La Costituzione non è più cool?
I saggi hanno terminato provvisoriamente i loro lavori e questo impone alcune riflessioni all’ombra di un pregiudizio.
Le riflessioni sono due: la Costituzione viene riformata attraverso un procedimento extraparlamentare e questo procedimento può essere considerato in sé incostituzionale. La Costituzione viene riformata procedendo per capitoli e in questo modo si perde il suo profondo significato di unità politica e di giustizia.
Il pregiudizio è che le costituzioni, se sono buone, e la nostra è un’ottima costituzione, non si cambiano. Si fanno funzionare.
La Costituzione del 1947 è, in sé, una buona costituzione e ha consentito una significativa evoluzione del sistema politico cambiando molte volte il proprio significato: la lettura che oggi si dà della Costituzione non è quella che si poteva dare nell’imminenza della sua approvazione e neppure trent’anni dopo.
Adesso, ma è da tempo che ci si muove in questa direzione, si intende interrompere questo processo di naturale resilienza del testo costituzionale, imponendo un nuovo testo della seconda parte della Costituzione e questo, ad avviso di chi scrive, è sbagliato: le costituzioni sono testi nati per durare e vivono del non scritto più che del scritto.
Soprattutto il cambiamento di un testo costituzionale segna una rottura e questa rottura ha un senso se è sorretta sul piano ideologico da un vasto movimento sociale e politico che a sua volta ha dietro di sé una cultura altrettanto forte.
E’ quello che successe fra il 2 giugno 1946 e il 31 dicembre 1947.
Non è quello che può succedere oggi.
Di conseguenza, le osservazioni che seguono sono svolte all’ombra del pregiudizio (ideologico e di metodo) che la nostra Costituzione non ha nessun bisogno di essere cambiata, ma solo di essere attuata e vissuta, e che i mutamenti della Costituzione sono rotture costituzionali vere e proprie cui si deve ricorrere quando davvero non è possibile farne a meno.
I trentatre saggi avvertono tutto questo nella stessa premessa del loro rapporto dove riportano un passaggio di Machiavelli: “E però in ogni nostra deliberazione si debbe considerare dove sono meno inconvenienti e pigliare quello per migliore partito, perché tutto netto, tutto sanza sospetto non si truova mai” (Machiavelli, Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, I,6,3).
Nel deliberare vi sono sempre inconvenienti, nel dare attuazione a una disposizione, nel farla vivere come norma, nel rendere materiale il testo della Costituzione, ve ne sono molti meno, perché l’uno è esercizio teorico mentre l’altro è il frutto della ragion pratica e del sentimento di responsabilità.
Ma questo è un pregiudizio e come tale va trattato.
La prima osservazione riguarda il metodo delle riforme costituzionali in corso.
E’ un metodo di cui si deve sottolineare la natura essenzialmente e deliberatamente extraparlamentare.
Il comitato dei trentatre (erano trentacinque prima che la Carlassarre e la Urbinati si dimettessero, l’una per protesta contro l’Aventino del centro destra alla fissazione della udienza per il processo a carico di Berlusconi sui fondi neri della Fininvest, l’altra per protesta contro Quagliariello, sicché sono rimasti trentatre) è stato costituito con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (d.p.c.m. 11 giugno 2013), ovvero con un atto che proviene dal fantasma dell’indirizzo politico di maggioranza.
Inoltre, il comitato dei trentatre segue all’esperienza dei saggi incaricati da Napolitano di superare l’impasse del semestre bianco (il Gruppo di lavori sui temi istituzionali istituito dal Presidente della Repubblica il 30 marzo 2013) e dichiara apertamente la propria continuità rispetto a quella esperienza.
Inutile osservare che Presidente del Consiglio dei Ministri e Presidente della Repubblica sono organi costituzionali distinti dal Parlamento e che il Parlamento non ha ancora iniziato a discutere nel merito le riforme costituzionali approfondite dai saggi: sono in corso di esame i disegni di legge: ddl cost. 813 AS (poi ddl cost. 1359 AC) che dovrebbero prevedere lo svolgimento del procedimento di revisione costituzionale avviato dal Capo dello Stato e proseguito, sotto il suo alto patronato, dal Capo del Governo.
Vi è qualcosa di inquietante in questo processo: il Parlamento viene esautorato della sua sovranità in materia di revisione costituzionale e questo avviene attraverso un domino approach (quel metodo in cui una scelta viene anticipata attraverso una serie di passaggi che rendono la scelta una mossa obbligata alla stessa maniera in cui le tessere del domino cadendo rendono inevitabile la caduta dell’ultima di esse) che si svolge lungo due direttrici: da una parte, un gruppo di autorevoli esperti rispetto al cui sapere i rappresentanti del popolo non potranno che confessare la propria ignoranza, dall’altra parte, una consultazione pubblica (http://www.partecipa.gov.it) il cui esito è destinato a essere uno strumento di indirizzo per i lavori parlamentari.
