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la Costituzione ride, ma è una cosa seria close

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Fra Draghi e Conte, c’è Forlani? (Non fiducia, Fiducia sfiduciante e Fiducia intermittente)

in profstanco / by Gian Luca Conti
14/07/2022

I senatori del Movimento 5 Stelle si sono allontanati dall’aula al momento del voto di fiducia al Governo Draghi sulla conversione del decreto aiuti.

Draghi è salito al Quirinale annullando il Consiglio dei Ministri già fissato per le 15:30. Ha parlato per un’ora con il Capo dello Stato. E’ rientrato a Palazzo Chigi e ha convocato un nuovo Consiglio dei Ministri che si sta svolgendo mentre si scrivono queste righe.

La tesi di Conte, il leader del Movimento 5 Stelle, che pare avere il convinto sostegno di Di Battista e di Grillo, è che il Movimento sostiene convintamente il Governo da cui non ritira i propri ministri ma non può accettare di votare a favore di provvedimenti che si pongono in contrasto con la transizione ecologica.

I precedenti parlamentari sono due: il governo della non sfiducia di Andreotti (1976) e il fallito governo della fiducia sfiduciante di Forlani (1987).

Il primo precedente ha un che di antico e di nobile: è il Governo che ha gestito l’affare Moro, quello delle convergenze parallele o del compromesso storico (che non sono due espressioni per lo stesso fenomeno ma due visioni opposte del futuro). In questo caso, la fiducia fu votata da 258 deputati su 630, con 44 no e 328 astenuti; al Senato i “sì” furono 137 su 315, con 17 no e 161 astenuti. La visione che stava dietro alla non fiducia era la necessità di condividere scelte di grande impatto per la società. E’ di questo Governo sia il d.P.R. 616/1977, di attuazione del sistema regionale, che la riforma del sistema sanitario e quella del bilancio dello Stato. Condividere delle scelte trasversali rispetto all’indirizzo politico non significa condividere la visione politica della Società dei partiti che formano la maggioranza di Governo amalgamando le proprie ideologie. Per questo, coerentemente, il P.C.I., ma anche il Partito Socialista, quello Repubblicano, il Socialdemocratico e i liberali, hanno sostenuto il Governo nei voti parlamentari, non ne hanno provocato la caduta votando la sfiducia, ma non hanno partecipato né alla votazione della fiducia, che vale come adesione rispetto a un programma, né al Governo indicando taluni dei ministri che vi parteciparono.

Molto diverso lo sceneggiato che andò in onda il 23 aprile 1987, d’altraa parte Drive In e Colpo Grosso avevano preso il posto di Sandokan, con protagonisti Forlani, Craxi, Pannella, Martinazzoli e, perfino, Nicolazzi. Forlani aveva i numeri per confezionare un esecutivo di fine legislatura. Craxi fece crollare questa ipotesi annunciando il voto favorevole dei socialisti. Martinazzoli, di cui tutto si può dire ma non che fosse una persona seria, per evitare che i democristiani fossero condizionati dai socialisti nell’esperienza di governo, fece sì che i parlamentari D.C. si astenessero dal voto, con il risultato che un monocolore D.C. non passò per effetto dell’astensione dei parlamentari della D.C.

In questa operazione, vi era tutta la genialità regolamentare di Pannella e l’arrogante spavalderia di Craxi.

In entrambi i casi, si rivela la sostanza etica della fiducia parlamentare: nella “non sfiducia” dell’Andreotti III, il P.C.I. accetta di sostenere una politica che ritiene essere nell’interesse della Repubblica ma non può ideologicamente condividere la responsabilità del Governo, perché la sua ideologia gli consente di condividere determinate scelte ma non gli consente di condividere la visione generale degli interessi della Nazione che amalgama i partiti della maggioranza di Governo e che consente al Presidente del Consiglio di operare l’attività di sintesi che chiamiamo indirizzo politico. E’ la stessa visione che giustifica il rifiuto di Martinazzoli ad accettare una fiducia sfiduciante: se chi mi dà la fiducia, non ha la mia stessa visione degli interessi della Nazione, la fiducia è un sofisma, perché non esprime l’indirizzo politico che giustifica l’unione fra esecutivo e rappresentanza.

Il ragionamento di Conte è esattamente il contrario: posso stare al Governo anche se non ne condivido singole scelte.

In un mondo normale, un mondo diverso dai monster movies che passano in questi giorni sull’Ansa, chi non condivide una scelta deve fare del proprio meglio perché quella scelta non produca conseguenze e se non ci riesce si deve dimettere.

Se non mi piace risolvere con un termovalorizzatore l’emergenza dei rifiuti di Roma, devo cercare soluzioni alternative, continuando a incenerire i rifiuti della capitale a Torino; se non mi piace che in un testo di conversione di un decreto legge vi siano delle disposizioni disomogenee, devo protestare alla Camera nel Comitato per la Legislazione e al Senato in Commissione Affari Costituzionali, e così via. Non mi posso allontanare e lasciare che quella scelta faccia il proprio corso.

