La Russa dal punto di vista di Calamandrei
Il Presidente del Senato si è espresso in maniera disordinata sulla strage di via Rasella e sulla connessa strage delle Fosse Ardeatine e altrettanto disordinatamente ha corretto la propria opinione il giorno successivo che, non a caso, era il 1 aprile.
Le reazioni seguono due filoni altrettanto disordinati.
Uno è la richiesta di dimissioni: la seconda carica dello Stato non può parlare in termini critici della resistenza.
L’altro è la memoria di Salvo D’Acquisto: fra dei partigiani che compiono un attentato uccidendo dei militari nemici nella consapevolezza che questo evento determinerà una rappresaglia a carico dei civili che i partigiani vorrebbero proteggere e il carabiniere che sacrifica la sua vita per salvare quella di alcuni civili che erano stati rastrellati, non ci sarebbe alcun paragone. I primi sarebbero sostanzialmente dei criminali spregiudicati. Il secondo sarebbe un martire.
Forse le cose stanno diversamente e rendono opportuno riflettere su piani diversi.
Il primo di questi piani è la Coscienza della responsabilità, come titolava L’Unità del 30 marzo 1944: il fatto che i Gruppi Armati Patriottici di Franco Calamandrei e Gianfranco Mattei abbiano ucciso dei nemici è un fatto di guerra. La consapevolezza che da questo fatto di guerra sarebbe derivata una strage in rappresaglia non rende inutile il fatto di guerra perché se si è consapevoli di fare il proprio dovere e che dall’adempimento del proprio dovere deriverà una sanzione profondamente ingiusta e illegittima, questo non significa non dover compiere il proprio dovere fino in fondo.
E la guerra partigiana – quando è stata guerra di liberazione: non sempre lo è stata – era l’adempimento di un dovere.
Il secondo di questi piani è molto vicino al primo: se tutti gli italiani si fossero comportati come Salvo D’Acquisto, il cui santo eroismo merita assoluta venerazione, non è detto che il comportamento dei nazisti sarebbe stato più umano: l’approssimarsi della fine aveva liberato gli animi più bestiali.
Il terzo di questi piani è terribilmente umano e riguarda chi effettivamente partecipò a quella strage: se è vero che aveva fatto il proprio dovere di partigiano, patriota e comunista, è anche vero che uccidere i nemici quando si sa che dopo quell’uccisione non potrà non scatenarsi una terribile rappresaglia, non è una cosa che non può restare come una ferita aperta in un giovane appassionato di Gide, innamorato di Montale e figlio del maggiore intellettuale antifascista del ventennio.
E’ difficile non sentire sulle proprie spalle il peso di quei 320 innocenti fucilati alle Fosse Ardeatine: posso sapere che non è colpa mia, posso seguire il filo della Coscienza della responsabilità, ma non potrò mai negare a me stesso che senza di me, senza la bomba che io stesso ho collocato, 352 esseri umani non sarebbero evaporati nel niente.
Così, aggiungo, fu molto difficile per Piero Calamandrei accettare che l’autore della strage di via Raselli fosse suo figlio Franco: non è facile invitare a pranzo per Natale un figlio che ragiona secondo la Coscienza della responsabilità e che è capace di seguirla con quello che alla moderata sensibilità che trasuda nei diari di Piero non poteva non apparire come fanatismo.
L’ultimo di questi piani riguarda il giudizio storico sulla resistenza che lo si è scritto timidamente poco sopra non è stata solo guerra di liberazione. Lo è stata in via Raselli, sicuramente. Non lo è stata ai confini orientali e in non pochi episodi ben documentati nelle inchieste parlamentari della prima legislatura repubblicana.
La resistenza è diventata il mito fondativo della Repubblica senza averlo meritato del tutto. Lo scrive molto bene Luzzatto nella introduzione a Uomini e città della resistenza, il libro in cui Laterza ha raccolto gli interventi di Piero Calamandrei sulla resistenza, il più famoso dei quali è la lapide che ricorda la strage delle Fosse Ardeatine. Ce n’era bisogno per superare il fascismo e per dare le gambe alla Costituzione. Ma ce n’era bisogno anche per dimenticare che le prime legislature repubblicane non segnarono alcuna soluzione di continuità rispetto all’esperienza fascista.
Sulla resistenza, oggi, a distanza di settanta anni, si può parlare serenamente?
Sembra di no e questo onestamente disturba, persino se la discussione è originata da un intervento scomposto e storicamente impreciso di un politico che, per la carica che riveste e il ruolo che svolge, dovrebbe rappresentare l’unità della nazione quanto il Capo dello Stato.
Perché è arrivato il momento di dare un senso alla nostra storia e questo senso, forse, lo si scrive con un lapis quasi senza tracciare il foglio bianco, si potrebbe sostenere che il cinismo politico della classe dirigente italiana che ha generato il fascismo secondo l’analisi di Gobetti, non è molto diverso dal cinismo politico della stessa classe dirigente che vent’anni dopo lo ha tradito, che il Re non fu più coraggioso nel 1943 che nel 1922: fu il solito pavido collezionista di monete ossessivamente attaccato alla forma esteriore delle cose, si potrebbe anche sostenere che questo cinismo politico dapprima ha lasciato libero sfogo agli ideali dell’Assemblea costituente e subito dopo li ha traditi perché sapeva che tutto doveva cambiare in apparenza perché niente cambiasse nella sostanza.
Ecco tutto questo, se si avesse voglia, si dovrebbe dire e allora il discorso di La Russa dovrebbe diventare l’occasione di una riflessione seria sul futuro perché capace di affrontare un problema (il cinismo della classe dirigente e la sostanziale indifferenza del popolo) che non mi pare sia mai stato preso davvero sul serio.