Dead lock (Le opportunità dello stallo)
Gli esiti elettorali possono, forse, adesso essere analizzati con maggiore calma.
Non tanto dal punto di vista politico, appare difficile azzardare previsioni con un Berlusconi che si muove verso un governo di larghe coalizioni, un Grillo che rifiuta di dare la fiducia a qualsiasi governo, se non, forse, ad un governo guidato da lui stesso, il che non pare probabile, un Bersani che viene messo sotto processo dai leader del suo stesso partito.
Ma, forse, dal punto di vista istituzionale, qualcosa si può dire, seguendo in ordine cronologico i diversi adempimenti che devono essere posti in essere dalla XVII Legislatura repubblicana.
Il primo di questi adempimenti è fissato per il 15 marzo 2013, quando si riuniranno le nuove camere. Le nuove camere saranno presiedute dal senatore più anziano in età (art. 2, Reg. Senato) e dal vicepresidente più anziano per età fra quelli in carica nella legislatura precedente alla Camera, ovvero se nessun vicepresidente della precedente legislatura è risultato eletto da quello che aveva questa qualità nella precedente legislatura, ovvero dal più anziano per età (art. 2, Reg. Camera).
Alla Camera, l’art. 4 del regolamento prevede la maggioranza dei due terzi dei componenti alla prima votazione, dei due terzi dei voti, considerando anche le schede bianche alla seconda votazione, la maggioranza assoluta dei voti a partire dalla terza.Il centrosinistra, che vanta 340 deputati, non dovrebbe avere problemi nella elezione del presidente della Camera dei Deputati
Di conseguenza, il centrosinistra, che vanta 340 deputati, non dovrebbe avere problemi nella elezione del presidente della Camera dei Deputati.
Al Senato, l’art. 4 del regolamento prevede: E’ eletto chi raggiunge la maggioranza assoluta dei voti dei componenti del Senato. Qualora non si raggiunga questa maggioranza neanche con un secondo scrutinio, si procede, nel giorno successivo, ad una terza votazione nella quale è sufficiente la maggioranza assoluta dei voti dei presenti, computando tra i voti anche le schede bianche. Qualora nella terza votazione nessuno abbia riportato detta maggioranza, il Senato procede nello stesso giorno al ballottaggio fra i due candidati che hanno ottenuto nel precedente scrutinio il maggior numero di voti e viene proclamato eletto quello che consegue la maggioranza, anche se relativa. A parità di voti è eletto o entra in ballottaggio il più anziano di età.Al Senato, il fatto che i voti del movimento 5* siano decisivi per l’elezione del presidente del Senato può favorire un accordo fra Grillo e Bersani. Bersani può facilmente concedere la presidenza del Senato a Grillo perché questa concessione non gli costa niente: regala una carica che non è in grado di ottenere con le proprie forze
Questa disposizione, nella sostanza, introduce un meccanismo per cui se una forza politica riesce a coagulare la maggioranza assoluta dei senatori, questa forza politica ha il potere di designare il presidente della istituzione. La maggioranza assoluta al Senato, salvo errori e stando ai risultati elettorali riportati dal Ministero dell’interno, è 158. La coalizione di centrosinistra conta 113 senatori, quella di centrodestra 117 e, quindi, solo con i voti del movimento 5* si può arrivare alla maggioranza assoluta.
Di conseguenza, appare inevitabile il ballottaggio ed il ballottaggio porta ad un presidente del Senato di centrodestra se il movimento 5* si astiene, ovvero esce dall’aula, il che, in questo caso non appare rilevante, oppure ad un presidente di centrosinistra se il movimento 5* vota con il centrosinistra.
In conclusione, dal punto di vista costituzionale, il Parlamento potrà trovare i suoi presidenti ed i regolamenti parlamentari consentono la sua elezione senza eccessivi problemi.
Dal punto di vista politico, il fatto che i voti del movimento 5* siano decisivi per l’elezione del presidente del Senato può favorire un accordo fra Grillo e Bersani. Bersani può facilmente concedere la presidenza del Senato a Grillo perché questa concessione non gli costa niente: regala una carica che non è in grado di ottenere con le proprie forze.
