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la Costituzione ride, ma è una cosa seria close

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Archive for month: Marzo, 2018

L’Ufficio di Presidenza al Senato: si comincia bene?

in profstanco / by Gian Luca Conti
29/03/2018

1 – Ieri è stato eletto l’Ufficio di Presidenza del Senato.

La notizia che ha destato preoccupazione è stata la mancata elezione di un questore del gruppo parlamentare che fa capo al PD.

E’ stato detto che rappresenta un grave vulnus per le minoranze parlamentari, che in questo modo non hanno alcuna rappresentanza nell’Ufficio di Presidenza, a livello di questori.

E’ una mezza verità perché è assolutamente vero che nell’Ufficio di Presidenza e particolarmente a livello di Vicepresidenza e di questori vi deve essere una rappresentanza delle minoranze e delle minoranze più qualificate. Read more →

Riforma del regolamento del Senato e scenari post-elettorali

in profstanco / by Gian Luca Conti
27/03/2018

1 – L’estremo dono della XVII Legislatura è stato la riforma del regolamento del Senato, una riforma importante e resa possibile dal contributo decisivo di Calderoli, come ha avuto modo di riconoscere Napolitano.

La riforma ha riguardato:

  • la possibilità di creare nuovi gruppi parlamentari: è possibile solo per i partiti e i movimenti politici che hanno partecipato alle elezioni ed una volta che si è aderito a un gruppo può essere molto difficile abbandonarlo;
  • l’abbandono della regola per cui l’astensione vale come voto contrario: l’astensione sarà, come alla Camera, computata ai fini del numero legale ma non della maggioranza da raggiungere per ottenere il passaggio di una determinata deliberazione;
  • il decisivo aumento del lavoro in Commissione, piuttosto che in Aula, con il riconoscimento che il luogo in cui si lavora davvero è la sede riservata piuttosto che quella pubblica.

Come tutti i doni di fine Legislatura e, soprattutto i doni di fine Legislatura portati da un Calderoli travestito da Babbo Natale, questa riforma merita di essere guardata con attenzione, quando le vacanze sono finite, ovvero alla luce dei risultati elettorali.

2 – I risultati elettorali mostrano una rappresentanza frammentata in non meno di tre macro aree, solo una delle quali appare compatta, e cinque gruppi.

Al Senato, si ha:

M5S 110

Forza Italia 61

Lega 58

Partito democratico 52

Fratelli d’Italia 18

Misto e autonomie [ancora da capire, ma complessivamente 19]

Maggioranza: 160

3 – Il primo aspetto su cui vale la pena fermare l’attenzione è il fatto che non possono nascere nuovi gruppi parlamentari al Senato, nella 18° Legislatura ulteriori rispetto ai simboli che hanno partecipato alle elezioni.

L’art. 1  della riforma introduce il principio in base al quale ciascun Gruppo, ferma la soglia minima di dieci senatori, deve essere espressione di un partito o movimento politico “che abbia presentato alle elezioni del Senato propri candidati con lo stesso contrassegno”.

La norma ha come fondamento una visione restrittiva del libero mandato parlamentare che si conferma nelle previsioni per cui coloro che abbandonano il proprio gruppo decadono dalle cariche di Vicepresidente e segretario, nonché da quelle eventualmente ricoperte negli uffici di presidenza delle Commissioni.

Questo complesso sistema fa sì che:

  1. solo i partiti che hanno partecipato alle ultime elezioni e hanno ottenuto non meno di dieci senatori possono formare un gruppo parlamentare;
  2. una volta formato il gruppo parlamentare, chi ne fa parte potrebbe avere dei forti disincentivi se dovesse decidere di cambiare i termini della propria appartenenza politica, perché dovrebbe essere considerato decaduto dal ruolo svolto negli uffici.

La norma si giustifica storicamente con la necessità di evitare scissioni come quelle che hanno dato vita ad Ala, generata da Forza Italia allo scopo di consentire la nascita del governo Renzi, senza generare crisi di identità troppo forti negli elettori del centrodestra.

