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Archive for month: Dicembre, 2009

Libertà nella rete (A proposito del Popolo delle Libertà e dei suoi indirizzi sull’internet)

in News / by Gian Luca Conti
22/12/2009

giornali_strilloneIl senatore Raffaele Lauro ha presentato – alla stampa, ma non al Senato – un disegno di legge con cui proporrebbe di punire con una aggravante i reati di apologia ed istigazione commessi per il tramite della rete.
I reati di apologia e di istigazioni rappresentano un terreno costituzionalmente molto delicato: il confine della libertà di manifestazione del pensiero "lecita" e necessaria per l’affermazione dei valori costituzionali con quel pensiero che è talmente vicino all’azione da confondersi con essa.
E’ un tema vecchio: in realtà, probabilmente, dal punto di vista logico distinguere fra diverse categorie di pensiero sulla base della loro contiguità all’azione è un esercizio impossibile.
Una democrazia esige che la libertà di manifestazione del pensiero possa avere anche contenuto eversivo dell’ordine costituzionale: un partito politico può essere antisistema. Tuttavia il confine fra la normale attività di propaganda di un partito politico antisistema e l’apologia del reato di insurrezione armata ovvero l’istigazione all’attentato contro la Costituzione può essere molto labile.
Più interessante la questione del mezzo utilizzato: la rete diventa una aggravante.
Perché?
Perché usare la rete per diffondere le proprie opinioni politiche è più pericoloso di qualsiasi altro media?
La vera differenza fra la rete e gli altri mezzi di comunicazione è l’accessibilità e la costruzione di un modello democratico in cui è possibile la libera associazione fra quanti hanno idee e sentimenti simili fra di loro, senza alcuna barriera sociale o economica.
Il sottoscritto accede molto facilmente al suo blog per postare le sue idee, ha molte più difficoltà a scrivere per il Corsera o ad essere invitato da Vespa nel suo salotto pomeridianamente differito.
Questo rischia di dare molto fastidio e genera disegni di legge come quello annunciato, ma non presentato, più un cadeaux che un progetto di legge, dal senatore Lauro.
Ma non è Lauro che preoccupa di più in questo periodo.
Preoccupa il processo Vivi Down.
In questo processo, che sta arrivando a sentenza, quattro top manager di Google sono accusati di non avere impedito la trasmissione tramite You Tube di un video in cui un ragazzo affetto dalla sindrome di Down veniva vessato.
Un terribilmente banale episodio di cyberbullismo.
Per la pubblica accusa, Google, in persona dei suoi top manager, avrebbe dovuto impedire la diffusione di questo video.
L’accusa è eversiva di una serie di norme giurisprudenziali e di legge: il "service provider" che si limiti a concedere l’accesso alla rete, nonché lo spazio nel proprio "server" per la pubblicazione dei servizi informativi realizzati dal fornitore di informazioni, non è responsabile della violazione del diritto d’autore eventualmente compiuta da quest’ultimo (in questi termini, già: Tribunale  Cuneo, 23 giugno 1997, in Giur. piemontese 1997, 493).
Questo indirizzo giurisprudenziale si è consolidato nell’art. 16, primo comma, d.lgs. 9 aprile 2003, n. 70, per il quale:
Nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore: (a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione; (b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso.
E’ una norma che, per la libertà di manifestazione del pensiero, ha un valore materialmente costituzionale, perché consente a qualunque persona di accedere alla rete e rendere accessibili le proprie idee senza subire il controllo preventivo di nessuno.
La sottile censura del processo Vivi Down, dal nome della associazione che lo promuove come parte civile, è pericolosa perché introduce nella rete una nuova tensione: le policies dei Service Provider in materia di privacy, per citare Facebook, ovvero di diritto di autore, per ricordare The Pirate Bay, possono decidere che cosa pensano le persone.
La tenaglia dei due movimenti, la giurisprudenza milanese del caso Vivi Down e l’aggravante Lauro, può rendere molto difficile manifestare il proprio pensiero ed è pericolosamente vicina ad un sentimento autoritario della rete che fa rabbrividire.

Ci può essere giustizia senza condanna?

in News / by Gian Luca Conti
12/12/2009

300px-Milano_-_Piazza_Fontana_-_Lapide_VittimePiazza Fontana pone molte domande.
Le continua a porre malgrado gli anni trascorsi.
Domande inutili, secondo il J’Accuse di Pasolini sul Corsera del 14 novembre 1974.
Che, però, riguardano la stessa costruzione retorica della democrazia in Italia.
La più classica di queste è se possa esistere una giustizia senza la condanna dei colpevoli.
Si aggancia ad una domanda più radicale: può esistere una democrazia senza giustizia?
La giustizia non è la condanna del colpevole.
E’ la seriamente pervicace ricerca del colpevole attraverso un processo giusto e fondato sulla presunzione di innocenza.
La giustizia può esistere senza condanne.
Non può esistere senza un giusto processo.
La democrazia ha bisogno della ricerca della verità, ma non della verità.
Piazza Fontana, secondo questo J’accuse, può entrare nel dibattito sul processo breve.
Il processo breve impone una selezione dei processi: non tutti i fatti che chiedono un processo possono essere oggetto di un processo se il processo deve essere breve.
La giustizia assume un tono aziendale.
Deve selezionare i casi che può affrontare con le proprie forze e accettare che per tutti gli altri casi il perdono della prescrizione cada sul bisogno di giustizia delle vittime.
Il punto del processo breve è questo: Chi decide chi deve avere giustizia?
E’ una decisione politica, perché la giustizia diventa un bene scarso e si deve scegliere chi la può ricevere.
Significa scegliere un nome su una lapide e scartare gli altri.
In questo schema, forse, il processo per Piazza Fontana non sarebbe più possibile perché toglierebbe troppi spazi ad altri processi.
In questo schema, la democrazia sceglie le verità che le interessa ricercare e, forse, smette di essere una democrazia.

