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la Costituzione ride, ma è una cosa seria close

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Archive for category: News

Un nano nella Costituzione

in News / by Gian Luca Conti
04/01/2010

PornazziIl partito dell’amore viene affossato da Brunetta.
Con una intervista a Libero, nella quale propone di modificare anche la Prima parte della Costituzione.
Qualche riga può essere opportuna.
Il ministro della funzione pubblica, o di ciò che ne resta dopo i suoi interventi, non ha proclamato di voler cambiare l’intera Prima parte della Costituzione, ma di volerne salvaguardare i principi fondamentali, modificando quelle disposizioni che, a suo avviso, avrebbero resistito peggio alla prova dei tempi. Si tratterebbe dell’art. 1 (L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro), di 39 e 49, in punto di libertà sindacali e partiti politici, di 10 e 11, a proposito del valore dell’Unione europea, naturalmente sconosciuto ai costituenti.
In generale, può essere ragionevole sostenere la possibilità di modificare la Prima parte della Costituzione: sicuramente, gli artt. 39 e 49 devono fare i conti con un forte grado di dislessia del processo storico di attuazione dei valori costituzionali e il diritto di associarsi liberamente in partiti politici per concorrere con metodo democratico alla formazione dell’indirizzo politico nazionale dovrebbe essere completato, ad esempio, regolando il tema del conflitto di interessi e del grado di democrazia interna richiesto ai partiti politici.
E così via: l’art. 9 parla di ambiente solo come paesaggio e meriterebbe una rilettura maggiormente attenta ai temi dello sviluppo sostenibile.
Non così, forse, l’art. 1. La chiave del ragionamento di Brunetta potrebbe essere più profonda di quanto appaia dall’intervista. Il riferimento dell’art. 1 al lavoro come fondamento della democrazia, sul piano storico, deve essere letto come contrapposizione netta al capitale e come rifiuto della Costituzione di un sistema sociale ed economico fondato su di una economia di mercato puramente liberista.
E’ la promessa di una rivoluzione che compensa le delusioni del partito social comunista nella ricostruzione di Calamandrei.
Toccare questa disposizione costituzionale significherebbe cercare un altro fondamento assiologico per la nostra democrazia e Brunetta propone il mercato accanto al merito.
Come si potrebbe proporre il gioco o lo sviluppo sostenibile.
La verità, però, è che toccare un fondamento assiologico senza una impostazione ideologica forte, come forti erano le impostazioni dei costituenti, non ha nessun senso.
Significa spostare il peso del dialogo sulla distanza fra una democrazia di valori, come è ancora la nostra, ed una democrazia di procedure, come la nostra sta diventando.
La proposta di Brunetta, secondo questa chiave di lettura, dovrebbe essere ancora dilatata per essere completa ed onesta: L’Italia è una repubblica democratica che si fonda sul rispetto delle procedure stabilite nella presente Costituzione.
Ma una Costituzione senza valori fa davvero paura.

Libertà nella rete (A proposito del Popolo delle Libertà e dei suoi indirizzi sull’internet)