Forse, però, questa norma serve essenzialmente a mantenere ferma l’identità dei gruppi parlamentari malgrado le diverse anime politiche che vivono nei partiti politici e che l’esito della competizione politica potrebbe avere esasperato.

Sembra una disposizione che dice alla parte del PD che potrebbe non desiderare restare unita dopo la debacle del 4 marzo: se volete uscire dal gruppo, vi potete accomodare nel gruppo misto, insieme a Grasso, Carlo Martelli, Mario Monti e Maurizio Buccarella…

Funziona però anche nei confronti del movimento 5 stelle, perché sconsiglia fortemente la secessione di coloro che potrebbero non essere soddisfatti delle alleanze che stanno maturando da una parte o che potrebbero maturare dall’altra.

E lo stesso vale sia per i gruppi di Forza Italia e della Lega.

Questa modifica del regolamento del Senato semplifica e riduce fortemente la dialettica politica, perché concentra il potere negoziale nei capigruppo, di cui aumenta la capacità di tenuta e di comando sui membri del proprio gruppo.

4 – Il secondo cambiamento riguarda le regole per il computo degli astenuti.

L’art. 64, terzo comma, Cost. ha sempre costituito un punto di equilibrio diverso alla Camera, dove gli astenuti concorrono al computo per il numero legale, ma non anche a determinare la maggioranza e al Senato, dove gli astenuti contavano sia ai fini del numero legale che ai fini del computo della maggioranza.

Questa differenza è caduta con la riforma del regolamento del Senato che si sta commentando: sia alla Camera che al Senato gli astenuti contano per la formazione del numero legale ma non anche per il computo della maggioranza.

Nella 17° Legislatura, il movimento 5 stelle ha spesso richiesto la verifica del numero legale e si può immaginare che il PD all’opposizione faccia propria questa tattica chiedendo continuamente la verifica del numero legale, che perciò non dovrà mancare.

Tuttavia la presenza ai fini del numero legale non vale anche come presenza ai fini del computo della maggioranza necessaria per deliberare, sicché una forza politica “responsabile” potrebbe non far mancare il numero legale ma astenersi successivamente e questo cambia significativamente gli scenari che si possono aprire.

Nella tabella che segue si incollano le maggioranze necessarie nel caso in cui uno dei gruppi parlamentari che si formeranno decida di operare “responsabilmente” garantendo la propria presenza ai fini del numero legale e successivamente astenendosi:

Totale 318
Maggioranza 160
Maggioranza meno FI 129
Maggioranza meno Lega 131
Maggioranza meno PD 133

E’ evidente che una maggioranza di 160 è difficile da raggiungere senza un accordo stabile, ma è evidente anche che una maggioranza compresa tra 129 e 133 è molto piace semplice da raggiungere e soprattutto da mantenere.

La novità regolamentare sembra, in altre parole, muovere verso una centralità dell’astensione, consentita dall’omogeneizzazione del computo dei voti sia al Senato che alla Camera.

5 – La terza mutazione riguarda il lavoro in Commissione.

Predieri, nei parlamenti del consociativismo, censurò l’erompere delle leggine, consentito dal fatto che ciò che non era possibile nel pubblico dell’Assemblea, era ragionevole nel segreto delle Commissioni.

Forse la citazione è troppo alta.

Però dopo il fallimento della seconda repubblica e dei suoi contratti con gli italiani, la terza repubblica potrebbe riscoprire la centralità del Parlamento e la centralità del Parlamento non è la centralità della sede pubblica assembleare ma la ricerca del compromesso reso possibile dalla penombra delle commissioni.

Le nuove autonomie di Veneto e Lombardia dopo il referendum

in profstanco / by Andrea Mugnaini
27/03/2018

 

Sono passati ormai cinque mesi da quando i cittadini di Veneto e Lombardia hanno dato il proprio via libera ai negoziati tra la Regione e il governo per ottenere nuove forme di autonomia. La norma costituzionale posta a base dell’iniziativa è il terzo comma dell’art. 116, dove si stabilisce che: “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, concernenti le materie di cui al terzo comma dell’articolo 117 e le materie indicate dal secondo comma del medesimo articolo alle lettere l), limitatamente all’organizzazione della giustizia di pace, n) e s), possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata, sentiti gli enti locali, nel rispetto dei princìpi di cui all’articolo 119. La legge è approvata dalle Camere a maggioranza assoluta dei componenti, sulla base di intesa fra lo Stato e la Regione interessata”. La disposizione era stata richiamata dal quesito lombardo, mentre non ve n’era traccia in quello veneto: una circostanza questa che, insieme ad alcune dichiarazioni del governatore Luca Zaia, aveva fatto nascere il sospetto che, la Regione, almeno nelle intenzioni, volesse spingersi ben aldilà di quanto stabilito dalla Carta.