Scommettiamo che tra qualche giorno non se ne parla più (Casta Gifuni)?

in News / by Gian Luca Conti
02/12/2009

Gaetano_GifuniGifuni è un gran commis d’etat.
Un vero gran commis d’etat.
A lungo segretario generale del Senato, ministro per i rapporti con il Parlamento in un governo Fanfani, ha terminato la sua carriera come segretario della Presidenza della Repubblica.
Una carriera apparentemente senza ombre, iniziata per concorso e terminata con l’unanime riconoscimento di massimo esperto delle prassi costituzionali.
La Presidenza della Repubblica vive di prassi costituzionali e attraverso le prassi costruisce il suo ruolo e, nelle prassi costituzionali, ad esempio in materia di formazione del governo o di gestione dei disegni di legge di iniziativa governativa, il segretario generale della Presidenza della Repubblica ha un ruolo delicatissimo e spesso decisivo.
Gifuni nella elaborazione di queste prassi è stato un ingegnere dalle qualità eccezionali.
Forse, un genio.
Un genio che è stato beccato con le mani nella marmellata.
Una marmellata che è eversiva delle prassi costituzionali finora in vigore e che Napolitano ha apertamente infranto.
La questione è facile, facile.
La Presidenza della Repubblica ha autonomia contabile.
Il che significa che i controlli con cui lo Stato deve assicurare, attraverso un terzo imparziale, che i denari provenienti dalla generalità dei contribuenti e destinati al soddisfacimento di interessi pubblici siano effettivametne impiegati a questo scopo, nel caso della Presidenza della Repubblica, come degli altri organi costituzionali, sono interni alla Presidenza della Repubblica stessa.
Questo principio è stato affermato dalla Corte costituzionale con la sentenza 129 del 1981, proprio in un caso in cui la Corte dei Conti aveva avuto l’ardire di pretendere di sottoporre alla propria giurisdizione il controllo sulla dotazione della Presidenza della Repubblica e delle Camere.
Tradotto in pratica il principio della autonomia contabile della Presidenza della Repubblica funzionava con i denari della dotazione nella cassaforte del cassiere e gli alti funzionari della Presidenza che prelevavano liberamente sottoscrivendo delle ricevute che definire ironiche è un complimento.
Uno di questi signori era il nipote del Segretario Generale, il quale si era anche fatto una villetta abusiva nella tenuta di Castelporziano, senza i necessari permessi, ma in virtù di un provvedimento del Segretario Generale.
Brutta storia.
Brusca inversione delle prassi costituzionali da parte del Presidente Napolitano, il quale ha – giustamente – considerato che in questo caso il principio della autonomia costituzionale della Presidenza suonava come I panni sporchi si lavano in famiglia ed ha trasmesso il fascicolo sugli ammanchi e le altre irregolarità alla Procura della Repubblica.
Una scelta che suona come rinuncia alle prerogative stabilite da Corte 129 del 1981 e come volontaria sottoposizione alla supremazia della legge da parte della suprema carica dello Stato.
Una scelta che probabilmente Gifuni non avrebbe condiviso e che forse pensava che nessun Capo dello Stato avrebbe avuto il coraggio di compiere: nessun potere rinuncia mai volontariamente alle proprie guarentigie.
Tuttavia è una scelta che può far pensare in chiave di moral suasion.
Può far pensare talmente tanto che si può scommettere che nessuno fra qualche giorno ne parlerà più.
Esattamente come nessuno, nelle cronache che si dilungano sui nepotismo di Gifuni, ha commentato il valore costituzionale della denuncia di Napolitano.

Muftì Castelli

in News / by Gian Luca Conti
01/12/2009

Gli ingegneri sono persone pratiche.
Castelli è una persona pratica.
Di conseguenza, se la sua cravatta con nodo a rotonda stradale tuona, ci sono delle ragioni eminentemente pratiche.
Che riguardano il compagno Fini, secondo la definizione killer di Feltri, e la lotta per l’egemonia culturale all’interno del PdL.
La questione del referendum svizzero sui minareti, però, è molto più interessante.
Non ha nulla a che vedere con la libertà di culto.
Di per sé, è semplicemente una discussione sul diritto di una fede ad essere pervasivamente rumorosa.
Le campane sono pervasivamente rumorose e i Quaderni di diritto e politica ecclesiastica editi dal Mulino sono pieni di giurisprudenza che affronta sacerdoti accusati di molestie alla quiete pubblica per un uso disinvolto degli apparati sonori.
Come la Rivista giuridica dell’edilizia ha più volte rappresentato la delicata questione dell’interesse a ricorrere contro la licenza edilizia per la costruzione di un campanile.
I minareti, altrettanto.
Forse di più: il canto del Muezzin illumina l’alba nello stretto dei Dardanelli, ma può essere considerato fuor di luogo – come un cammello – in una valle Svizzera.
Tutto qui: il suono della religione si giustifica con le radici culturali di un popolo ed un popolo non ha, probabilmente, il diritto di esportare queste radici, che fanno parte di un ecosistema e in un altro ecosistema possono funzionare come organismi geneticamente modificati.
Ma questo non ha nulla a che vedere con la libertà di culto.
Non ha nulla a che vedere con la reazione becera del Muftì Castelli che pretende di inserire la croce nella bandiera italiana, perché una società può essere multietnica ma non multiculturale.
In realtà, una società multietnica è necessariamente multiculturale e questa è una straordinaria fortuna, anche se impone di ripensare temi apparentemente religiosi ma retoricamente politici come l’ora di religione o il crocifisso, le campane ed i minareti.

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