Il tramonto dell’apocalisse (Corte costituzionale e agibilità politica)
L’incandidabilità viene letta sempre più spesso, soprattutto a centro destra, come una questione di agibilità politica.
Chi scrive non capisce bene il senso di questa espressione: agibilità è lemma del diritto sanitario e serve a indicare che un immobile non residenziale può essere effettivamente utilizzato perché conforme alla disciplina edilizia e urbanistica e completato a regola d’arte senza che alcuna macchia di umidità residui dal momento in cui il cemento è stato steso e i mattoni sono stati legati con la malta.
Ma la si usa caratterizzando la capacità elettorale, il diritto all’elettorato passivo, come una questione di agibilità, come se si trattasse di verificare che l’eletto è stato validamente eletto, alla stessa stregua in cui la polizia locale controlla che l’immobile di cui è stata asseverata l’agibilità sia effettivamente conforme al permesso a costruire.
E’ un’idea interessante perché vela il giudizio che la Giunta delle elezioni del Senato dovrà dare come una questione edilizia, solo che questa questione probabilmente potrebbe finire per riguardare la stabilità del sistema costituzionale nel suo complesso e in termini potenzialmente deflagranti.
La premessa del discorso che si svilupperà di seguito è di carattere politico.
Sul piano politico, non è chiaro che cosa Berlusconi intenda fare. Sicuramente non intende arrivare a una pronuncia di decadenza e altrettanto sicuramente, con le precisazione che seguono, la pronuncia di decadenza pare inevitabile. Più volte ha minacciato, con toni talvolta biblici, il ritiro dei propri ministri dal Governo e le dimissioni dei parlamentari del suo orientamento. Tuttavia Berlusconi è persona estremamente accorta ed è difficile che non tema una emorragia di senatori tale da consentire la formazione di un Letta bis o addirittura di un primo governo Renzi, come sembra suggerire D’Alema.
Nello stesso tempo, il messaggio del Capo dello Stato del 13 agosto ha detto chiaramente che non è intenzione del Presidente della Repubblica sciogliere le Camere prima della riforma elettorale. Si è detto che, in realtà, non è il Capo dello Stato che scioglie le Camere ma che lo scioglimento anticipato delle Camere è un provvedimento inevitabile quando non vi sono i presupposti per la formazione di una stabile maggioranza di governo. Ma, forse, e questo è il passaggio più delicato di un messaggio di non facile lettura, il Capo dello Stato ha detto proprio che non è sua intenzione sciogliere le Camere anche nel caso in cui sia impossibile formare un nuovo governo e che in questo modo intende costringere il Parlamento a darsi una nuova legge elettorale. Forse è una lettura sbagliata, ma potrebbe anche non esserlo e, soprattutto, in questo momento, Berlusconi non è in grado di escluderla.
Di conseguenza, Berlusconi non ha interesse ad arrivare a una rottura che potrebbe essere esiziale per lui, potrebbe semmai avere interesse a essere tradotto in carcere nei termini di legge, venire dichiarato decaduto – egualmente nei termini di legge – in modo da poter lasciare il proprio scettro al suo successore con una evidenza mediatica tutt’altro che irrilevante e lasciare al proprio successore il compito di provocare lo scioglimento anticipato delle Camere, nel momento più opportuno per il successo della propria coalizione.
Questo, probabilmente, è lo scenario più probabile e, apparentemente, è uno scenario che fa tirare un sospiro di sollievo, perché rappresenta il tramonto dell’apocalisse.
Ma questi sono tempi in cui l’apocalisse non ha nessuna voglia di tramontare e quindi occorre interrogarsi sugli scenari possibili sul piano costituzionale.
Il primo scenario riguarda la legittimità costituzionale della incandidabilità di Berlusconi.
Si è già detto che la incandidabilità, anche se intesa come una forma di ineleggibilità in cui il venire meno della condizione ostativa alla espansione del diritto all’elettorato passivo non dipende da una decisione del suo titolare, presenta alcuni profili di dubbia costituzionalità e questo può essere tranquillamente ammesso indipendentemente dalle pregiudiziali ideologiche sia di chi scrive che di chi ascolta.