Di certo c’è che il Veneto ha attribuito maggior importanza, non solo politica, al referendum dello scorso 22 ottobre di quanto abbia fatto la Lombardia. Lo si nota anche da due particolari: uno è l’istituzione, nel sito della Regione, di un portale dove sono raccolte tutte le notizie dei media, le leggi regionali, le delibere di Giunta e Consiglio e altri documenti riguardanti il procedimento; l’altro, di carattere più istituzionale, è il fatto che il giorno dopo il voto la Giunta regionale ha immediatamente deliberato l’avvio della procedura e preso i primi provvedimenti. Tra questi rientra la creazione di una “Consulta del Veneto per l’autonomia, organismo permanente composto dalle rappresentanze regionali delle Autonomie locali (ANCI-UPI-UNCEM), delle categorie economiche e produttive del territorio, delle forze sindacali e del Terzo Settore, dal mondo dell’Università e della Ricerca, nonché da altri organismi espressione di interessi diffusi a livello regionale in modo da garantirne la più ampia rappresentatività”. Tale Consulta dovrà affiancare una delegazione trattante, che verrà nominata successivamente. La Lombardia non ha alcuna delibera corrispondente.

La tempestività del provvedimento e la ricerca del più ampio coinvolgimento della comunità segnalano l’importanza di questo processo per la Regione e per i suoi cittadini.

Le due Regioni (e insieme a loro anche l’Emilia Romagna, che già da prima aveva iniziato un suo percorso verso l’autonomia) hanno siglato a Roma, alla fine di febbraio, un Accordo preliminare con il Governo italiano. Sarebbe superfluo in questa sede ripercorrere le tappe che hanno portato a questa firma. Molto più interessante è vedere che cosa prevedono i testi, che sono identici per tutt’e tre le Regioni (a cambiare come vedremo sono gli allegati, e solo in parte). La prima disposizione interessante è quella dell’art 2, che prevede una durata prestabilita dell’Intesa (dieci anni). Durante questo tempo Stato e Regione hanno la possibilità di modificarla di comune accordo qualora “si verifichino condizioni di fatto o di diritto che ne giustifichino la revisione”. Il secondo comma poi stabilisce che “due anni prima della scadenza dell’Intesa, Stato e Regione avviano la verifica dei risultati fino a quel momento raggiunti, al fine di procedere al rinnovo, all’eventuale rinegoziazione o alla cessazione definitiva dell’Intesa”. Tale novità sembra positiva: oltre alla possibilità di correggere eventuali errori tecnici o sostanziali, consente anche di adattare l’accordo alle necessità contingenti, che portano ora ad accentrare il potere ora a devolverlo alle Regioni.

Ai sensi dell’art. 6 le materie oggetto delle Intese sono quelle previste dagli allegati, “parte integrante e sostanziale del medesimo accordo”: si tratta di istruzione, salute, politiche sul lavoro e della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, con una aggiunta finale sui rapporti con l’Unione Europea. A eccezione della tutela dell’ambiente, che rientra tra le competenze esclusive statali, articolo 117 comma 2 lettera s), le altre materie rientrano tutte nella competenza concorrente (terzo comma del medesimo articolo).