Non è una cosa seria.

E’ difficile immaginare che cosa deciderà Draghi, se dimettersi irrevocabilmente, come pareva avere anticipato nelle sue ultime dichiarazioni, o se tornare alle Camere per un nuovo voto di fiducia.

Sicuramente, però, Conte sta introducendo un nuovo modello di non fiducia: la fiducia intermittente e questo pare in assoluto contrasto con l’essenza del nostro regime parlamentare e, forse, anche con l’essenza logica del regime parlamentare.

P.s.

Draghi, alla fine, si è dimesso e Mattarella gli ha chiesto di presentarsi alla Camere, parlamentarizzando la crisi, che è diventata una cosa seria, assolutamente seria.

Il nodo politico della questione è anche costituzionale: l’unica alternativa nell’effettivo interesse del Paese sembra essere un governo a guida Draghi formato esclusivamente da tecnici e fondato sulla Non Fiducia di tutti i partiti politici.

Una sorta di estremizzazione del compromesso storico e della logica delle convergenze parallele che odora molto di Giolitti e rammenta da vicino la non ideologia che ha caratterizzato il De Pretis del discorso di Stradella.

Potrebbe essere arrivato il momento di staccare definitivamente la funzione di Governo dai partiti politici: se i partiti politici non esistono più, perché devono ostacolare una funzione che è sempre più vicina all’amministrazione in senso tecnico e distante dall’indirizzo politico?

Sicuramente è l’unica ipotesi che potrebbe consentire di arrivare a una riforma della legislazione elettorale che tenga conto della riduzione del numero dei parlamentari.

P.p.s.

Conte ha la stessa statura Shakespeariana di Lino Banfi, con tutta la stima per l’avanspettacolo in politica che chi scrive è capace di manifestare.

Si è trovato in una situazione assai complicata da gestire nel momento in cui ha perso Palazzo Chigi. Era il momento di abbandonare la politica, scegliere la via dell’esilio, allontanarsi dal palcoscenico.

Non ha voluto farlo e ha dovuto subire il tradimento dell’ala governista del Movimento e non ha compreso che l’ala più estremista aveva un unico interesse: fare cadere il Governo restando pura.

Lo ha fatto.

Suicidandosi, perché voglio vedere se Di Battista e Grillo si lasciano guidare dalla sua autorevolezza in una campagna elettorale tutt’altro che semplice.

Suicidando anche il P.D. perché in queste condizioni un campo largo è impossibile. Ma, per una volta, si potrà capire che l’opposizione è l’unico punto di partenza ragionevole per costruire una proposta politica e di lungo periodo.

Aristotele e la guerra in Ucraina

in profstanco / by Gian Luca Conti
14/05/2022

E’ facile seguire la Carlassarre sul valore assiologico dell’art. 11, Cost. (L. Carlassarre, L’art. 11, Cost. nella visione dei Costituenti, in Costituzionalismo, 2013). Quella disposizione, lo chiarisce Ruini (Assemblea seduta pomeridiana del 24
marzo 1947), esprime il proprio valore normativo nella caratterizzazione lessicale del divieto: rifiutare avrebbe significato soltanto non accettare, condannare avrebbe significato che l’illegittimità derivava da un ordine diverso e superiore a quello costituzionale, ripudiare, invece, è il verbo che nasce dalla necessità di allontanare chi ci ha tradito e la condanna della guerra è la condanna di un sistema di soluzione delle controversie che tradisce la natura stessa del patto costituzionale, che viola la radice del legame su cui la Repubblica fonda il proprio sistema di valori.

E’ una pista interpretativa, ma anche etica, che sembra condurre a una scelta necessaria di neutralità: la condanna della guerra sembra dover riguardare entrambe le parti del conflitto. L’una si sostiene ha aggredito l’altra per delle ragioni che esistono e che hanno una sicura caratura politica e ideologica. L’altra non poteva non difendersi.

La condanna della guerra non può che essere incondizionata, secondo questo schema interpretativo. Impone una scelta per la neutralità e non ci possono essere ragioni superiori al valore espresso dalla condanna costituzionale.

Eppure non è così.

Condannare la guerra significa condannare tutti coloro che non ripudiano la guerra. Vale per un mettersi incondizionatamente dalla parte di chi è vittima di una guerra. Impone un esercizio complesso e intimamente politico perché obbliga, in caso di conflitto a schierarsi da una parte o dall’altra. Scegliere quale delle due o più parti del conflitto è stata costretta alla guerra e quale invece ha scelto di utilizzare la forza per affermare la propria volontà di dominio.