in News / by Gian Luca Conti
22/12/2009

giornali_strilloneIl senatore Raffaele Lauro ha presentato – alla stampa, ma non al Senato – un disegno di legge con cui proporrebbe di punire con una aggravante i reati di apologia ed istigazione commessi per il tramite della rete.
I reati di apologia e di istigazioni rappresentano un terreno costituzionalmente molto delicato: il confine della libertà di manifestazione del pensiero "lecita" e necessaria per l’affermazione dei valori costituzionali con quel pensiero che è talmente vicino all’azione da confondersi con essa.
E’ un tema vecchio: in realtà, probabilmente, dal punto di vista logico distinguere fra diverse categorie di pensiero sulla base della loro contiguità all’azione è un esercizio impossibile.
Una democrazia esige che la libertà di manifestazione del pensiero possa avere anche contenuto eversivo dell’ordine costituzionale: un partito politico può essere antisistema. Tuttavia il confine fra la normale attività di propaganda di un partito politico antisistema e l’apologia del reato di insurrezione armata ovvero l’istigazione all’attentato contro la Costituzione può essere molto labile.
Più interessante la questione del mezzo utilizzato: la rete diventa una aggravante.
Perché?
Perché usare la rete per diffondere le proprie opinioni politiche è più pericoloso di qualsiasi altro media?
La vera differenza fra la rete e gli altri mezzi di comunicazione è l’accessibilità e la costruzione di un modello democratico in cui è possibile la libera associazione fra quanti hanno idee e sentimenti simili fra di loro, senza alcuna barriera sociale o economica.
Il sottoscritto accede molto facilmente al suo blog per postare le sue idee, ha molte più difficoltà a scrivere per il Corsera o ad essere invitato da Vespa nel suo salotto pomeridianamente differito.
Questo rischia di dare molto fastidio e genera disegni di legge come quello annunciato, ma non presentato, più un cadeaux che un progetto di legge, dal senatore Lauro.
Ma non è Lauro che preoccupa di più in questo periodo.
Preoccupa il processo Vivi Down.
In questo processo, che sta arrivando a sentenza, quattro top manager di Google sono accusati di non avere impedito la trasmissione tramite You Tube di un video in cui un ragazzo affetto dalla sindrome di Down veniva vessato.
Un terribilmente banale episodio di cyberbullismo.
Per la pubblica accusa, Google, in persona dei suoi top manager, avrebbe dovuto impedire la diffusione di questo video.
L’accusa è eversiva di una serie di norme giurisprudenziali e di legge: il "service provider" che si limiti a concedere l’accesso alla rete, nonché lo spazio nel proprio "server" per la pubblicazione dei servizi informativi realizzati dal fornitore di informazioni, non è responsabile della violazione del diritto d’autore eventualmente compiuta da quest’ultimo (in questi termini, già: Tribunale  Cuneo, 23 giugno 1997, in Giur. piemontese 1997, 493).
Questo indirizzo giurisprudenziale si è consolidato nell’art. 16, primo comma, d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, per il quale:
Nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: (a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione; (b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso.
E’ una norma che, per la libertà di manifestazione del pensiero, ha un valore materialmente costituzionale, perché consente a qualunque persona di accedere alla rete e rendere accessibili le proprie idee senza subire il controllo preventivo di nessuno.
La sottile censura del processo Vivi Down, dal nome della associazione che lo promuove come parte civile, è pericolosa perché introduce nella rete una nuova tensione: le policies dei Service Provider in materia di privacy, per citare Facebook, ovvero di diritto di autore, per ricordare The Pirate Bay, possono decidere che cosa pensano le persone.
La tenaglia dei due movimenti, la giurisprudenza milanese del caso Vivi Down e l’aggravante Lauro, può rendere molto difficile manifestare il proprio pensiero ed è pericolosamente vicina ad un sentimento autoritario della rete che fa rabbrividire.

Ci può essere giustizia senza condanna?

in News / by Gian Luca Conti
12/12/2009

300px-Milano_-_Piazza_Fontana_-_Lapide_VittimePiazza Fontana pone molte domande.
Le continua a porre malgrado gli anni trascorsi.
Domande inutili, secondo il J’Accuse di Pasolini sul Corsera del 14 novembre 1974.
Che, però, riguardano la stessa costruzione retorica della democrazia in Italia.
La più classica di queste è se possa esistere una giustizia senza la condanna dei colpevoli.
Si aggancia ad una domanda più radicale: può esistere una democrazia senza giustizia?
La giustizia non è la condanna del colpevole.
E’ la seriamente pervicace ricerca del colpevole attraverso un processo giusto e fondato sulla presunzione di innocenza.
La giustizia può esistere senza condanne.
Non può esistere senza un giusto processo.
La democrazia ha bisogno della ricerca della verità, ma non della verità.
Piazza Fontana, secondo questo J’accuse, può entrare nel dibattito sul processo breve.
Il processo breve impone una selezione dei processi: non tutti i fatti che chiedono un processo possono essere oggetto di un processo se il processo deve essere breve.
La giustizia assume un tono aziendale.
Deve selezionare i casi che può affrontare con le proprie forze e accettare che per tutti gli altri casi il perdono della prescrizione cada sul bisogno di giustizia delle vittime.
Il punto del processo breve è questo: Chi decide chi deve avere giustizia?
E’ una decisione politica, perché la giustizia diventa un bene scarso e si deve scegliere chi la può ricevere.
Significa scegliere un nome su una lapide e scartare gli altri.
In questo schema, forse, il processo per Piazza Fontana non sarebbe più possibile perché toglierebbe troppi spazi ad altri processi.
In questo schema, la democrazia sceglie le verità che le interessa ricercare e, forse, smette di essere una democrazia.