Si è anche detto che il “giudice” della incandidabilità sopravvenuta è, in questo caso, la Giunta delle elezioni del Senato e si è aggiunto che la Giunta delle elezioni può, in questo caso, sollevare questione di legittimità costituzionale, rimettendo il problema alla Corte costituzionale che, con i dovuti approfondimenti e i suoi ragionevoli tempi: un anno e mezzo, due mesi, tutta la residua durata della legislatura, chi lo sa, risolverà il tema con l’autorevolezza di un giudice che non conosce nessuno sopra di sé.
Ma, forse, non è del tutto così.
In primo luogo, la Giunta delle elezioni è davvero il giudice naturale della incandidabilità?
La radice della competenza della Giunta delle elezioni sta nell’art. 66, Cost. e Terracini, proprio a commento della proposta di Mortati che intendeva affidare alla magistratura la verifica dei poteri, ebbe a dire: «Attraverso la Giunta delle elezioni è ancora la massa degli elettori che giudica la propria azione; quindi è proprio il principio della sovranità popolare che si afferma nuovamente nella verifica dei poteri» (Cfr. Atti Ass. Cost. – Comm. Cost. – Seconda Sottocomm., seduta giovedì 19 settembre 1946, Roma 1951, part. 218).
Per Terracini, è chiara la necessità di riservare al Parlamento ogni giudizio che riguarda la sua formazione in via elettorale perché altrimenti il corpo elettorale non sarebbe sovrano, ma sarebbe estraneo di un soggetto diverso perché la magistratura con il proprio giudizio si potrebbe sovrapporre alla volontà espressa dal popolo e questo sarebbe in contrasto logico con la costruzione costituzionale che si dipana dall’art. 1, Cost.
Il Parlamento, però, e con esso la Giunta delle elezioni del Senato, è e resta un organo costituzionale che ha il compito di consentire la partecipazione del popolo all’organizzazione politica del paese, riecheggiando la definizione di Manzella (A. Manzella, Il Parlamento, Bologna 2003, 30-31).
Questo significa che la decisione sulla verifica dei poteri ha una struttura ontologicamente estranea al concetto di attività giurisdizionale che è caratterizzata dalla terzietà.
In altre parole, l’attribuzione al Parlamento della verifica dei poteri serve a impedire che la magistratura possa sovrapporsi alla volontà elettorale, serve ad assicurare la sovranità popolare, ma nello stesso tempo determina anche una zona franca dall’attività giurisdizionale, perché caratterizza il giudizio in sede di verifica dei poteri come esercizio di una sorta di giustizia politica e perciò conduce, in questa materia, a una sorta di sovranità parlamentare, che è esercizio di sintesi politica.
Questo modello che riserva al Parlamento il giudizio sulla convalida degli eletti e perciò definisce l’essenza di questo giudizio in senso parlamentare e non giurisdizionale riguarda necessariamente anche la candidabilità?
A chi scrive pare di no: è un giudizio inevitabile per ciò che riguarda l’espressione del voto, ma non per ciò che viene prima dell’espressione del voto o che comunque con l’espressione del voto non ha nulla a che vedere.
Sotto questo aspetto, mi pare chiaro il precedente di Corte cost. 259/2009, che nel giudicare della legittimità costituzionale del vuoto di tutela che si è determinato dinanzi all’orientamento delle Giunte delle elezioni di Camera e Senato ( cfr.: nella XV Leg. Res. Giunta elez. Camera 7 novembre 2006, 5, 6, 12 e 13 dicembre 2006; nella XVI Leg. Res. Giunta elez. 5 giugno 2008, 22 luglio 2008, 4 febbraio 2009, tutti in www.camera.it. Per il Senato, cfr. Res. Giunta elez. imm. parl. 26 febbraio 2008, in www.senato.it) e della Corte di cassazione (Cass., sez. un., 8 aprile 2008 nn. 9151, 9152 e 9153; 6 aprile 2006 n. 8118 e n. 8119, ma già sentt. Cass., sez. un., 31 luglio 1967 n. 2036; 10 marzo 1971 n. 674; 17 ottobre 1980 n. 5583; 14 dicembre 1984 n. 6568; 11 gennaio-22 marzo 1999 n. 172) che entrambe negano giustizia con riferimento alle operazioni pre elettorali ha detto che il problema è di carattere giurisdizionale (ma non nel senso di giurisdizione in senso stretto, ma nel senso del regolamento di giurisdizione): L’attuale situazione di incertezza sul giudice competente a conoscere dei ricorsi avverso gli atti degli Uffici elettorali deriva da una divergenza interpretativa delle disposizioni vigenti, che può e deve essere risolta con gli strumenti giurisdizionali, comuni e costituzionali, esistenti. Né la Corte di cassazione, né la Camera dei deputati hanno affermato che non esiste un giudice competente; dalle citate pronunce, d’altra parte, non si può evincere il vuoto di tutela denunciato dal rimettente. Gli stessi organi hanno dato divergenti interpretazioni dell’art. 87 del d.P.R. n. 361 del 1957 e dell’art. 66 Cost., in esito a ciascuna delle quali varia l’individuazione della giurisdizione cui devolvere le controversie sorte nel procedimento elettorale preparatorio. Si tratta, come già detto, di contrasti che possono dar luogo ad un regolamento di giurisdizione o ad un conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato, dal primo dei quali discende il riparto della giurisdizione in base alla legge ordinaria, dal secondo la delimitazione delle sfere di competenza costituzionalmente sancite, qualora il problema si incentri sull’interpretazione dell’art. 66 Cost.
