Libertà nella rete (A proposito del Popolo delle Libertà e dei suoi indirizzi sull’internet)
Il senatore Raffaele Lauro ha presentato – alla stampa, ma non al Senato – un disegno di legge con cui proporrebbe di punire con una aggravante i reati di apologia ed istigazione commessi per il tramite della rete.
I reati di apologia e di istigazioni rappresentano un terreno costituzionalmente molto delicato: il confine della libertà di manifestazione del pensiero "lecita" e necessaria per l’affermazione dei valori costituzionali con quel pensiero che è talmente vicino all’azione da confondersi con essa.
E’ un tema vecchio: in realtà, probabilmente, dal punto di vista logico distinguere fra diverse categorie di pensiero sulla base della loro contiguità all’azione è un esercizio impossibile.
Una democrazia esige che la libertà di manifestazione del pensiero possa avere anche contenuto eversivo dell’ordine costituzionale: un partito politico può essere antisistema. Tuttavia il confine fra la normale attività di propaganda di un partito politico antisistema e l’apologia del reato di insurrezione armata ovvero l’istigazione all’attentato contro la Costituzione può essere molto labile.
Più interessante la questione del mezzo utilizzato: la rete diventa una aggravante.
Perché?
Perché usare la rete per diffondere le proprie opinioni politiche è più pericoloso di qualsiasi altro media?
La vera differenza fra la rete e gli altri mezzi di comunicazione è l’accessibilità e la costruzione di un modello democratico in cui è possibile la libera associazione fra quanti hanno idee e sentimenti simili fra di loro, senza alcuna barriera sociale o economica.
Il sottoscritto accede molto facilmente al suo blog per postare le sue idee, ha molte più difficoltà a scrivere per il Corsera o ad essere invitato da Vespa nel suo salotto pomeridianamente differito.
Questo rischia di dare molto fastidio e genera disegni di legge come quello annunciato, ma non presentato, più un cadeaux che un progetto di legge, dal senatore Lauro.
Ma non è Lauro che preoccupa di più in questo periodo.
Preoccupa il processo Vivi Down.
In questo processo, che sta arrivando a sentenza, quattro top manager di Google sono accusati di non avere impedito la trasmissione tramite You Tube di un video in cui un ragazzo affetto dalla sindrome di Down veniva vessato.
Un terribilmente banale episodio di cyberbullismo.
Per la pubblica accusa, Google, in persona dei suoi top manager, avrebbe dovuto impedire la diffusione di questo video.
L’accusa è eversiva di una serie di norme giurisprudenziali e di legge: il "service provider" che si limiti a concedere l’accesso alla rete, nonché lo spazio nel proprio "server" per la pubblicazione dei servizi informativi realizzati dal fornitore di informazioni, non è responsabile della violazione del diritto d’autore eventualmente compiuta da quest’ultimo (in questi termini, già: Tribunale Cuneo, 23 giugno 1997, in Giur. piemontese 1997, 493).
Questo indirizzo giurisprudenziale si è consolidato nell’art. 16, primo comma, d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, per il quale:
Nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: (a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione; (b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso.
E’ una norma che, per la libertà di manifestazione del pensiero, ha un valore materialmente costituzionale, perché consente a qualunque persona di accedere alla rete e rendere accessibili le proprie idee senza subire il controllo preventivo di nessuno.
La sottile censura del processo Vivi Down, dal nome della associazione che lo promuove come parte civile, è pericolosa perché introduce nella rete una nuova tensione: le policies dei Service Provider in materia di privacy, per citare Facebook, ovvero di diritto di autore, per ricordare The Pirate Bay, possono decidere che cosa pensano le persone.
La tenaglia dei due movimenti, la giurisprudenza milanese del caso Vivi Down e l’aggravante Lauro, può rendere molto difficile manifestare il proprio pensiero ed è pericolosamente vicina ad un sentimento autoritario della rete che fa rabbrividire.