La vita del “diritto alla vita” costituzionale è vita di relazione
Il mondo moderno si è imbattuto con una serie di cambiamenti.
Penso prima di tutto agli sconvolgimenti tecnologici degli ultimi venti anni ovvero agli I-pad, I-pod ad internet ed alle magnifiche magie informatiche.
E’ cambiata la comunicazione ed il linguaggio: dalle lettere ai tweet, dagli amici ai followers.
Ma il mondo moderno si è imbattuto anche in evoluzioni delle concezioni culturali e delle rivendicazioni individuali non di poco conto.
In questo periodo mi è capitato di concentrare l’attenzione su una particolare porzione di queste ultime ovvero le rivendicazioni individuali relative al rapporto dell’uomo con il suo corpo, con la vita e con la dignità stessa del vivere e del morire.
Ed è proprio la parola dignità che mi porta ad affrontare una qualche – seppur banale – riflessione.
Il termine dignità rimbalza nelle cronache televisive, da Ballarò a Servizio Pubblico e lo si accosta al problema del diritto al lavoro.
In estrema sintesi si fa questo ragionamento: l’uomo è titolare di un valore che è la dignità – il lavoro nobilita l’uomo e gli attribuisce una vita dignitosa – il lavoro dà dignità – negare il diritto al lavoro priva l’uomo della propria dignità garantita dalla nostra Carta Fondamentale.
Tutti d’accordo.
Ma il valore della dignità può essere accostato solo alla vita?
Perché non si parla mai della dignità alla morte?
O per meglio dire, non esiste una a morire dignitosamente?
E’ un interrogativo non da poco, che affanna il legislatore, i giudici, la dottrina costituzionale e quella civilistica.
E’ un tema che ha coinvolto, coi casi Welby ed Englaro anche l’opinione pubblica
La Costituzione, che davanti a una domanda non tace mai, una qualche risposta all’interrogativo ce la dà.
La Carta Fondamentale non può che tutelare la dignità del singolo, come lo si ricava dall’art. 2, dall’ art. 3, dall’art.13 e dall’art. 32 comma 2.
Enunciare il contenuto degli articoli sarebbe banale.
Mi preme solo fare qualche considerazione – forse errata – su cosa ne deriva dalla loro lettura complessiva.
In particolare se la Costituzione tutela i diritti inviolabili dell’uomo(art. 2 Cost), non tutela anche il diritto alla morte? Se si tutela la dignità (art. 2) quest’ultima non va intesa come tutela della stessa a tutto raggio ovvero dignità nella vita e nella morte? Se l’art. 13 garantisce la libertà personale del singolo individuo sarò personalmente libero di scegliere se e come morire?
Se nessuno può essere sottoposto ad un trattamento sanitario “se non per disposizione di legge”, e “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”, allora curarsi o non curarsi diventa semplicemente un problema di libertà cioè di come ogni singolo vede la vita, il rapporto con l’esterno e con la malattia.
E tale ragionamento non vale solo nelle malattie nelle quali si può guarire e può valer la pena lottare ma vale anche in quelle situazioni dove il tentativo è finito e che portano, pertanto, alla perdita del bene della vita.
A prescindere dagli articoli di riferimento e dal significato che gliene si voglia dare credo che siamo tutti d’accordo sul fatto che il concetto di dignità è puramente soggettivo e che comunque, al di là del suo significato, è un valore inalienabile e insopprimibile di ogni singolo.
Quando un valore lo si riconosce e tutela, l’ordinamento deve arrogarsi il peso di garantirlo e tutelarlo a 360 gradi.
Limitarsi a tutelare la dignità della persona solo in vita equivale a porre in essere una tutela solo parziale.
Se viene tutelato il mio diritto di espressione l’ordinamento mi deve garantire una tutela a tutto raggio di tale diritto.
In buona sostanza non può limitarsi a garantirmi la libertà di espressione solo sui giornali ma non in televisione.
Un ragionamento di tal tipo comporterebbe una violazione dell’art.. 21 Cost. perché si darebbe vita ad una tutela parziale e incompleta e che si porrebbe in patente contrasto col dettato costituzionale.