Il secondo adempimento è fissato per il 15 aprile 2013, quando il Parlamento si dovrà riunire in seduta comune per l’elezione del Capo dello Stato e qui il discorso si fa un po’ più complesso.
Il Parlamento in seduta comune, difatti, deve essere integrato di tre delegati per ciascuna regione, ad eccezione della Valle d’Aosta che ne elegge soltanto uno. I delegati regionali sono perciò complessivamente 58. Questi devono essere eletti dai consigli regionali in modo che sia assicurata la rappresentanza delle minoranze ai sensi dell’art. 83, secondo comma, Cost. e per consuetudine costituzionale il Presidente della Camera dei Deputati, quale Presidente del Parlamento in seduta comune, procede alla verifica dei poteri dei delegati e legge la lista degli eletti all’assemblea prima di iniziare le votazioni. Le regioni di centrosinistra sono 10, sempre stando ai dati del Ministero dell’interno, quelle di centrodestra, 9 mentre la Valle d’Aosta è governata da Vallée d’Aoste. Se si considera che i consigli regionali assegnino due delegati alla propria maggioranza consiliare ed uno alla minoranza, si hanno complessivamente 29 delegati per il centrosinistra, 27 o 28 per il centrodestra (a seconda che l’assemblea regionale siciliana consideri minoranza il centrodestra o il movimento 5*) ed 1 a Vallée d’Aoste.Per l’elezione del Presidente della Repubblica, Il centrosinistra dovrebbe contare 482 fra parlamentari e delegati dei consigli regionali, di talché occorrono 11 voti (segreti) per raggiungere una maggioranza assoluta che non sembra lontana, vuoi per un accordo con il centro destra, vuoi grazie ai 63 voti di Monti, vuoi grazie al movimento 5*
Ai sensi dell’art. 83, terzo comma, è necessaria una maggioranza dei due terzi dell’assemblea nei primi due scrutini e assoluta a partire dal terzo. Sempre stando ai dati del Ministero dell’interno, la maggioranza dei due terzi conta 656 e la maggioranza assoluta conta 493. Il centrosinistra dovrebbe contare 482 fra parlamentari e delegati dei consigli regionali, di talché occorrono 11 voti (segreti) per raggiungere una maggioranza assoluta che non sembra lontana, vuoi per un accordo con il centro destra, vuoi grazie ai 63 voti di Monti, vuoi grazie al movimento 5* la cui recente fondazione potrebbe non far immaginare una assoluta fedeltà di partito: se uno conta uno, uno può facilmente diventare nessuno.
Un’ultima pacata osservazione riguarda l’ipotesi in cui il Parlamento non riesca nel tempo compreso fra il 15 maggio ed il 15 aprile ad eleggere il Capo dello Stato. Non è mai avvenuto sinora, ma appare pacifico che l’attuale Presidente della Repubblica resti in carica in regime di prorogatio, difatti si può considerare minoritaria la tesi che vuole in questi casi la supplenza del Presidente del Senato (Mortati). Se è prorogatio, appare possibile sostenere che, in analogia con quanto sostenuto a proposito del Governo nel caso in cui lo stesso non ottenga la fiducia, il Capo dello Stato non resti in carica per il mero disbrigo degli affari correnti, ma, al contrario, abbia l’onere di sbrigare tutti quegli affari che sono talmente urgenti da non poter esser differiti neppure di un giorno.Quanto allo scioglimento anticipato delle Camere, l’art. 88, secondo comma, Cost. non consente al Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere negli ultimi sei mesi del mandato, ma non dopo che i sei mesi sono passati
Un tanto significa che la mancata elezione entro il 15 maggio 2013 del Capo dello Stato gli potrebbe consentire di procedere allo scioglimento delle Camere, dal momento che l’art. 88, secondo comma, Cost. (Non può esercitare tale facoltà negli ultimi sei mesi del suo mandato, salvo che essi coincidano in tutto o in parte con gli ultimi sei mesi della legislatura) non gli consente di sciogliere le Camere negli ultimi sei mesi del mandato, ma non dopo che i sei mesi sono passati.