Scommettiamo che tra qualche giorno non se ne parla più (Casta Gifuni)?

in News / by Gian Luca Conti
02/12/2009

Gaetano_GifuniGifuni è un gran commis d’etat.
Un vero gran commis d’etat.
A lungo segretario generale del Senato, ministro per i rapporti con il Parlamento in un governo Fanfani, ha terminato la sua carriera come segretario della Presidenza della Repubblica.
Una carriera apparentemente senza ombre, iniziata per concorso e terminata con l’unanime riconoscimento di massimo esperto delle prassi costituzionali.
La Presidenza della Repubblica vive di prassi costituzionali e attraverso le prassi costruisce il suo ruolo e, nelle prassi costituzionali, ad esempio in materia di formazione del governo o di gestione dei disegni di legge di iniziativa governativa, il segretario generale della Presidenza della Repubblica ha un ruolo delicatissimo e spesso decisivo.
Gifuni nella elaborazione di queste prassi è stato un ingegnere dalle qualità eccezionali.
Forse, un genio.
Un genio che è stato beccato con le mani nella marmellata.
Una marmellata che è eversiva delle prassi costituzionali finora in vigore e che Napolitano ha apertamente infranto.
La questione è facile, facile.
La Presidenza della Repubblica ha autonomia contabile.
Il che significa che i controlli con cui lo Stato deve assicurare, attraverso un terzo imparziale, che i denari provenienti dalla generalità dei contribuenti e destinati al soddisfacimento di interessi pubblici siano effettivametne impiegati a questo scopo, nel caso della Presidenza della Repubblica, come degli altri organi costituzionali, sono interni alla Presidenza della Repubblica stessa.
Questo principio è stato affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza 129 del 1981, proprio in un caso in cui la Corte dei Conti aveva avuto l’ardire di pretendere di sottoporre alla propria giurisdizione il controllo sulla dotazione della Presidenza della Repubblica e delle Camere.
Tradotto in pratica il principio della autonomia contabile della Presidenza della Repubblica funzionava con i denari della dotazione nella cassaforte del cassiere e gli alti funzionari della Presidenza che prelevavano liberamente sottoscrivendo delle ricevute che definire ironiche è un complimento.
Uno di questi signori era il nipote del Segretario Generale, il quale si era anche fatto una villetta abusiva nella tenuta di Castelporziano, senza i necessari permessi, ma in virtù di un provvedimento del Segretario Generale.
Brutta storia.
Brusca inversione delle prassi costituzionali da parte del Presidente Napolitano, il quale ha – giustamente – considerato che in questo caso il principio della autonomia costituzionale della Presidenza suonava come I panni sporchi si lavano in famiglia ed ha trasmesso il fascicolo sugli ammanchi e le altre irregolarità alla Procura della Repubblica.
Una scelta che suona come rinuncia alle prerogative stabilite da Corte 129 del 1981 e come volontaria sottoposizione alla supremazia della legge da parte della suprema carica dello Stato.
Una scelta che probabilmente Gifuni non avrebbe condiviso e che forse pensava che nessun Capo dello Stato avrebbe avuto il coraggio di compiere: nessun potere rinuncia mai volontariamente alle proprie guarentigie.
Tuttavia è una scelta che può far pensare in chiave di moral suasion.
Può far pensare talmente tanto che si può scommettere che nessuno fra qualche giorno ne parlerà più.
Esattamente come nessuno, nelle cronache che si dilungano sui nepotismo di Gifuni, ha commentato il valore costituzionale della denuncia di Napolitano.