Aristotele ricorda che fra le leggi promulgate da Solone vi era quella che puniva l’atimia (Athen. Poi, 8, 5), ovvero il rifiuto di prendere parte in una guerra civile per l’una o per l’altra parte. In questo caso, il colpevole veniva allontanato per sempre dalla città e i suoi beni venivano confiscati (si ob discordiam dissensionemque seditio atque discessio populi in duas partes fiet et ob earn causam irritatis animis utrimque arma capientur pugnabiturque, tum qui in eo tempore in eoque casu civilis discordiae non alterutrae parti sese adiunxerit, sed solitarius separatusque a communi malo civitatis secesserit, is domo, patria fortunisque omnibus careto, exsul extorrisque esto, si legge in Gellio, mentre Cicerone sosteneva che si applicasse la pena capitale, il tutto in L. Piccirilli, Aristotele e l’atimia (Athen. Pol., 8, 5), in Annali della Scuola Normale Superiore di Pisa. Classe di Lettere e Filosofia, 1976).

Il cittadino che non prende parte alla guerra civile, vuoi per l’una o per l’altra parte, ma si isola nella propria solitaria neutralità, non merita di appartenere più alla sua comunità.

Sono questi i valori che permettono di rileggere l’art. 11, Cost. e applicarlo alla guerra in Ucraina e alle complesse questioni poste da questo evento.

L’art. 11, Cost. non si limita a ripudiare la guerra ma impone alla comunità statale di determinare la propria posizione rispetto alla controversia in essere. Questa posizione non può essere di neutralità ma impone di condannare fermamente la parte o le parti che, in quel determinato conflitto, meritano di essere condannate.

Nonostante le conseguenze “imprevedibili” minacciate da Putin nei suoi discorsi rivolti ai paesi occidentali, conseguenze che non sono mai state affrontate nella storia, sempre per ricordare i discorsi di questo uomo politico.

Certo sono valori, quelli costituzionali e, in particolare, la scelta pacifista del ripudio della guerra, che tendono a evaporare nella società contemporanea che non conosce la disperata fame di libertà dei Costituenti, il loro entusiasmo di schiavi liberati, la forza della loro gioventù.

La nostra è una società che guarda la guerra su uno schermo al plasma, dove droni e bombe intelligenti sfidano le serie di Netflix e un miliardario egotico manifesta la volontà di diventare il principale imprenditore della libertà di manifestazione del pensiero.

Una società che ha preferito rinunciare alle più liberali e classiche libertà negative per salvaguardare il proprio benessere mentre un morbo sottilmente orribile lo minacciava.

Questo mondo non è il mondo dei Costituenti che avevano letto Aristotele e avevano imparato dall’Aventino il prezzo dell’atimia.

L’art. 11, Cost. non ripudia solo la guerra, condanna anche e soprattutto l’atimia ma è l’atimia, la disperata solitudine di chi si rifiuta a prendere parte a un conflitto perché teme per il proprio benessere, il sentimento che guida la società in questo difficile tratto di storia.

Non solo le posizioni indiane o cinesi di ipocrita neutralità, ma anche la scelta di chi, per un verso, sostiene le ragioni di un popolo invaso e assediato e, per altro verso, non rinuncia alle materie prime e alle commodities dal cui commercio trae alimento un’oligarchia che ha avuto bisogno di una guerra per mantenersi al potere.

Come mi chiamo? (La Corte e i cognomi)

in profstanco / by Gian Luca Conti
27/04/2022

Notoriamente la Corte costituzionale ha sempre ragione.

Anzi: la Corte costituzionale è una metafora della vita e non vi è evento della vita di un individuo che non possa essere risolto ricorrendo alla sua giurisprudenza.

La dottrina della Corte per molti costituzionalisti è l’equivalente del Talmud per un rabbino ortodosso.

Anche se, ovviamente, non hanno mai letto il Talmud. O, si potrebbe dire, non hanno letto neppure il Talmud.

L’ultima sentenza della Corte costituzionale di cui è stata data notizia a mezzo comunicato stampa è piuttosto divertente.

La Corte è stata investita della questione di legittimità costituzionale delle norme che impediscono ai genitori, se d’accordo, di dare al proprio figlio il cognome della madre anziché del padre e, giustamente, l’ha dichiarata costituzionalmente illegittima.

La conseguenza naturale sul piano additivo avrebbe dovuto essere che da qui in avanti i genitori possono scegliere se dare al proprio figlio il cognome dell’uno o dell’altro o di entrambi e che in assenza di questa scelta vale la previsione codicistica argomentata dall’art. 262, c.c. (sul punto, Corte cost. 282/2016).

La Corte, però, è andata più in là e ha stabilito che secondo gli artt. 2, 3 e 117, Cost., ciascuno dei genitori può, con l’accordo dell’altro, dare il proprio cognome al figlio e che in mancanza di una scelta di questo genere il figlio deve avere entrambi i cognomi. In quest’ultimo caso, però, i genitori devono trovare un accordo circa l’ordine nel quale i due cognomi devono comparire nei documenti. In assenza di accordo, specifica il comunicato stampa, si deve interpellare il giudice tutelare il quale deciderà (in base a quali criteri?) quale sia il cognome che risponde maggiormente all’interesse del minore. Read more →

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