Il terzo adempimento, in realtà, non ha un termine in Costituzione ed è il più delicato di tutti, perché riguarda la formazione del nuovo Governo.
E’ pacifico che il Governo è un organo continuo. Un Governo, perciò, resta in carica fino alla nomina del successivo e le dimissioni del Presidente del Consiglio uscente sono controfirmate dal Presidente del Consiglio entrante in uno con la sua nomina e con la nomina dei ministri.
Questo significa che Monti resta in carica fino al momento in cui non sarà sostituito dal Presidente della Repubblica ed il Presidente della Repubblica può nominare il Capo del Governo solo nel momento in cui ha la ragionevole certezza che la persona nominata possa ricevere la fiducia delle Camere, operando come “fattore di coagulazione” (Capotosti).
In questo caso, l’opera di coagulazione del Presidente della Repubblica appare particolarmente complessa perché la coalizione di centrosinistra è titolare del potere di accordare o negare la fiducia alla Camera, mentre nessuna forza politica ha un analogo potere al Senato.
Per questo motivo, si è sostenuto, sottolineandone l’impraticabilità pratica (Ceccanti), che la coalizione che ha la fiducia della Camera potrebbe ottenere la fiducia al Senato, non grazie ad una maggioranza di 158/160 senatori, ma grazie all’uscita dall’aula di tanti senatori quanti non sono necessari a consentire di mantenere il numero legale, la cui verifica è automatica in una votazione per appello nominale, in maniera da permettere ad una minoranza dei senatori di esprimere la volontà dell’aula.
In altre parole, si dovrebbe riuscire ad avere la certezza che, al momento del voto di fiducia, 153 senatori escano dall’aula, in modo che i 113 senatori del centrosinistra possano votare la fiducia al Governo che è stato nominato dal Capo dello Stato.
Tuttavia, un tanto può accadere solo con l’accordo del centrodestra e non è ipotizzabile che Berlusconi possa dare la fiducia ad un Governo di centrosinistra senza prima averlo trasfigurato in una grande coalizione che, però, snaturerebbe definitivamente un’entità che l’esito delle urne obbliga a darsi un profilo alto.
Difatti, il movimento 5* e Monti al Senato contano complessivi 72 senatori che se potrebbero essere decisivi per la fiducia non sono abbastanza per consentire una non fiducia.
E’ davvero uno scenario inedito nella storia repubblicana, uno scenario che potrebbe essere definito come di crisi pre-parlamentare, poiché l’esito delle urne è tale da non consentire neppure la formalizzazione della sfiducia, mancando la persona che può funzionare da polo aggregante del “fattore di coagulazione” rappresentato dall’opera di moral suasion di un Capo dello Stato fortemente indebolito dalla imminenza della sua scadenza.Per la prima volta nella storia della Repubblica, appaiono le crisi preparlamentari e, in questi casi, forse, la cosa meno irragionevole è che resti in carica il Presidente del Consiglio uscente
La crisi preparlamentare obbliga ad una riflessione sui poteri del Capo dello Stato. Da una parte, è pacifico che il Presidente della Repubblica, nel caso di crisi di governo, abbia l’obbligo di cercare una personalità in grado di ricevere la fiducia del Parlamento (Zagrebelsky). Egualmente si è sostenuto che, ove questo non sia possibile, il Capo dello Stato sia libero di indicare la persona che ritiene più adatta a guidare il paese fino alle nuove elezioni (Maranini) e non è stato raro il caso di governi che non abbiano ricevuto la fiducia delle Camere all’atto del loro insediamento (si possono ricordare l’ottavo governo De Gasperi, 16/7 – 2/8/1953; il primo governo Fanfani, 18/1 – 8/2/1954; il primo ed il quinto governo Andreotti, 1972 e 1979, salvo se altri).
Ma, in questo caso, è opportuno che il Presidente della Repubblica nomini un Presidente del Consiglio dei Ministri che non può ricevere la fiducia del Parlamento nell’ultimo mese del suo mandato che precede la convocazione delle Camere in seduta comune per la sua sostituzione?