Muftì Castelli

in News / by Gian Luca Conti
01/12/2009

Gli ingegneri sono persone pratiche.
Castelli è una persona pratica.
Di conseguenza, se la sua cravatta con nodo a rotonda stradale tuona, ci sono delle ragioni eminentemente pratiche.
Che riguardano il compagno Fini, secondo la definizione killer di Feltri, e la lotta per l’egemonia culturale all’interno del PdL.
La questione del referendum svizzero sui minareti, però, è molto più interessante.
Non ha nulla a che vedere con la libertà di culto.
Di per sé, è semplicemente una discussione sul diritto di una fede ad essere pervasivamente rumorosa.
Le campane sono pervasivamente rumorose e i Quaderni di diritto e politica ecclesiastica editi dal Mulino sono pieni di giurisprudenza che affronta sacerdoti accusati di molestie alla quiete pubblica per un uso disinvolto degli apparati sonori.
Come la Rivista giuridica dell’edilizia ha più volte rappresentato la delicata questione dell’interesse a ricorrere contro la licenza edilizia per la costruzione di un campanile.
I minareti, altrettanto.
Forse di più: il canto del Muezzin illumina l’alba nello stretto dei Dardanelli, ma può essere considerato fuor di luogo – come un cammello – in una valle Svizzera.
Tutto qui: il suono della religione si giustifica con le radici culturali di un popolo ed un popolo non ha, probabilmente, il diritto di esportare queste radici, che fanno parte di un ecosistema e in un altro ecosistema possono funzionare come organismi geneticamente modificati.
Ma questo non ha nulla a che vedere con la libertà di culto.
Non ha nulla a che vedere con la reazione becera del Muftì Castelli che pretende di inserire la croce nella bandiera italiana, perché una società può essere multietnica ma non multiculturale.
In realtà, una società multietnica è necessariamente multiculturale e questa è una straordinaria fortuna, anche se impone di ripensare temi apparentemente religiosi ma retoricamente politici come l’ora di religione o il crocifisso, le campane ed i minareti.

Ciampi: era meglio quando cantavi il vino

in News / by Gian Luca Conti
24/11/2009

Il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi fu accolto nella sua città natale da una scritta di dimensioni ragguardevoli: Ciampi, era meglio quando cantavi del vino.
Testo degno di un Cardinali.
Perfettamente disincantato, come è di una città in cui si sta troppo bene per poter immaginare di aver voglia di lavorare.
Ma Ciampi non è più livornese da molti anni.
Di conseguenza, invece di non far nulla, continua a lavorare anche in pensione e rilascia interviste che possono essere considerate interferenze istituzionali.
Ciampi è un pensionato.
Un pensionato particolare perché è stato il presidente della Repubblica.
Ha rilasciato una intervistsa a Repubblica censurando in termini decisamente forti il presidente del Consiglio dei Ministri, fra l’altro, sul tema delle leggi ad personam, che sono sicuramente una questione molto delicata sul piano costituzionale.
E’ arrivato al punto di suggerire a Napolitano di avvalersi della prerogativa di non promulgare la legge una volta che sia approvata dalle Camere.
Questa esternazione, come si chiamavano le dichiarazioni di Cossiga, con il tono di chi definisce un discorso con il sapore di un rumore involontario del corpo, pone alcune questioni piuttosto complicate.
La prima è di carattere logico: il disegno di legge sul processo breve non è ancora stato presentato alle Camere, discusso o approvato, sicché si sta parlando di un nulla che potrebbe anche essere molto ragionevole sul piano costituzionale. Il diritto ad un processo che si concluda in tempi ragionevoli non pare poter essere considerato uno scandalo da nessuno.
La seconda è di carattere istituzionale: chi è stato presidente della Repubblica dovrebbe astenersi dal prendere posizione su problemi che affannano lo scrittoio del suo successore. Il presidente della Repubblica rappresenta l’unità costituzionale della nazione e l’unità costituzionale della nazione viene minata se un ex presidente della Repubblica interpreta il tessuto costituzionale in termini radicalmente difformi dall’attuale presidente della Repubblica. Se per un costituzionalista può essere normale avere idee diverse da un altro costituzionalista, può non essere altrettanto normale che due presidenti della Repubblica abbiano una posizione dialettica sul contenuto normativo della Costituzione.
La terza è di carattere costituzionale: gli ex presidenti della Repubblica sono senatori a vita, ovvero partecipano al dialogo politico con un ruolo al di sopra delle parti politiche perché non sono vincolati al mandato elettorale. Le prerogative della insindacabilità, in questo caso, sono prerogative a vita ed una assoluta immunità per qualsiasi pensiero espresso nell’esercizio delle proprie funzioni dovrebbe spingere al massimo self restraint.
Soprattutto, però, le dichiarazioni di Ciampi hanno mosso il presidente del Consiglio, sollecitato dal fido consigliere di sempre, a presentarsi al popolo, con un messaggio televisivo in cui, a rete unificate, dichiarerà il vero significato dell’offensiva giustizialista che è costretto a fronteggiare e invitare i matti alle botte non è mai una politica saggia.
Neppure per un pensionato.

