La Costituzione tradita? 75 anni dopo, ipotesi per un bilancio
La Costituzione compie, quest’anno, settantacinque anni.
Li ha compiuti, più precisamente, il 27 dicembre 1947, perché quello è il giorno in cui la Carta costituzionale è stata promulgata, anche se è stata pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 1 del 1 gennaio 1948 e perciò, come ci ha ricordato il Capo dello Stato nel suo messaggio di fine anno, è il 1 gennaio 2023 che si festeggia il suo 75° compleanno.
Non sono pochi: lo Statuto Albertino nel 1922 aveva 74 anni.
Sono anni di un tempo veloce, un tempo che mangia gli avvenimenti, che rende rapidamente obsoleta qualsiasi ipotesi politica o sociale. Se il ventesimo secolo è stato definito il secolo breve, il ventunesimo secolo è un tempo istantaneo, nel quale tutto vive per pochi attimi durante i quali è eterno eppoi si consuma.
La Costituzione ha resistito pressoché intatta a questo tempo e, apparentemente, questa è una buona notizia. Oramai sono sempre meno coloro che pensano di cambiarla.
Però guardare oggi alla Costituzione e tentare un bilancio presuppone la scelta di un punto di vista che non può essere solo la sua tenuta nel tempo. Non credo che si possa dire che la nostra Costituzione è stata un successo perché è riuscita a durare un anno più dello Statuto Albertino (tra l’altro lo Statuto Albertino è venuto meno definitivamente solo il 1° gennaio 1948 quando è stata pubblicata la Costituzione, sicché, taluno potrebbe osservare, mancano ancora ventiquattro anni per raggiungere questo risultato).
Un punto di vista interessante è quello dei suoi padri: sarebbe una bellissima ricerca di storia costituzionale, una ricerca molto adatta alla celebrazione del 75° anniversario della Costituzione, interrogare i singoli padri costituenti sulla tenuta storica della Costituzione. Un po’ come chiedere al padre di un fanciullo diventato uomo se quell’uomo era il figlio che aveva allevato, se lo aveva allevato con quegli ideali o se invece li ha traditi, travisati, ignorati. Insomma se ne è orgoglioso o se ne deve vergognare.
Il primo padre costituente che viene in gioco è, ovviamente, Piero Calamandrei, non foss’altro per il faticoso rapporto con il figlio Franco, ben ricostruito in una Famiglia in guerra, a cura di A. Casellato (Laterza – Bari, 2008).
Piero Calamandrei spiega la sua visione della Costituzione come programma politico in un famoso discorso tenuto agli studenti universitari di Milano il 26 gennaio 1955, non molto tempo prima di morire. Il cuore di questo ragionamento è che la Costituzione pone alla base dello Stato la lotta contro l’indifferenza. La Costituzione nasce da una polemica contro il fascismo nella quale il fascismo non è l’ideologia illustrata da Gentile sulla Enciclopedia italiana, quello era il fascismo di Mussolini, ma l’indifferenza con cui gli italiani in grande maggioranza avevano subito il fascismo, quella indifferenza con cui aveva polemizzato ferocemente Gobetti sulla Rivoluzione liberale quando Prezzolini pubblicò il suo meravigliosamente ironico testo sulla congregazione degli apoti.
Se il primo obiettivo della Costituzione è evitare che l’Italia possa di nuovo abbandonarsi al fascismo per l’indifferenza con cui i suoi cittadini guardano alla politica lasciando alla coscienza di una sparuta minoranza di intellettuali il compito di una lotta scomoda e sanguinosa, la Costituzione non può essere intesa come l’insieme delle regole che consentono alle diverse forze politiche di dialogare fra di loro competendo per la conquista dell’indirizzo politico di maggioranza (La parte più viva, più vitale, più piena d’avvenire, della Costituzione, non è costituita da quella struttura d’organi costituzionali che ci sono e potrebbero essere anche diversi: la parte vera e vitale della Costituzione è quella che si può chiamare programmatica, quella che pone delle mete che si debbono gradualmente raggiungere e per il raggiungimento delle quali vale anche oggi, e più varrà in avvenire, l’impegno delle nuove generazioni, scrive Calamandrei ai giovani universitari milanesi), ma come un preciso programma politico che si impone a qualsiasi forza politica.
