Che tipo di Stato dobbiamo aspettarci (e da quale governo)
“Adesso tocca al Presidente della Repubblica”. È questa la frase che da domenica sera chiunque, tra commentatori e politici di ogni schieramento va ripetendo senza sosta. E non si sa se sia una speranza, un timore o un modo per lavarsi la responsabilità di questa situazione. Se è vero che l’art. 92 della costituzione affida al Capo dello Stato il compito di nominare un presidente del consiglio che possa formare il governo, questa volta il compito è troppo complicato perché lo possa risolvere da solo. Lo sa bene lo stesso Mattarella, che ha da subito chiesto ai partiti di collaborare per trovare una maggioranza prima che si arrivi alla fase delle consultazioni (che da consuetudine costituzionale si apre subito dopo l’elezione dei presidenti delle due camere, e quindi in questo caso verso la fine di marzo). Lo spettro di nuove elezioni potrebbe non essere così distante, ma se si tornasse a votare con la stessa legge elettorale, è evidente che il risultato sarebbe sostanzialmente identico.
Resta quindi la domanda:
quale governo traghetterà il Paese alle prossime elezioni?
Il tracollo del Partito Democratico e di Forza Italia fa tramontare anche l’ipotesi di continuare con Gentiloni per i mesi necessari (si spera pochi) per cambiare il cosiddetto Rosatellum. Nella nostra storia repubblicana ci sono stati governi guidati da un partito minoritario (si pensi ai governi Spadolini e Craxi), ma questi avevano comunque dietro una maggioranza più o meno coesa in grado di sostenerli. Stavolta sembra molto difficile (per non dire impossibile) che Lega e Movimento 5 Stelle, che insieme hanno poco più del 50%, diano il proprio sostegno a un governo di fatto a guida PD; meno che mai poi lo darebbero ad un governo tecnico. A ciò va aggiunto che lo statuto del Movimento impone il vincolo di due mandati parlamentari e che alle prossime elezioni Di Maio non potrebbe ricandidarsi, e la sua rincorsa a Palazzo Chigi sarebbe quasi sicuramente conclusa. Ecco perché non è disposto ad appoggiare nessun governo se non il suo. La strategia più plausibile (stando ai media e agli opinionisti) potrebbe essere allora quella di affidare al leader dei pentastellati un mandato esplorativo, non previsto dalla costituzione ma che già in passato è stato sperimentato in situazioni simili.
Quali chance avrebbe questo governo?
In altre parole, qual è la forza politica che alla fine potrebbe correre in aiuto dei cinquestelle? Se si dimenticano i giochi politici e si guarda a quelli che erano i programmi elettorali (ammesso che sia ancora opportuno farlo) si scopre che è proprio la Lega la principale indiziata, non solo per i numeri. Si pensi infatti, per ciò che ci riguarda, alle politiche sociali dei due partiti, che incidono significativamente sulla forma di Stato. I punti di contatto sono moltissimi: il lavoro al centro, la cancellazione della legge Fornero, la riforma delle pensioni, la tutela della salute (il superamento della legge Lorenzin e quindi dell’obbligo vaccinale). Resta sicuramente la grossa differenza del reddito di cittadinanza, punto di forza del Movimento, che proprio non piace alla Lega perché visto come una forma di assistenzialismo. Un ipotetico governo formato da questi due schieramenti si troverebbe prima o poi a dover risolvere questa questione abbastanza spinosa.
Sembra molto simile anche la visione che i due partiti hanno sull’Unione Europea, anche se è oggettivamente difficile capire come la pensino realmente su questo punto, visto che da un atteggiamento di ostilità totale, sono passati a dichiarazioni più moderate, per poi tornare a rilanciare (almeno la Lega) l’uscita dall’euro subito dopo i primi exit poll. Sicuramente però entrambi puntano ad una maggiore autonomia italiana da Bruxelles su temi cruciali, quali quelli dell’immigrazione e la politica economica.
Difficilmente poi questa maggioranza sarebbe abbastanza forte da riuscire a realizzare riforme costituzionali riguardanti le istituzioni.
Eppure anche su questo c’è molta somiglianza tra i programmi. Oltre all’intenzione di ridurre il numero di parlamentari, che ritorna quasi ad ogni campagna elettorale, l’elemento sicuramente più interessante è l’introduzione del vincolo di mandato che sia Salvini sia M5S hanno inserito come uno dei punti cardine del loro programma di riforme. Un dato certamente non nuovo ma profondamente innovativo, che stravolgerebbe la logica dell’art. 67 della costituzione (e forse persino lo stesso concetto di rappresentanza). La norma costituzionale attribuisce infatti a ogni parlamentare il ruolo di rappresentante dell’intera Nazione, vietandogli di curare solo gli interessi del proprio elettorato: sono a nostro avviso abbastanza palesi i rischi di un Parlamento formato da individui che guardano soltanto ai bisogni della loro fazione, ma la Lega e i pentastellati vedono nell’introduzione del vincolo un modo per arginare il fenomeno del trasformismo parlamentare. Tale novità, stando al programma del Movimento 5 Stelle, sarebbe inoltre accompagnata alla modifica dei regolamenti parlamentari “in modo da far sì che i Gruppi parlamentari possano essere costituiti solo da forze politiche che si siano effettivamente presentate alle elezioni e abbiano ottenuto l’elezione di un numero di parlamentari sufficienti a formare un gruppo”. Inoltre intendono, stando al loro programma, penalizzare coloro che nel corso della legislatura lasciano il gruppo parlamentare al quale appartengono e quindi la forza politica con la quale sono stati eletti. Di che genere siano le sanzioni non si può sapere, visto che i centomila euro di multa che prevedono nel loro statuto appaiono difficilmente esigibili. Appare abbastanza curioso che molti degli eletti tra le liste grilline si siederanno fin da subito nel gruppo misto, perché espulsi ancora prima delle elezioni.
Infine una convergenza tra i due programmi si può vedere anche sulla volontà di rafforzare le autonomie locali e le regioni e di ridefinire il rapporto tra quest’ultime e lo Stato, da sempre punto fisso del partito di Salvini. Il modo di raggiungere questo decentramento è diverso: se per i cinquestelle basterebbe (almeno in una prima fase) orientare la legislazione statale in senso più rispettoso delle Regioni, per la coalizione di Berlusconi e gli altri occorre adottare un “modello di federalismo responsabile che armonizzi la maggiore autonomia prevista dal titolo V della Costituzione e già richiesta da alcune regioni in attuazione dell’articolo 116, portando a conclusione le trattative attualmente aperte tra Stato e Regioni”. Differenze che però sembrano facilmente superabili.
Il Partito Democratico, al di là delle parole del suo segretario a tempo, difficilmente potrebbe appoggiare un governo con queste premesse: la linea che li separa da queste posizioni è troppo netta. Completamente opposta a quella di M5S per quanto riguarda le riforme sociali, assolutamente incompatibile con quella leghista per quanto riguarda immigrazione e Europa. Il solo governo che il PD (ma anche Forza Italia) possano sostenere resta un ipotetico governo tecnico (o come viene chiamato, governo di scopo) per arrivare a rivotare tra breve con una nuova legge elettorale.
Insomma quella che il Capo dello Stato si trova davanti è forse la legislatura più anomala della storia della nostra repubblica. Ci uniamo allora anche noi nel dire che ora la parola passa a lui: la nostra è una speranza (e un augurio) che riesca a gestire tutto questo nel migliore dei modi.