Ilva: laminando (a caldo) Corte cost. 58 del 2018
Ilva, con la sua presenza a Taranto, con l’impatto di un mostro che mangia rocce e vomita un pane che per alcuni sa di acciaio e fumo e per altri è dolce come la musica dei dollari di Paperone, pone un problema “terribile” di diritto costituzionale.
Terribile per la consistenza dei valori in gioco: il diritto alla eguaglianza nella salute e nell’ambiente ed il diritto all’eguaglianza nella libertà di iniziativa economica e nel diritto al lavoro.
Terribile per la necessità di operare un bilanciamento fra questi diritti, ovvero di spiegare attraverso un’applicazione ragionevole del principio maggioritario, perché in grado di convincere una democrazia matura e consapevole, senza essere travolti dalla forza retorica dei valori in gioco.
Terribile per la necessità di distinguere fra le diverse competenze che possono entrare in gioco nell’operazione di bilanciamento:
- la funzione amministrativa: il punto di equilibrio del risanamento industriale dovrebbe appoggiarsi, ai sensi del d.lgs. 152/2006, sull’autorizzazione integrata ambientale che dovrebbe assicurare il corretto esercizio dell’attività di stabilimento. Un eventuale contenzioso sull’autorizzazione integrata ambientale sarebbe di competenza del giudice amministrativo e dell’autorevole prudenza con cui maneggia questioni che possono diventare politicamente incandescenti;
- il giudice penale: il punto di equilibrio del risanamento industriale non può determinare una lesione dei beni primari, la vita e la salute, protetti dall’ordinamento giuridico. In questo caso, non vi è alcun bilanciamento ma solo l’accertamento di una condotta e della sua rilevanza penale;
- la funzione legislativa: il punto di equilibrio fra i diversi interessi costituzionali coinvolti dal caso Ilva è stato cercato attraverso una decisione politica, basata sulle regole di rappresentanza e nella quale il principio maggioritario trova l’unico limite del rispetto della Costituzione come verificato dalla Corte costituzionale.
Il vero problema, il problema che non si riesce a risolvere, è la logica di un bilanciamento nel quale uno dei valori in gioco è il diritto dei bambini (di tutti i bambini che vivono non solo in Italia ma nell’Unione Europea) a respirare un’aria che non sia meno pulita di quella che respirano gli altri bambini, a bere un’acqua che non sia meno pura di quella che bevono gli altri bambini, perché in fondo il diritto dell’ambiente regola esattamente questo diritto, stabilendo la misura in cui il dovere di solidarietà impone ai cittadini di subire un pericolo per la propria salute per ragioni che possono essere considerate di interesse pubblico.
Su questo conflitto, perché come hanno osservato sia Bin che Onida si tratta di un vero e proprio conflitto costituzionale fra giurisdizione, amministrazione e sfera politica intorno al valore del bene ambiente, la Corte costituzionale si è già pronunciata una volta (Corte cost. 85/2013) e ha espresso l’opinione che il bilanciamento sia possibile purché vi sia un percorso di risanamento ispirato al rispetto di tutti i valori costituzionali in gioco e regolato in forma amministrativa da un’autorizzazione integrata ambientale che può tenere conto delle specificità del caso concreto e di bisogni di risanamento particolari.
Il conflitto è ritornato dinanzi alla Corte costituzionale con ancora maggiore vigore, perché questa volta un decreto legge (il d.l. 92/2015) ha previsto che fosse sufficiente, dopo il sequestro penale, presentare un piano di risanamento per poter proseguire nell’attività industriale, senza alcuna valutazione di questo piano di risanamento da parte dell’amministrazione competente.
La Corte costituzionale, con la sentenza 58/2018, ha stabilito che non può bastare presentare un piano di risanamento per poter proseguire nell’attività industriale perché occorre dimostrare alla pubblica amministrazione che quel piano di risanamento rappresentata un ragionevole strumento di tutela per il bisogno di salute e di sicurezza espresso dai cittadini e dai lavoratori.
Fin qui, il discorso della Corte costituzionale è molto corretto e rappresenta un ragionevole sviluppo dei principi affermati da Corte cost. 85/2013, chiarendo che il conflitto fra giurisdizione e sfera politica generato dalla definizione dei valori ambientali deve necessariamente essere mediato dalla sfera amministrativa.
Ma ci sono almeno due Però:
(i) che cosa dice la Corte quando dichiara rilevante una questione di legittimità costituzionale che non poteva essere considerata rilevante perché riguardava una norma abrogata (il d.l. 92/2015), operando un’operazione di trasferimento della questione di legittimità costituzionale decisamente inedita nella giurisprudenza costituzionale?
(ii) che cosa dice il giudice penale che solleva la questione di legittimità costituzionale delle disposizioni che determinano un danno grave ed irreparabile alla salute dei cittadini che sta cercando di tutelare ma consegna la sua ordinanza alla Corte costituzionale solo nel 2017?
Sotto il primo aspetto, si deve osservare che la Corte costituzionale ha giudicato sul contenuto di una norma espressa dal d.l. 92/2015. Questa norma è stata abrogata dall’art. 1, secondo comma, legge 132/2015 e riprodotta nell’art. 21 octies, legge 132/2015.
Ad avviso della Corte costituzionale, il fatto che la norma abrogata sia stata contestualmente riprodotta consente di applicare la giurisprudenza sul trasferimento della questione di legittimità costituzionale dal decreto legge decaduto al decreto legge reiterato (Corte cost. 83/1996).
E’ una giurisprudenza che si giustifica con la peculiarità del fenomeno della reiterazione dei decreti legge che impedisce al giudice costituzionale di conoscere della questione sollevata perché quando questa questione arriva alla Consulta il decreto legge non esiste più ed è stato sostituito da un altro decreto legge in una sequenza infinita e sfinente.
Ma questa giurisprudenza non era pertinente, perché la legge 132/2015 non era una reiterazione del d.l. 92, è la legge con cui il contenuto del d.l. 92/2015 è stato sostanzialmente convertito in legge, sia pure attraverso un’abrogazione e una novella.
Nello stesso tempo, e si viene al secondo punto di questa vicenda, l’impossibilità della Corte di conoscere della questione di legittimità costituzionale posta dal d.l. 92/2015 non dipende dal legislatore ma dal giudice penale che ha impiegato oltre due anni a far pervenire la sua ordinanza dal Tribunale di Taranto al Palazzo della Consulta.
Sono interrogativi a cui non è difficile dare una risposta.
La legittimazione della Corte costituzionale nel sistema non dipende solo dalla soluzione di concreti bisogni di giustizia costituzionale, dipende anche dal rispetto delle regole processuali. Se la Corte manca nel rispetto delle regole processuali, perde di credibilità. Questa Corte nella sentenza 10/2015 ha piegato le proprie regole processuali per dire alle società petrolifere che avevano ragione a contestare una tassazione dei loro profitti iniqua ma che non potevano riavere indietro i soldi versati perché ci sarebbe stato un danno per le finanze dello Stato. Adesso dice al giudice penale che non importa se le norme che sospetta di incostituzionalità sono state abrogate perché la Corte «giudica su norme, ma pronuncia su disposizioni».
Sono oscillazioni preoccupanti.
La legittimazione del giudice penale dipende dalla sua capacità di assicurare tutela ai beni che gli sono affidati. Una tutela che deve essere tempestiva per quanto riguarda gli adempimenti di sua competenza. Due anni per spedire un plico che contiene il bisogno di giustizia espresso da chi respira un’aria che non è uguale a quella che respirano gli altri cittadini sono dannatamente troppi.