Il governo alla prova del sottogoverno
1 – Venerdì, ci saranno le nomine di sottogoverno. Il premier affronterà il tema con la sua autorevole indipendenza e capacità di mediazione. O no?
Per provare a immaginarlo, la cronaca di questi giorni potrebbe non essere inutile.
Mentre il Presidente del Consiglio dei Ministri visitava i terremotati, che sono terremotati da più di due anni e hanno ricevuto la visita di almeno tre premier, il “suo” ministro degli interni annunciava che la nave su cui sono stati salvati più di seicento migranti fra Malta e le acque libiche non potrà attraccare in Italia.
Il Presidente del Consiglio dei Ministri, secondo un notista quanto mai ironico, lo avrebbe saputo dalla radio della macchina. Ma, sicuramente, non si è stupito: gli avvocati sono abituati ad avere dei clienti che ritengono di saper gestire i propri interessi meglio di loro e che non ascoltano i loro consigli quando si trovano davanti alle telecamere.
2 – Una scelta fondamentale, come la linea politica da seguire nella revisione della convenzione di Dublino del 2015 sullo Stato competente ad esaminare una domanda di asilo, non è stata deliberata dal Consiglio dei Ministri ma è stata decisa da un singolo ministro, che è anche il leader di uno dei patiscenti del contratto di governo inteso come un negozio giuridico a carattere parasociale.
Il Presidente del Consiglio scavalcato dal ministro degli interni nella individuazione della politica generale del Governo assomiglia molto a un “director” piuttosto che un “officer”, un mandatario delle forze politiche che hanno votato la fiducia, ovvero colui che è chiamato a dare attuazione al “contratto per il governo del cambiamento” e la cui legittimazione risiede in questo strano accordo.
Il Senato, il 5 giugno 2018, ha votato la fiducia su di una mozione dal contenuto decisamente atipico per il diritto parlamentare: in questa mozione, il Senato: (i) riconosce che il contenuto del contratto per il governo del cambiamento risponde agli interessi e alle attese del paese; (ii) dà atto che il Presidente del Consiglio incaricato ha espresso delle linee programmatiche coerenti con il contratto e perciò (iii) ha votato la fiducia al Presidente del Consiglio incaricato e ai suoi ministri.
In realtà, sia il Senato che la Camera, che ha votato una mozione di identico tenore, non hanno votato la fiducia al Presidente del Consiglio, ma hanno ratificato e fatto proprio il contratto per il governo del cambiamento e lo hanno consegnato al Presidente del Consiglio il quale si è impegnato a farlo proprio.
Assomiglia molto di più a un mandato da direttore generale che alla mozione di fiducia di un governo parlamentare.
3 – Se esiste un contratto di mandato, esiste un mandante – un principale, come si diceva nel bell’italiano dell’Itaglietta – e questo principale, come si è cercato di ricostruire altrove, sembrava fosse il modello di rappresentanza propugnato dal M5S, uno schema nel quale la democrazia rappresentativa serve per essere attuazione della democrazia diretta e che, perciò, combatte i principi del libero mandato parlamentare.
Chi scrive non crede che questi principi meritino di essere superati in una democrazia che dialoga con un paese che ha bisogno della forza di integrazione del principio maggioritario, ma crede che ci sia qualcosa di nobile e di alto nell’idea di far contare di più il popolo nelle decisioni pubbliche.
Non è successo questo.
Il Presidente del Consiglio ha dimostrato di essere il mandatario di una forza politica che è in grado di prendere autonomamente le proprie decisioni e che può anche fare a meno di lui.
Se questa non è una degenerazione di ciò che sembrava talmente degenerato da non poter essere ancora corrotto – la Repubblica dei partiti di Scoppola o di Calise -, gli asini, anziché stare al Viminale, volano e indossano una maglia con scritto MILANO in caratteri cubitali.
4 – Che cosa succederà adesso con le cariche cd. di “sottogoverno”, sottosegretari etc.?
E’ la prossima prova che aspetta, venerdì, il premier e difficilmente sarà superata con maggiore brillantezza.