Lo stesso ragionamento deve valere per quanto attiene alla dignità.
Se l’ordinamento vuole osservare quanto la Costituzione impone e stabilisce non può limitarsi a tutelare la dignità della vita ma deve necessariamente tutelare la dignità alla morte e nella morte.
Dignità alla morte e nella morte vuol dire lasciare a libertà al singolo di decidere quando una vita non merita più di essere vissuta perché non più dignitosa.
E vuol dire anche lasciarmi la libertà di decidere di lasciare questo mondo nel modo che io ritengo il migliore , decidendo anche in tal modo il ricordo che gli altri manterranno di me.
Ma non solo.
Giocando sui termini “diritto”, “dovere” ed “obbligo” si potrebbe dire che vivere è un diritto e non un obbligo o un dovere, e che il diritto a morire – dignitosamente aggiungo – è un diritto che non può essere negato neanche ad un ergastolano o ad un condannato a morte quanto lo stesso sia nelle sue piene facoltà mentali e intellettive di decidere.
C’ è un altro aspetto che mi preme mettere in luce perché strettamente collegato a quello che si sta dicendo.
E parto da una domanda: cosa è la vita, costituzionalmente parlando?
La vita è vita di relazione.
La Costituzione ce lo dice a chiare lettere in molte delle sue disposizioni.
La Carta tutela il diritto al lavoro, all’istruzione e al voto.
Garantisce la libertà di espressione, di associazione e la libertà religiosa.
Ed allora l’immagine di individuo che ne deriva è quella di un soggetto socialmente impegnato, di un soggetto attivo nella comunità, di un soggetto che si relaziona con mondo esterno.
L’uomo è un animale sociale allora la Costituzione sposa un ben preciso concetto di vita ovvero la vita di relazione.
Ma se la vita è vita di relazione come può il legislatore continuare a non intervenire normativamente sulle scelte di fine vita?
Può essere ammissibile la mancanza di una espressa normativa dettata in materia di testamento biologico?
E’, a mio avviso, un silenzio assordante.
E’ chiaro che chi fa le spese del vuoto è chi poi si imbatte in queste situazioni ovvero il medico e i familiari del paziente.
Entra in gioco il tema del rapporto medico-paziente ovvero, a mio avviso del rapporto medico- paziente- familiari visto che molte volte sono questi ultimi a dover decidere ed insieme a soffrire.
Essere e fare il medico oggi significa misurarsi con molteplici forme di pressione: l’esigenza di non negare ai pazienti le opportunità offerte dall’innovazione, il timore di impiegare tecniche di cui non si conosce fino in fondo l’efficacia e la sicurezza, la paura di esporsi a reazioni di stampo giudiziario in caso di eventi avversi, la necessità di non disperdere le limitate risorse di cui si dispone etc.
Tra le diverse forme di pressione sopra citate vi è purtroppo anche l’esigenza di non negare ai pazienti – o comunque di dover prendere in considerazione – il diritto di poter morire.
Ed il problema si pone sia in presenza di un paziente dotato di autocoscienza, il cui consenso (o dissenso) all’atto medico può esprimersi validamente e liberamente sia in presenza di un paziente privo di tale autocoscienza, ragione per la quale saranno i familiari a decidere per lui, e questo perché la perdita di coscienza non determina anche la perdita di diritti fondamentali dell’uomo – diritto di morire compreso.
E tale diritto deve poter essere esercitato, in via diretta se il soggetto è cosciente, o via indiretta cioè con le direttive anticipate di trattamento se il soggetto non è più, aimè, cosciente.
Nel primo caso si eserciterà il proprio diritto personalissimo di morire e il proprio diritto alla autodeterminazione.
Nel secondo caso e cioè con le direttive anticipate di trattamento ci si avvarrà di uno strumento ad hoc ovvero di «uno strumento che consente di far operare l’autodeterminazione in maniera prospettica, consentendo alla persona di indicare le proprie determinazioni per situazioni di eventuale incapacità (l’espressione è di Rodotà Stefano).