La Corte costituzionale, in altre parole, ha chiaramente detto che il Parlamento può non essere il giudice naturale della legittimità delle operazioni elettorali che precedono la costituzione dei seggi, e che la questione appartiene alla discrezionalità del legislatore.
Tuttavia il legislatore deve essere razionale, soprattutto in un caso in cui si discute di diritti fondamentali e di una eccezione al diritto alla tutela giurisdizionale.
Sotto questo aspetto, l’art. 66, Cost. sembra poter essere letto come una disposizione costituzionale di stretta interpretazione perché introduce una eccezione ai principi di cui a 3, 24 e 113, Cost.
Se l’art. 66, Cost. deve essere letto come una disposizione di stretta interpretazione non sembra del tutto corretto allargarne le maglie fino a ricomprendervi una questione come quella della candidabilità che non ha nulla a che vedere con la sovranità elettorale del popolo e che, nello stesso tempo, era del tutto impensabile nel momento in cui la disposizione costituzionale è stata elaborata, ovvero in un tempo in cui il conflitto fra giustizia e politica veniva risolto attraverso l’art. 68, Cost. e non si ipotizzava nessuna condizione limitativa al diritto all’elettorato passiva diversa e ulteriore rispetto alle tradizionali cause di ineleggibilità e incompatibilità.
Per queste ragioni, non appare impossibile ritenere che, sul piano costituzionale, la Giunta delle elezioni del Senato potrebbe dichiararsi ragionevolmente incompetente a conoscere delle cause di incandidabilità.
Infatti nessuna norma della Costituzione riserva al Parlamento la cognizione di questo genere di controversie.
La seconda questione riguarda il fatto che la Giunta delle elezioni del Senato possa sollevare questione di legittimità costituzionale.
Ora è bene dire e sottolineare che sicuramente la Giunta delle elezioni può scrivere una ordinanza di rimessione e rimettere la questione di legittimità costituzionale alla Corte costituzionale che, però, dovrà decidere se davvero la Giunta delle elezioni ha questo potere ai sensi dell’art. 23, legge 87/1953.
A questo proposito si ricorda Corte cost. 117/2006, che è una ordinanza talmente stringata da poter essere tranquillamente riprodotta di seguito e stabilisce:
Considerato che il ricorso in questione – in gran parte riproduttivo di note depositate in sede di appello proposto dal ricorrente davanti al Consiglio di Stato avverso varie ordinanze emesse dal TAR del Lazio in sede cautelare – è volto ad affermare la sussistenza della giurisdizione del Giudice amministrativo relativamente alla fase prodromica (ed in particolare, alla presentazione delle liste) delle elezioni politiche, ed a negare quella della Camera dei deputati, che esisterebbe solo relativamente alla verifica dei titoli di ammissione dei suoi componenti; che, pertanto, la «definitiva dichiarazione di volontà», declinatoria della sua giurisdizione, è stata emessa dalla Camera dei Deputati (Giunta per le elezioni) quale organo avente natura giurisdizionale, ed altrettanto deve dirsi, evidentemente, di quella espressa dal Giudice amministrativo; che a questa Corte non compete risolvere conflitti negativi (o positivi) di giurisdizione (art. 362 cod. proc. civ.) e, pertanto, come richiesto dal ricorrente, «stabilire il potere giurisdizionale del Giudice amministrativo sulla materia»
Questa ordinanza, come pure la sentenza 259/2009 (su cui P. Torretta,
Quale giudice per il contenzioso pre-elettorale politico? Riflessioni sulla sentenza della Corte costituzionale n. 259 del 2009, in Forum Quaderni Costituzionali e E. Lehner, L’apertura condizionata della Corte sulla verifica dei poteri, tra tutela dell’autonomia parlamentare e garanzia dei diritti di elettorato passivo, in Giur. cost. 2009, 3620), però non dice che la Giunta delle elezioni è un giudice nel corso di un giudizio, ma dice semplicemente che la controversia che riguarda a chi spetti il potere di giudicare sulle controversie che riguardano il cd. contenzioso preelettorale, e quindi la corretta espansione e valorizzazione dei diritti di elettorato passivo, sono controversie che riguardano l’appartenenza del potere giurisdizionale e quindi devono essere risolte come conflitti (negativi) di giurisdizione.