Per quanto riguarda la tutela dell’ambiente,

occorre ricordare che la normativa regionale può apportare norme più severe per la salvaguardia dell’ecosistema (ma neanche tali da compromettere la concorrenza tra le imprese) ma non può in nessun caso derogare in peggio quanto previsto a livello europeo o statale. E infatti gli accordi delle tre Regioni attribuiscono nuove funzioni abbastanza generiche in questa materia. Tra l’altro l’attribuzione più significativa introdotta sia nell’accordo con il Veneto sia in quello con la Lombardia, cioè la facoltà di prendere provvedimenti di prevenzione e ripristino dei siti ambientali, riguarda esplicitamente solo le zone che non sono di interesse nazionale, e restano comunque fermi gli obblighi dell’operatore. In altre parole gli accordi, richiamando gli articoli 304, 305 e 306 del Codice dell’Ambiente (D.lgs 152/06), ammettono che nei soli casi (per la verità abbastanza limitati) in cui un’area non sia di interesse nazionale, Veneto e Lombardia possono sostituirsi all’operatore ambientale, dovendo comunque avvertire il Ministro dell’ambiente. Quest’ultimo poi, nel caso di inerzia, potrebbe comunque esercitare le funzioni di prevenzione e ripristino. Si capisce abbastanza facilmente quanto sia minimo lo spazio d’intervento per le due Regioni.

Anche le altre novità in materia non sembrano poi così rivoluzionarie:

si va infatti dalla gestione dei finanziamenti statali destinati alla bonifica dei siti di interesse (anche questa non libera ma da svolgersi tramite accordi con il Governo), agli “indirizzi agli ambiti territoriali” per la raccolta differenziata, previsti dall’accordo con il Veneto; dalla “sottoscrizione di accordi con altre Regioni per consentire l’ingresso nel proprio territorio dei rifiuti”, non differenziati, destinati agli impianti di smaltimento previsti nel territorio regionale (secondo quanto prevede l’accordo con la Lombardia), all’individuazione delle aree non idonee alla localizzazione di impianti di smaltimento (funzione quest’ultima attribuita al Veneto dall’accordo).

Un po’ più ampie sono le funzioni che si vede attribuite l’Emilia Romagna, con possibilità di programmazione triennale in numerose aree d’intervento in maniera ambientale (ad esempio per gli interventi di difesa del suolo e delle acque). In questo caso per capire la portata di queste novità occorrerà aspettare di vedere come le attività di programmazione saranno effettivamente esercitate.

Possibilità maggiori le offrirebbero le altre materie oggetto dell’Intesa. Trattandosi di materie di competenza concorrente, i margini sono teoricamente più ampi: le materie di cui al terzo comma del 117 sono infatti quelle su cui le Regioni possono maggiormente puntare per accrescere i propri spazi di autonomia, ma perché ciò si realizzi devono porre in modo chiaro e dettagliato le loro richieste. In effetti si deve ammettere che questi pre-accordi sono abbastanza dettagliati, perlomeno per quanto riguarda la tutela della salute. Le tre Regioni avranno maggior autonomia in materia di scuole di specializzazione, di gestione del personale sanitario e nel sistema di governance delle aziende sanitarie, fino a nuove potestà legislative e amministrative in materie di fondi integrativi. In quest’ambito sembrano quindi allargarsi le funzioni dell’ente regionale.

Infine, non molto rilevanti sono le novità in materia di lavoro e istruzione.

L’iter dunque prosegue e sarà interessante vedere se questo accordo preliminare verrà seguito o se sarà del tutto o in parte superato. Certamente, non appena il procedimento si sarà definitivamente concluso, potremo interrogarci sulla riuscita dell’operazione, oltre che sulla sua reale utilità.

 

 

 

 

Il Giano Multiforme della Terza Repubblica

in profstanco / by Gian Luca Conti
26/03/2018

1 – Il Giano multiforme della Terza Repubblica è il Presidente della Camera o quello del Senato.

Uno dei due, non si sa quale, ma sicuramente uno dei due.

L’elezione della Casellati e di Fico a presidenti di Senato e Camera dice una cosa sola: l’unica maggioranza di governo politicamente impossibile è quella fra Forza Italia e Cinque Stelle, sicché una delle due presidenze sarà all’opposizione, ma non si si può prevedere quale.