In sostanza il consenso informato non si svolgerebbe soltanto nell’immediato e solo con una persona cosciente, ma si potrebbe anche svolgere in una prospettiva futura, garantendo al singolo la sua libertà di scelta e determinazione senza per questo delegare altri ad una scelta che si rivela personalissima.
Ma non solo.
In questo modo il rapporto medico-paziente non si limita all’ora ma continua anche pro-futuro.
E quanto appena detto mi pare possa benissimo allinearsi con il dettato dell’articolo 32 Cost.
Niente più della frase di Veronesi coglie nel segno nel momento in cui afferma “non è la morte ad essere un male e a fare paura, bensì ‘il processo del morire’, nel quale la morte costituisce il punto ultimo. La morte, quando sai che accadrà a breve, diventa il punto finale di un’avventura medica che si può prolungare per giorni, mesi, addirittura anni. Siamo, quindi, davanti a una morte tecnicizzata, dissociata dai meccanismi naturali che l’avrebbero provocata a breve termine”.
Ed un medico questo lo sa e lo capisce bene.
Il medico ha due compiti: assicurare al paziente una qualità della vita dignitosa e aumentare la quantità della stessa quando è in pericolo.
Ma i due non sono alternativi. Si pongono, secondo me in una logica di bilanciamento soggettivamente soggettiva che si semplifica in poche semplici domande: quando vale la pena aumentare la quantità della vita se questa incide sulla qualità della stessa? Fino a che punto il compito del medico è assicurare la quantità della vita nel momento in cui un numero di ore, giorni, mesi o anni portano solo dolore e sofferenza?
In poche parole quando un aumento della quantità della vita incide sulla qualità della stessa vi è necessariamente uno scontro di valori che spetta solo e soltanto al singolo, il quale deciderà quale far prevalere, tenendo in debito conto la scala personale dei suoi valori.
Uno Stato che non decide su trattamenti di fine vita è uno stato che, di fatto, si arroga il diritto di decidere quale valore prevale.
Uno stato etico che contrasta con i valori fondamentali del nostro ordinamento costituzionale e che viola la Carta Fondamentale.
Ma se è vero il discorso del bilanciamento tra qualità e quantità della vita appena fatto, allora torna il discorso che ho fatto all’inizio
Vi è un bilanciamento soggettivamente soggettivo di interessi contrapposti, ovvero dignità e qualità della vita da un lato e quantità della vita dall’altro che va lasciato alla libera scelta individuale propria del singolo.
Ma se il bilanciamento pende dalla parte della qualità e del mantenimento della dignità, non si può che rispettare e garantire tale scelta, mettendo il singolo nella posizione di attuarla.
Ogni individuo è unico nella sua esperienza di vita, nei suoi valori, e nel modo di vivere e confrontarsi con la malattia e pertanto ogni esperienza va presa e considerata singolarmente.
Curare non vuol dire solo tentare di guarire “ma anche rendere questa vita accettabile, lenire il dolore, non protrarre inutilmente il processo di morire” (l’espressione è di VINCENTI AMATO, Il silenzio della legge e il testamento di vita, in AA.VV., Testamento biologico, cit., 185).
Come ha affermato anche Ferrando “il dovere di curarsi, che può scaturire da obblighi morali e da responsabilità verso altre persone, o che può attingere a valori trascendenti, non si traduce in un obbligo giuridico, essendo prevalente il rispetto della libertà della persona e della sua dignità”.
Credo che quando la morte è sicura o si vive in una condizione di arelazionalità – stati vegetativi o totale incapacità di autosufficienza anche in presenza di autocoscienza – è corretto garantire al singolo di vivere dignitosamente l’ultima fase della propria esistenza con dignità, mantenendo dignitoso in proprio corpo senza aggressioni terapeutiche, frutto di una presa d’atto, in ogni caso dolorosa e sofferta, di morire.
E’ una scelta individuale propria e il legislatore, il giudice o il medico non può far altro che cercare di persuadere il singolo ad una scelta piuttosto che ad un’altra, eseguendo il volere del paziente.