In questa situazione, il problema non è tanto la revisione formale della Costituzione, ma che il metodo utilizzato per la sua revisione formale rappresenta in sé una modificazione del tessuto assiologico presupposto all’art. 138, Cost. che si fonda sulla centralità del Parlamento.
La centralità del Parlamento, infatti, viene meno nel momento in cui lo stesso è chiamato a discutere scelte già discusse dagli esperti della materia e già condivise dalla partecipazione popolare. Il Parlamento non è più il luogo della rappresentanza, ma semplicemente uno spazio in cui si ratificano delle scelte che altri ha già discusso e discusso assai approfonditamente e che sono già state temprate al fuoco della consultazione referendaria.
In questo senso, merita di essere considerato sia il limitato potere di emendamento da parte dell’assemblea, che Ainis, sul Corriere della Sera del 12 settembre 2013, Chi ha paura delle riforme, considera sostanzialmente irrilevante, e che Pace, sul Fatto quotidiano del 13 settembre 2013, Costituzione, la carta rivoltata, considera una ferita alla legalità costituzionale, sia l’abbreviazione dei termini fra le due deliberazioni con cui l’assemblea è chiamata ad approvare definitivamente la riforma.
Sotto questo aspetto, il metodo delle riforme costituzionali appare molto discutibile dal punto di vista dell’art. 138, Cost., che, checché se ne dica, comunque presuppone la centralità del Parlamento in materia di revisione costituzionale e non assegna, volutamente, alcun ruolo né al Capo dello Stato né al Capo del Governo, i quali se vogliono possono presentare un disegno di legge costituzionale.
Il secondo punto su cui pare necessario soffermarsi è sempre di metodo.
La riforma della Costituzione dovrebbe procedere per capitoli: 1) Bicameralismo; 2) Procedimento legislativo; 3) Titolo V; 4) Forma di governo; 5) Sistema elettorale; 6) Istituti di partecipazione popolare.
Ciascuno dei capitoli dovrebbe essere esaminato e approvato autonomamente in modo da preservare l’omogeneità del discorso politico sulle diverse parti della Costituzione.
Però i sei capitoli sono tremendamente avvinghiati fra di loro: la riforma del bicameralismo si impone sul procedimento legislativo e la riforma del Titolo V è presupposta alla riforma del bicameralismo, a loro volta gli istituti di partecipazione popolare dipendono dalla forma di governo e dal sistema elettorale e i collegamenti fra questi diversi aspetti sono davvero innumerevoli.
La Costituente ha proceduto con una prima discussione in tre sottocomissioni, una seconda discussione in un comitato ristretto, il comitato dei 75, una terza discussione in Aula e durante tutti i lavori è stata forte l’influenza del comitato di coordinamento presieduto da Ruini che si è imposto su più parti del tessuto costituzionale, di cui ha infine curato il coordinamento definitivo.
Un tanto, sul piano storico, dimostra la difficoltà di un processo di revisione costituzionale portato avanti per capitoli.
Soprattutto,però, una discussione per capitoli dimentica che una Costituzione è un tutto organico dominato da un senso di giustizia politica, in cui i diversi nuclei normativi si illuminano reciprocamente e non possono essere letti singolarmente.
La Costituzione è un tutt’uno perché rappresenta il risultato di uno sforzo di unità politica e l’unità politica è rappresentata anche dall’unicità del processo costituente ovvero di revisione costituzionale, mentre il procedere per capitoli significa spezzare questa unità politica e usare la Costituzione come terreno di scambi politici quotidiani, ovvero avviare un gioco di “continuo oggetto di rilancio delle divergenti aspettative costituzionali” dei diversi attori politici (C. Mezzanotte, Omaggio a Leopoldo Elia. Elia a Roma, in Giur. cost. 1999, 1474).
Forse, non è un caso che il procedimento di revisione costituzionale stabilito dall’art. 138, Cost. si adatti male a un ripensamento complessivo della Costituzione, appaia piuttosto pensato come il mezzo per rimediare a piccoli malfunzionamenti mediante la modifica di singoli articoli e che, al di là della riforma del Titolo V, che, forse, sarebbe stato meglio non produrre, la Costituzione non sia mai stata toccata nella sua estrema complessità.
I saggi hanno volutamente ignorato tutto questo e ci hanno sottoposto un documento assai complesso.
Vale sicuramente la pena discuterlo.
Ma ancora di più chiedersi se davvero la nostra Costituzione non sia più cool.