2 – L’idea che il Presidente di Camera e il Presidente del Senato siano strumenti per assicurare l’attuazione dell’indirizzo politico di maggioranza (Ferrara, 1965) è scomparsa con l’affermazione di una delle poche ma certe convenzioni costituzionali, quella per cui, nel periodo 1976 – 1994, la presidenza della Camera spettava al principale partito di opposizione e quella del Senato alle forze di governo.

In questo periodo, le due presidenze si sono bilanciate reciprocamente e l’una non ha potuto svolgere una funzione di opposizione mentre l’altra non ha potuto operare come instrumentum regni.

Soprattutto, fra i due poli del Presidente imparziale (il modello inglese) e del Presidente di maggioranza (il modello statunitense), si è potuto affermare un modello di garanzia, per certi versi affine al Capo dello Stato.

3 – Con l’avvento della seconda repubblica, si è affermata un’altra convenzione, per la quale il presidente della Camera (Casini, Bertinotti, Fini) apparteneva al secondo partito della coalizione che usciva vincitrice dalla competizione elettorale, mentre quello del Senato spettava alla prima, cui pure spettava il compito di promuovere la formazione del governo, in conformità al mandato ricevuto dagli elettori.

Questa convenzione è sfumata con il passaggio alla XVII° Legislatura, quando sono stati eletti Boldrini alla Camera e Grasso al Senato, perché non era più possibile individuare il vincitore della competizione elettorale nella coalizione che non aveva i numeri per superare il voto di fiducia in entrambi i rami del Parlamento.

La mancanza di una maggioranza autosufficiente ha spinto verso figure politiche non eccessivamente caratterizzate in termini politici: sia Grasso che la Boldrini erano al primo mandato parlamentare, così da assicurare uno svolgimento delle funzioni massimamente attento ai bisogni dell’autonomia parlamentare e lontano dall’indirizzo politico di maggioranza.

L’inesperienza dei due presidenti ha, infatti, premiato la neutrale imparzialità dei funzionari parlamentari e la loro capacità di mediare fra opposte tensioni politiche nella ricerca della soluzione regolamentare più opportuna.

4 – La Terza Repubblica nasce da un sistema elettorale che colloca il voto in tre schieramenti.

La presenza di tre schieramenti fa sì che non possano operare né la convenzione del 1976, che presupponeva una forza politica necessariamente all’opposizione per effetto della conventio ad excludendum né quella del 1994, che operava in un sistema maggioritario sebbene corretto in senso proporzionale.

Soprattutto la distribuzione dei seggi fra le diverse forze politiche determinata dall’attuale legge elettorale non permette di immaginare quale possa essere la coalizione di governo.

Permette solo di immaginare che ci possa essere un governo con il Movimento 5 stelle in alleanza con la Lega Nord, l’ipotesi che atterrisce Travaglio, ovvero una sorta di grande coalizione travestita da governo di solidarietà nazionale che unisce la coalizione di centro destra e quella di centro sinistra.

Nel primo caso, non è facile immaginare che Forza Italia possa aderire: rischierebbe di scomparire.

Nel secondo caso, l’oggetto dell’accordo di governo sarebbe l’esclusione del Movimento 5 stelle.

Queste riflessioni possono permettere di intravedere una nuova convenzione costituzionale in cui la presidenza delle camere viene assegnata alle due forze politiche che rischiano di essere escluse dalla coalizione di governo perché si escludono reciprocamente.

Una sorta di convenzione del 1976 con l’aggiunta che non si sa chi sarà escluso.

Il presidente dell’assemblea è da molti definito come una sorta di Giano Bifronte nel distinguere fra l’aspetto interno e quello esterno della sua funzione, ovvero fra neutralità e imparzialità, come ebbe a dire Violante, con una formula ripresa da Fini.

Adesso è un Giano che rischia di diventare un Gano.

5 – La nostalgia per l’Inghilterra viene essenzialmente dalle modalità di queste elezioni.

Fico appartiene alla fascia più movimentata e arrabbiata del suo movimento. E’ qualcosa di simile a un giacobino arrabbiato, mentre Di Maio assomiglia a un girondino. L’elezione del primo sembra un modo per compensarlo della forza acquisita dal secondo e impedire o ritardare una scissione che potrebbe deflagrare come una diaspora e segnare la fine del movimento.