Questo programma politico, nel 1948 come oggi, consiste nell’eliminare gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono ai cittadini di essere eguali fra di loro, ovvero di sviluppare pienamente la propria personalità e di realizzarla attraverso il lavoro.
Calamandrei vede nell’eguaglianza in senso sostanziale di cui all’art. 3, secondo comma lo strumento per realizzare quella democrazia che l’art. 1 obbliga a trovare il proprio fondamento nel lavoro.
Ecco se facciamo un bilancio della Costituzione domandandoci che cosa Calamandrei, ma questa domanda sarebbe interessante porla anche a La Pira, Moro, Fanfani, Dossetti, Lucifero, Gullo, Terracini, Togliatti, De Nicola, Perassi, Mortati, etc., penserebbe oggi della Costituzione, questo bilancio, almeno per Calamandrei, non può essere positivo.
La Costituzione, per come la stessa è stata interpretata e attuata, come una struttura immutabile di organi costituzionali, come il tavoliere che ha consentito ai giocatori politici che si sono via avvicendati nel tempo di formulare le proprie ipotesi sul destino della nazione, è il tradimento della Costituzione come programma politico, come lavoro lasciato da una minoranza sparuta di intellettuali logorati dalla lotta antifascista ai propri figli.
Ha perso, sin dai primi anni, sin da quella prima legislatura repubblicana che Calamandrei censurò con tutta la vivacità di cui era capace ne La costituzione e le leggi per attuarla, dove costruì l’affascinante categoria dell’ostruzionismo di maggioranza, la forza di un programma politico e si è affermata come struttura che consente la comparazione dialettica fra programmi politici in competizione.
Non ha capito il proprio potenziale di rottura rispetto allo Statuto Albertino, che era lo schema di un compromesso, ed è stata applicata come la razionalizzazione dello Statuto Albertino, piuttosto che come il suo rivoluzionario superamento.
Sono considerazioni amare perché, in fondo, il pensiero di Calamandrei era acuto, dolorosamente sensibile e, finalmente, amaro, ma anche perché fa pensare che l’epilogo della Costituzione sia la guida dello Stato da parte di un partito che è il diretto successore del più antisistema dei partiti politici conosciuti dalla nostra Repubblica.
Questo epilogo, infatti, da una parte, dimostra la vitalità della Costituzione che è riuscita a consentire la vittoria elettorale di chi ha ereditato le spoglie di Salò e che permette alla Presidente del Consiglio di rivendicare con orgoglio le proprie origini senza tradire in alcun modo lo spirito costituzionale. Dall’altra parte, però, non deve indurre a considerare l’antifascismo come irrilevante, perché se è irrilevante, dopo ottanta anni dal 25 luglio 1943, pensare al fascismo di Mussolini e di Gentile: quella ideologia è definitivamente morta, non è irrilevante lottare contro l’indifferenza e questa lotta, almeno sino ad oggi, non sembra essere stata vinta dalle generazioni di italiani che hanno ricevuto la Costituzione da coloro che l’hanno scritta lottando contro un regime sanguinario (Quanto sangue, quanto dolore per arrivare a questa costituzione! Dietro ogni articolo di questa Costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, cha hanno dato la vita perché libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta, scrive sempre Calamandrei nel suo discorso agli studenti milanesi).
Insomma, se Calamandrei dovesse giudicare la Costituzione come un figlio non penso che ne sarebbe orgoglioso, ma forse aggiungerebbe che sono i figli a educare i padri, piuttosto che viceversa (è l’argomento che utilizzò Franco per rifiutarsi di fare il giurista come il padre avrebbe voluto) e andrebbe via con il solito sorriso amaro che ha in tutte le foto rimaste di lui.