Grazia per Berlusconi?

in News / by Gian Luca Conti
10/11/2009

fini_berlusconiFini e Berlusconi hanno parlato a lungo questa mattina.
Un colloquio che ha visto il Presidente della Camera rilasciare una rapida intervista, in cui si è detto soddisfatto dell’impegno del Governo a maggiori stanziamenti per la giustizia.
Il concambio è un disegno di legge che crea una corsia preferenziale per i cittadini incensurati sottoposti ad una azione penale: massimi sei anni per arrivare ad un verdetto definitivo dopo di che si ha la prescrizione del reato.
La cosa non convince.
Non perché sia sbagliato un disegno di legge di questo genere.
In astratto, non è sbagliato neppure il Lodo Alfano e, in astratto, l’immunità delle più alte cariche dello Stato è una scelta costituzionalmente ammissibile.
E’, inevitabilmente, sbagliato in concreto perché condiziona la politica criminale del paese ai bisogni di impunità del suo premier e, quindi, potrebbe essere considerato incostituzionale esattamente come il Lodo Alfano.
La strada costituzionale dell’immunità per Berlusconi è il decreto di grazia.
Napolitano deve firmare la grazia per Berlusconi, senza attendere che sia condannato, con una sicura torsione ad personam di tutti i principi costituzionali (nel potere di grazia, il confine fra azione penale e potere di clemenza è dato dal passaggio in giudicato della sentenza di condanna in modo da impedire che l’azione penale possa essere influenzata dal potere di clemenza e che il potere di clemenza possa entrare nel processo penale).
Eppure, appare più coerente: il Premier non vuole essere processato? che lo si liberi, ma lui e solo lui, da ogni processo, con un provvedimento naturalmente singolare e senza continuare a cercare soluzioni che non possono essere buone per tutti giacché sono studiate per una sola persona. 
In fondo, Berlusconi ritiene di non poter essere processato in virtù del voto popolare e la grazia lo libererebbe da ogni processo per ragioni taumaturgiche.
Basterebbe un disegno di legge costituzionale in cui si dica che il Presidente della Repubblica può concedere la grazia alle più alte cariche dello Stato per insigni meriti astrali.
O qualcosa del genere, magari con il parere vincolante del Papa.
Tanto siamo a prenderci per il naso e l’articolo più cliccato del corriere on line, oggi, è Maurizio Corona prende due multe per eccesso di velocità.

68, 90 e 96 sulla ruota di Roma (Parametri a caso in una difesa parlamentare)