Il profilo della Casellati è talmente vicino a quello di Berlusconi da far pensare che sia un modo per superare un dissidio interno alla coalizione premiando la parte meno avvantaggiata dagli accordi pre elettorali e dai loro possibili sviluppi.

Entrambi, insomma, non sembrano delle figure astrattamente adatte a svolgere la funzione di supreme magistrature del diritto parlamentare.

Di conseguenza, il ruolo delle strutture di supporto alle due presidenze sarà anche in questo caso decisivo e formidabile: nell’ultima metamorfosi di questa enigmatica maschera repubblicana, l’ombra ha più i contorni del segretario generale che non quelli del presidente.

Che tipo di Stato dobbiamo aspettarci (e da quale governo)

in profstanco / by Andrea Mugnaini
13/03/2018

“Adesso tocca al Presidente della Repubblica”. È questa la frase che da domenica sera chiunque, tra commentatori e politici di ogni schieramento va ripetendo senza sosta. E non si sa se sia una speranza, un timore o un modo per lavarsi la responsabilità di questa situazione. Se è vero che l’art. 92 della costituzione affida al Capo dello Stato il compito di nominare un presidente del consiglio che possa formare il governo, questa volta il compito è troppo complicato perché lo possa risolvere da solo. Lo sa bene lo stesso Mattarella, che ha da subito chiesto ai partiti di collaborare per trovare una maggioranza prima che si arrivi alla fase delle consultazioni (che da consuetudine costituzionale si apre subito dopo l’elezione dei presidenti delle due camere, e quindi in questo caso verso la fine di marzo). Lo spettro di nuove elezioni potrebbe non essere così distante, ma se si tornasse a votare con la stessa legge elettorale, è evidente che il risultato sarebbe sostanzialmente identico.

Resta quindi la domanda:

quale governo traghetterà il Paese alle prossime elezioni?

Il tracollo del Partito Democratico e di Forza Italia fa tramontare anche l’ipotesi di continuare con Gentiloni per i mesi necessari (si spera pochi) per cambiare il cosiddetto Rosatellum. Nella nostra storia repubblicana ci sono stati governi guidati da un partito minoritario (si pensi ai governi Spadolini e Craxi), ma questi avevano comunque dietro una maggioranza più o meno coesa in grado di sostenerli. Stavolta sembra molto difficile (per non dire impossibile) che Lega e Movimento 5 Stelle, che insieme hanno poco più del 50%, diano il proprio sostegno a un governo di fatto a guida PD; meno che mai poi lo darebbero ad un governo tecnico. A ciò va aggiunto che lo statuto del Movimento impone il vincolo di due mandati parlamentari e che alle prossime elezioni Di Maio non potrebbe ricandidarsi, e la sua rincorsa a Palazzo Chigi sarebbe quasi sicuramente conclusa. Ecco perché non è disposto ad appoggiare nessun governo se non il suo. La strategia più plausibile (stando ai media e agli opinionisti) potrebbe essere allora quella di affidare al leader dei pentastellati un mandato esplorativo, non previsto dalla costituzione ma che già in passato è stato sperimentato in situazioni simili.

Quali chance avrebbe questo governo?

In altre parole, qual è la forza politica che alla fine potrebbe correre in aiuto dei cinquestelle? Se si dimenticano i giochi politici e si guarda a quelli che erano i programmi elettorali (ammesso che sia ancora opportuno farlo) si scopre che è proprio la Lega la principale indiziata, non solo per i numeri. Si pensi infatti, per ciò che ci riguarda, alle politiche sociali dei due partiti, che incidono significativamente sulla forma di Stato. I punti di contatto sono moltissimi: il lavoro al centro, la cancellazione della legge Fornero, la riforma delle pensioni, la tutela della salute (il superamento della legge Lorenzin e quindi dell’obbligo vaccinale). Resta sicuramente la grossa differenza del reddito di cittadinanza, punto di forza del Movimento, che proprio non piace alla Lega perché visto come una forma di assistenzialismo. Un ipotetico governo formato da questi due schieramenti si troverebbe prima o poi a dover risolvere questa questione abbastanza spinosa.

