordiam dissensionemque seditio atque discessio populi in duas partes fiet et ob earn causam irritatis animis utrimque arma capientur pugnabiturque, tum qui in eo tempore in eoque casu civilis discordiae non alterutrae parti sese adiunxerit, sed solitarius separatusque a communi malo civitatis secesserit, is domo, patria fortunisque omnibus careto, exsul extorrisque esto, si legge in Gellio, mentre Cicerone sosteneva che si applicasse la pena capitale, il tutto in L. Piccirilli, Aristotele e l’atimia (Athen. Pol., 8, 5), in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, 1976).

Il cittadino che non prende parte alla guerra civile, vuoi per l’una o per l’altra parte, ma si isola nella propria solitaria neutralità, non merita di appartenere più alla sua comunità.

Sono questi i valori che permettono di rileggere l’art. 11, Cost. e applicarlo alla guerra in Ucraina e alle complesse questioni poste da questo evento.

L’art. 11, Cost. non si limita a ripudiare la guerra ma impone alla comunità statale di determinare la propria posizione rispetto alla controversia in essere. Questa posizione non può essere di neutralità ma impone di condannare fermamente la parte o le parti che, in quel determinato conflitto, meritano di essere condannate.

Nonostante le conseguenze “imprevedibili” minacciate da Putin nei suoi discorsi rivolti ai paesi occidentali, conseguenze che non sono mai state affrontate nella storia, sempre per ricordare i discorsi di questo uomo politico.

Certo sono valori, quelli costituzionali e, in particolare, la scelta pacifista del ripudio della guerra, che tendono a evaporare nella società contemporanea che non conosce la disperata fame di libertà dei Costituenti, il loro entusiasmo di schiavi liberati, la forza della loro gioventù.

La nostra è una società che guarda la guerra su uno schermo al plasma, dove droni e bombe intelligenti sfidano le serie di Netflix e un miliardario egotico manifesta la volontà di diventare il principale imprenditore della libertà di manifestazione del pensiero.

Una società che ha preferito rinunciare alle più liberali e classiche libertà negative per salvaguardare il proprio benessere mentre un morbo sottilmente orribile lo minacciava.

Questo mondo non è il mondo dei Costituenti che avevano letto Aristotele e avevano imparato dall’Aventino il prezzo dell’atimia.

L’art. 11, Cost. non ripudia solo la guerra, condanna anche e soprattutto l’atimia ma è l’atimia, la disperata solitudine di chi si rifiuta a prendere parte a un conflitto perché teme per il proprio benessere, il sentimento che guida la società in questo difficile tratto di storia.

Non solo le posizioni indiane o cinesi di ipocrita neutralità, ma anche la scelta di chi, per un verso, sostiene le ragioni di un popolo invaso e assediato e, per altro verso, non rinuncia alle materie prime e alle commodities dal cui commercio trae alimento un’oligarchia che ha avuto bisogno di una guerra per mantenersi al potere.

Come mi chiamo? (La Corte e i cognomi)

in profstanco / by Gian Luca Conti
27/04/2022

Notoriamente la Corte costituzionale ha sempre ragione.

Anzi: la Corte costituzionale è una metafora della vita e non vi è evento della vita di un individuo che non possa essere risolto ricorrendo alla sua giurisprudenza.

La dottrina della Corte per molti costituzionalisti è l’equivalente del Talmud per un rabbino ortodosso.

Anche se, ovviamente, non hanno mai letto il Talmud. O, si potrebbe dire, non hanno letto neppure il Talmud.

L’ultima sentenza della Corte costituzionale di cui è stata data notizia a mezzo comunicato stampa è piuttosto divertente.

La Corte è stata investita della questione di legittimità costituzionale delle norme che impediscono ai genitori, se d’accordo, di dare al proprio figlio il cognome della madre anziché del padre e, giustamente, l’ha dichiarata costituzionalmente illegittima.

La conseguenza naturale sul piano additivo avrebbe dovuto essere che da qui in avanti i genitori possono scegliere se dare al proprio figlio il cognome dell’uno o dell’altro o di entrambi e che in assenza di questa scelta vale la previsione codicistica argomentata dall’art. 262, c.c. (sul punto, Corte cost. 282/2016).

La Corte, però, è andata più in là e ha stabilito che secondo gli artt. 2, 3 e 117, Cost., ciascuno dei genitori può, con l’accordo dell’altro, dare il proprio cognome al figlio e che in mancanza di una scelta di questo genere il figlio deve avere entrambi i cognomi. In quest’ultimo caso, però, i genitori devono trovare un accordo circa l’ordine nel quale i due cognomi devono comparire nei documenti. In assenza di accordo, specifica il comunicato stampa, si deve interpellare il giudice tutelare il quale deciderà (in base a quali criteri?) quale sia il cognome che risponde maggiormente all’interesse del minore. Read more →

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