in News / by Gian Luca Conti
29/10/2009

lottoC’è un ministro del Parlamento che si chiama Altero Matteoli.
Il nome sa di risorgimento.
Lo scandalo in cui è coinvolto meno.
Questo ministro viene a sapere che un prefetto è sottoposto ad una indagine penale e che le comunicazioni del funzionario sono intercettate dalla Procura.
Avverte il funzionario di entrambe le cose.
Di conseguenza, viene intrapreso un procedimento a suo carico in cui si deve accertare se ha violato il segreto di ufficio o se ha illecitamente favorito il prefetto.
Questo ministro ha un avvocato che si chiama Consolo e che è parlamentare.
La tesi del legale del ministro è che il ministro abbia commesso un reato ministeriale e che: (i) debba essere giudicato dal Tribunale dei Ministri; (ii) la Camera dei Deputati debba pronunciarsi sulla autorizzazione a procedere nei confronti del ministro.
Il punto, che può sfuggire, è che i ministri godono di un regime penale singolare, che subordina l’esercizio della azione penale nei loro confronti alla autorizzazione di una Camera, solo per i reati ministeriali, ovvero per le fattispecie criminose che siano collegate all’esercizio delle loro funzioni di governo.
L’idea è che il ministro, in quanto vertice dell’esecutivo, possa andare oltre alla lettera della legge e commettere anche dei reati, che possono trovare una giustificazione politica e che in questi casi la giustificazione politica possa consentire l’assoluzione del ministro.
Questo accade nei casi in cui la Camera – a maggioranza assoluta dei propri membri – giudichi che il ministro ha agito per la tutela di un interesse costituzionalmente rilevante ovvero per il conseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo (art. 9, terzo comma, legge cost. 1/1989).
Questa valutazione è una valutazione politica e come tale insindacabile.
Di conseguenza, la Camera di appartenenza del ministro può, con un voto a maggioranza assoluta, assolverlo.
La maggioranza del voto è la motivazione dei presupposti di cui all’art. 9, terzo comma, legge cost. 1/1989.
Che perciò potrebbero anche non sussistere, ma essere egualmente dichiarati, con l’unica sanzione della responsabilità politica del voto parlamentare.
In altre parole, una maggioranza forte è arbitra dell’esercizio dell’azione penale nei confronti dei membri del governo purché l’azione penale riguardi dei reati commessi nell’esercizio delle funzioni ministeriali.
Di conseguenza, il nodo è di carattere procedurale e riguarda il soggetto che è chiamato a definire un determinato fatto come commesso nell’esercizio delle funzioni di governo.
Ad oggi, una piana lettura dell’art. 2, legge 219 del 1989, in combinato disposto con gli artt. 6 e 7, legge cost. 1/1989, riserva questa attribuzione al Procuratore della Repubblica del tribunale nella cui circoscrizione si è commesso il fatto, che deve trasmettere le denunzie al Collegio previsto dall’art. 7, legge cost. 1/1989 ed al Collegio inquirente che deve compiere tutte le indagini del caso restituendo gli atti al Procuratore della Repubblica che procede a richiedere l’autorizzazione a procedere nel caso in cui ritenga ragionevolmente fondate le accuse ovvero procede alla archiviazione.
In questa attribuzione, non vi è alcuno spazio per gli organismi parlamentari: è la magistratura che decide se quel determinato fatto ipotizzato a carico di un ministro è un reato ministeriale e quindi sottoposto ad un filtro di carattere politico oppure un reato comune per il quale il ministro è responsabile esattamente come ogni altro cittadino.
Il Parlamento, ieri, con una larga maggioranza, ha invertito questa posizione deliberando che spetta alla Camera decidere sulla natura politica o meno del reato ministeriale.