Non è una cosa molto diversa dalla controversia fra un giudice ordinario e gli organi di autodichia parlamentare circa la spettanza all’uno o all’altro del potere di decidere una questione giuslavoristica.
E’ invece una cosa molto diversa dal dire che la Giunta delle elezioni è un giudice che nel corso delle operazioni di verifica dei poteri può sollevare una questione di legittimità costituzionale ai sensi dell’art. 23, legge 87, 1953 e dell’art. 1, legge cost. 1/1948, per i quali: «la questione incidentale deve sorgere nel corso di un giudizio dinanzi ad una autorità giurisdizionale».
Sotto questo aspetto, appare difficile sostenere che la Giunta delle elezioni sia un giudice e che l’attività che la stessa svolge in sede di verifica dei poteri abbia la consistenza di un “giudizio”.
In altre parole, non è affatto detto che la Corte costituzionale possa davvero accettare una questione di legittimità costituzionale sollevata dalla Giunta delle elezioni del Senato e, per certi aspetti, lo scenario politico che si aprirebbe con una sentenza di inammissibilità emessa a distanza di qualche tempo dai bollori di oggi potrebbe non essere il peggiore.
La terza questione riguarda ciò che succede, in termini di conseguenze logiche, nel momento in cui la Giunta delle elezioni solleva una questione di legittimità costituzionale.
In questo momento, la Giunta afferma due cose: la prima è che la propria natura è di organo giurisdizionale e quindi di non potersi sottrarre “politicamente” all’applicazione del diritto per come il diritto è scritto: nulla di nuovo, è tipico del linguaggio delle Giunte di Camera e di Senato l’espressione “giudicato” con riferimento alle proprie decisioni. La seconda, forse, non ancora del tutto valorizzata, è una conseguenza della rilevanza: perché la questione sia rilevante occorre che la Giunta affermi che la norma in punto di incandidabilità sopravvenuta si applica al caso di specie nel senso che in assenza della sua dichiarazione di incostituzionalità, Berlusconi è sicuramente incandidabile e la sua elezione non può essere confermata.
Il che significa che i senatori del centro destra nel momento in cui accettano di sollevare la questione di legittimità costituzionale accettano anche di dire che Berlusconi, alla luce delle norme in vigore, non potrebbe sedere in Senato.
E’ evidente che, in questo caso, il giudizio sulla rilevanza diventa ostaggio di delicate valutazioni politiche, a ulteriore conferma della difficoltà sia di considerare la Giunta, per i fini di cui all’art. 23, legge 87/1953 e all’art. 1, legge cost. 1/1948, un giudice e l’attività che la stessa è chiamata a svolgere un giudizio: un giudice nel corso di un giudizio non può definire se una disposizione sia rilevante o meno ai fini del decidere, e quindi quale sia il contenuto che la stessa ha nel caso concreto, quale sia la volontà concreta di legge che esprime, in base alla propria interpretazione dell’interesse politico dello Stato.
In conclusione, forse, gli scenari collegati alla questione di legittimità costituzionale della disciplina sulla incandidabilità sopravvenuta non sono di agile soluzione.
Soprattutto perché muovono da una ordinanza che ha il valore e il significato di una confessione di incandidabilità e quindi rischiano di essere politicamente impraticabile, mentre giuridicamente è ragionevole dubitare che l’art. 66, Cost. affidi al Parlamento il giudizio sulla candidabilità per ragioni non troppo lontane da quelle che rendono complicato considerare le Giunte di Camera e Senato come giudici a quo.