Sembra molto simile anche la visione che i due partiti hanno sull’Unione Europea, anche se è oggettivamente difficile capire come la pensino realmente su questo punto, visto che da un atteggiamento di ostilità totale, sono passati a dichiarazioni più moderate, per poi tornare a rilanciare (almeno la Lega) l’uscita dall’euro subito dopo i primi exit poll. Sicuramente però entrambi puntano ad una maggiore autonomia italiana da Bruxelles su temi cruciali, quali quelli dell’immigrazione e la politica economica.

Difficilmente poi questa maggioranza sarebbe abbastanza forte da riuscire a realizzare riforme costituzionali riguardanti le istituzioni.

Eppure anche su questo c’è molta somiglianza tra i programmi. Oltre all’intenzione di ridurre il numero di parlamentari, che ritorna quasi ad ogni campagna elettorale, l’elemento sicuramente più interessante è l’introduzione del vincolo di mandato che sia Salvini sia M5S hanno inserito come uno dei punti cardine del loro programma di riforme. Un dato certamente non nuovo ma profondamente innovativo, che stravolgerebbe la logica dell’art. 67 della costituzione (e forse persino lo stesso concetto di rappresentanza). La norma costituzionale attribuisce infatti a ogni parlamentare il ruolo di rappresentante dell’intera Nazione, vietandogli di curare solo gli interessi del proprio elettorato: sono a nostro avviso abbastanza palesi i rischi di un Parlamento formato da individui che guardano soltanto ai bisogni della loro fazione, ma la Lega e i pentastellati vedono nell’introduzione del vincolo un modo per arginare il fenomeno del trasformismo parlamentare. Tale novità, stando al programma del Movimento 5 Stelle, sarebbe inoltre accompagnata alla modifica dei regolamenti parlamentari “in modo da far sì che i Gruppi parlamentari possano essere costituiti solo da forze politiche che si siano effettivamente presentate alle elezioni e abbiano ottenuto l’elezione di un numero di parlamentari sufficienti a formare un gruppo”. Inoltre intendono, stando al loro programma, penalizzare coloro che nel corso della legislatura lasciano il gruppo parlamentare al quale appartengono e quindi la forza politica con la quale sono stati eletti. Di che genere siano le sanzioni non si può sapere, visto che i centomila euro di multa che prevedono nel loro statuto appaiono difficilmente esigibili. Appare abbastanza curioso che molti degli eletti tra le liste grilline si siederanno fin da subito nel gruppo misto, perché espulsi ancora prima delle elezioni.

Infine una convergenza tra i due programmi si può vedere anche sulla volontà di rafforzare le autonomie locali e le regioni e di ridefinire il rapporto tra quest’ultime e lo Stato, da sempre punto fisso del partito di Salvini. Il modo di raggiungere questo decentramento è diverso: se per i cinquestelle basterebbe (almeno in una prima fase) orientare la legislazione statale in senso più rispettoso delle Regioni, per la coalizione di Berlusconi e gli altri occorre adottare un “modello di federalismo responsabile che armonizzi la maggiore autonomia prevista dal titolo V della Costituzione e già richiesta da alcune regioni in attuazione dell’articolo 116, portando a conclusione le trattative attualmente aperte tra Stato e Regioni”. Differenze che però sembrano facilmente superabili.

Il Partito Democratico, al di là delle parole del suo segretario a tempo, difficilmente potrebbe appoggiare un governo con queste premesse: la linea che li separa da queste posizioni è troppo netta. Completamente opposta a quella di M5S per quanto riguarda le riforme sociali, assolutamente incompatibile con quella leghista per quanto riguarda immigrazione e Europa. Il solo governo che il PD (ma anche Forza Italia) possano sostenere resta un ipotetico governo tecnico (o come viene chiamato, governo di scopo) per arrivare a rivotare tra breve con una nuova legge elettorale.

Insomma quella che il Capo dello Stato si trova davanti è forse la legislatura più anomala della storia della nostra repubblica. Ci uniamo allora anche noi nel dire che ora la parola passa a lui: la nostra è una speranza (e un augurio) che riesca a gestire tutto questo nel migliore dei modi.

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