E’ una decisione che si presta a molte critiche.
La prima è di carattere logico: la legge cost. 1/1989 ha introdotto una condizione di procedibilità per l’esercizio della azione penale nei confronti dei reati ministeriali. Il giudice naturale delle condizioni di procedibilità è il giudice penale che come giudica dell’azione penale giudica anche delle condizioni di procedibilità della stessa. Questa osservazione è stressata, nel senso di sottolineata con forza, dal disegno di legge 891 del 2008, a firma Consolo, dove la pregiudizialità della valutazione parlamentare è imposta con una modifica espressa dell’art. 2, legge 219 del 1989 e sul piano intellettuale presentare un disegno di legge che prevede l’esercizio di una attribuzione significa confessare che sino a quel momento quella attribuzione non è riconosciuta a favore del soggetto cui si intende attribuirla.
La seconda è di carattere costituzionale: il dibattito parlamentare ha fatto tesoro della giurisprudenza costituzionale sviluppata sull’art. 68, Cost, che garantisce l’irresponsabilità dei parlamentari per le opinioni espresse ed i voti dati nell’esercizio delle loro funzioni. Secondo questa giurisprudenza spetta alle Camere stabilire se una opinione o un voto sono inerenti all’esercizio delle funzioni parlamentari, perché la prerogativa della insindacabilità si salda alla autonomia del Parlamento. Ma l’art. 96, Cost. non riguarda l’autonomia del Governo, nevvero che il voto sulla autorizzazione a procedere è affidato al Parlamento, che in questo modo esercita la propria funzione di controllo politico sull’operato ministeriale.
La terza è sempre di carattere costituzione e riguarda l’art. 90, Cost, non evocato nel dibattito parlamentare. Il giudizio penale sulla responsabilità del Presidente della Repubblica per alto tradimento e attentato alla Costituzione è affidato alla Corte costituzionale, sulla base delle indagini svolte dal comitato di cui all’art. 12, legge cost. 1/1953. Questo comitato viene equiparato dall’art. 5, legge 219 del 1989 al collegio di cui all’art. 7, legge cost. 1/1989 ed ha il compito, così l’art. 8, secondo comma, legge 219 del 1989, di stabilire se i fatti per i quali si sta esercitando l’azione penale cadono o meno nell’ambito di applicazione dell’art. 90, Cost. Se è così, per logica sistematica, il collegio di cui all’art. 7, legge 219 del 1989 ha il compito di effettuare la stessa valutazione con riferimento all’art. 96, Cost.
La decisione della Camera dei Deputati, però, pone una questione molto più grave: se una camera può decidere a maggioranza assoluta di considerare come reato ministeriale qualsiasi fatto per il quale siano in corso delle indagini nei confronti di un membro del governo, la definizione di reato ministeriale diventa politica e questo è possibile solo nel caso di cui all’art. 90, Cost, per la particolare posizione del Capo dello Stato nella forma di governo ed il peculiare disegno della responsabilità penale "aperta" disegnata dalla Costituzione nei suoi riguardi come una sorta di spada di Damocle.
Significa affidare il compito, l’attribuzione costituzionale, di decidere se un ministro può essere sottoposto a processo ad una maggioranza politica, con una torsione non indifferente dei principi dello Stato di diritto.
Di Pietro, ieri, è stato molto efficace sul punto: Che ci azzecca un ministro che dice ad un prefetto che è indagato e che deve stare attento quando parla al telefono con il perseguimento di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o di un interesse pubblico connesso all’esercizio delle funzioni di governo?
C’entra 375 "si" contro 199 "no".
Solo questo e non altro.