Forse no, e la conseguenza sarebbe che Monti resterebbe in carica, ovvero che resterebbe in carica un Presidente del Consiglio che non può limitare la sua attività al disbrigo degli affari correnti, ma che deve, invece, occuparsi di quegli affari che non tollerano dilazioni per il loro compimento.
Questi affari, però, sono quelli che più probabilmente devono essere condivisi con il Parlamento e nella cui soluzione si rivela il rapporto di fiducia fra Parlamento e Governo, ovvero che hanno bisogno proprio di quello che manca.
In altre parole, la crisi preparlamentare assomiglia ad un problema insolubile, che, però, se lo si guarda più da vicino è molto meno insolubile di quanto non sembri in astratto: la vera scadenza che si avvicina è la presentazione alla Commissione Eu delle linee fondamentali della manovra di bilancio che il Parlamento dovrà approvare nella sessione autunnale sulla base delle raccomandazioni che la Commissione avrà modo di esprimere entro giugno.
Sotto questo aspetto, la delicatezza di questo adempimento, ma nello stesso tempo anche la sua natura unionale e perciò il fatto che lo stesso si rappresenti come un documento bloccato dalle scelte di bilancio già operate, spinge verso la continuità con il Governo Monti, che dovrebbe restare in carica almeno sino alla sua approvazione.
In definitiva, le urne ci hanno consegnato un risultato non particolarmente rilevante né per quanto riguarda le elezioni dei Presidenti di Camera e Senato, né del nuovo Capo dello Stato; il semestre bianco merita di essere interpretato come non più di sei mesi e perciò non arriva a coprire anche la prorogatio del Capo dello Stato; alle classiche cinque ipotesi di crisi del rapporto di fiducia (quella che si ha al rinnovo della legislatura; quelle che si hanno per effetto di voti che manifestino la sfiducia pur non essendo formalmente voti su una mozione di fiducia; le crisi ministeriali; i governi costituiti a termine e le crisi extraparlamentari) si possono aggiungere adesso anche le crisi preparlamentari, dove, forse, la cosa più ragionevole è che resti in carica il Presidente del Consiglio uscente almeno sino a nuove elezioni.
Se fosse così, dal momento che in queste elezioni le uniche due cose certe sono che la metà degli elettori ha espresso una vivace sfiducia nel sistema (è la somma degli astenuti e dei consensi raggiunti dal movimento 5*) e che il novanta per cento degli elettori si è espresso contro le linee di governo espresse da Monti, in un mondo ideale ci sarebbe molto più che un motivo perché i partiti politici riescano ad offrire a Napolitano un’alternativa seria e credibile a Monti.
Ma, nel mondo reale, sia Berlusconi che Bersani sanno perfettamente che un clima da compromesso storico danneggerebbe in termini forse irreparabili il consenso della forza chiamata ad offrire il proprio sostegno alla coalizione avversaria, Grillo è altrettanto consapevole che, storicamente, i movimenti antisistema (il p.c.i. fino al 1972, i radicali sino al 1987, la lega, l’Italia dei Valori etc.) si logorano con rapidità e quindi non ha nessun interesse ad accelerare il proprio inevitabile decadimento, Bersani sa che una grande coalizione lo potrebbe perdere definitivamente perché gli impedirebbe le grandi riforme che il suo elettorato non può non pretendere mentre un’alleanza con Grillo ha più senso come presupposto mancato per una soluzione alternativa che non come soluzione concreta e fattibile.
Ma è uno stallo che segna la ripresa di centralità del Parlamento e questo per un costituzionalista non può essere letto come un fatto negativo.
Nello stesso tempo, è uno stallo che obbliga il Parlamento ad una massima attenzione nell’individuare chi potrà svolgere le funzioni di Capo dello Stato nei prossimi sette anni, perché se perdurasse la crisi preparlamentare, e Napolitano potrebbe avere una certa difficoltà ad individuare una personalità in grado di ricevere la fiducia del Senato, sia il nuovo Presidente della Repubblica, sia, in caso di mancate elezioni e decorso il semestre bianco, hanno il potere di sciogliere anticipatamente le Camere…