Lombardi l’infedele senza giustizia

in News / by Gian Luca Conti
21/10/2009

Immagine 1Lombardi Vallauri è un professore di filosofia del diritto.
E’ anche un nonno molto simpatico ed uno dei presidenti di commissione di laurea più divertenti di tutti i tempi.
Si è rivolto alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per avere soddisfazione contro il provvedimento dell’Università Cattolica che non aveva accettato la sua domanda per il corso di filosofia del diritto nell’anno accademico 1998 – 1999.
Tanto il Tar del Lazio che il Consiglio di Stato avevano ritenuto giustificato il provvedimento del Consiglio di Facoltà: la Chiesa cattolica aveva espresso il proprio veto all’insegnamento del prof. Vallauri, perché lo stesso si poneva in contrasto con i principi della religione cattolica e perciò costituiva un attentato al benessere spirituale degli studenti. La Chiesa cattolica ha il potere di esprimere il veto sugli insegnanti nelle scuole cattoliche a norma del Concordato. Il Concordato ha dignità costituzionale e non è consentito alle autorità dello Stato italiano discutere il veto della Chiesa cattolica senza interferire con l’esercizio delle prerogative che le spettano.
Per la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, è stata violata la libertà di espressione dell’uomo Vallauri (Lombardo, nel press release), perché il Consiglio di Facoltà avrebbe potuto negargli l’insegnamento, di cui era titolare da oltre venti anni, solo dopo avere preso in considerazione le ragioni che sorreggevano il pronunciamento della Chiesa cattolica.
In altre parole, la Corte di Strasburgo non ha affermato che Vallauri aveva il diritto di insegnare in una università confessionale anche se le sue opinioni non coincidevano con quelle della confessione che finanzia l’università, o che lo Stato italiano non può accettare che la libertà di insegnamento possa essere limitata per ragioni di carattere confessionale, ma solo che le ragioni di carattere confessionale che militavano contro Vallauri avrebbero dovuto essere oggetto di una motivazione espressa.
Non è un gran passo in avanti per la libertà religiosa.
Il punto era – ed è dal 1972 – che l’Università Cattolica è una persona giuridica di diritto pubblico e come tale fa parte dello Stato apparato. Le norme concordatarie possono essere oggetto di sindacato da parte della Corte costituzionale (e oggi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo) per contrasto con i principi fondamentali della Costituzione, che non possono essere modificati da una fonte subcostituzionale. La libertà di insegnamento è un principio fondamentale della Costituzione e non può essere limitata per ragioni di carattere confessionale.
In nessun caso.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, nel momento in cui afferma che l’art. 10 della Convenzione consente limitazioni della libertà di espressione che siano previste dalla legge e che abbiano uno scopo ragionevole, perché necessario ad una società democratica, riconosce anche che la limitazione del diritto all’insegnamento in una scuola confessionale può essere legittima in virtù di questo principio, massacra l’essenza della libertà di insegnamento, che è libertà di prescindere da qualsiasi imperativo di carattere religioso, etico o politico nella scelta delle pregiudiziali di carattere ideologico che rendono l’insegnare una attività inevitabilmente politica.
Non è una bella sentenza.
Per nulla.
Peggio, c’è solo l’osservatorio sulla giurisprudenza della Corte Europea della Presidenza del Consiglio dei Ministri che non ne fa minimamente parola. 

Gli omosessuali e la loro rappresentanza politica

in News / by Gian Luca Conti
14/10/2009

b17fe6cba754de3d2cda6c236d77ea57La Camera dei Deputati ha ritenuto, con una maggioranza non troppo risicata, di non proseguire nell’esame dell’aggravante per i reati commessi a causa dell’orientamento sessuale.
Le motivazioni tecniche della mozione pregiudiziale riguardavano il principio di eguaglianza (secondo Buttiglione: le ossa di un omosessuale devono costare in termini di pena quanto le ossa di un eterosessuale) ed il principio di tassatività delle fattispecie penali (in pratica, dimostrare che un reato è stato commesso in virtù dell’orientamento sessuale sarebbe talmente complesso da risultare discrezionale).
Sono entrambi argomenti che non reggono.
Tutte le aggravanti e tutte le attenuanti ledono il principio di eguaglianza della persona offesa: le ossa di un disgraziato malmenato da un incensurato, che ha diritto alle attenuanti generiche, costano meno delle ossa di un altrettanto disgraziato picchiato da un extracomunitario con precedenti penali.
Tutte le fattispecie penali evocano concetti che hanno bisogno di interpretazione per essere applicati e la interpretazione determina un alto tasso di discrezionalità, come si è già avuto modo di osservare.
Il punto, però, è diverso.
Le aggravanti sono uno strumento di politica criminale, perché stabiliscono quali comportamenti sono più pericolosi per la convivenza in un determinato momento storico.
In questo momento storico, i reati contro gli omosessuali fanno davvero più paura di altri reati?
Bastano i quaranta casi di violenza ai danni di diversamente orientati per giustificare una aggravante?
Forse no.
Sicuramente no.
Come sicuramente, così Grillini, paragonare gli omosessuali in Italia agli ebrei nella Germania di Hitler è grave ed ingiusto.
Il problema è solo politico.
Gli omosessuali sono una lobby molto ricca e molto potente.
Una lobby che tutti vogliono nel proprio cartello elettorale.
Di qui, il progetto di legge.
Di qui, la fronda finiana, sempre molto acuta.
Di qui, la Binetti, che, per una volta, fa una splendida figura, perché ha correttamente interpretato il principio del libero mandato parlamentare. 

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