A quo o de’ che? (Ancora sulla questione di costituzionalità della incandidabilità)
In una delle sue migliori interpretazioni del commissario Monnezza, Thomas Milian chiede a una signorina che lavoro faccia e alla risposta che lavora come cassiera in un cinema d’essai risponde: De’ che?
Nel caso della incandidabilità, o meglio delle norme poste in materia di incandidabilità dal d.lgs. 31 dicembre 2012, n. 235, forse, giudice a quo suona molto come giudice De’ che, nel senso proposto dall’illustre attore appena richiamato.
1 – La razionalità intrinseca del d.lgs. 235/2012
Il primo punto che merita di essere sottolineato è che il d.lgs. 235/2012 qualche problema di costituzionalità lo pone.
Lo pone in primo luogo sul piano della razionalità intrinseca, intesa quasi allo stesso tenore dell’eccesso di potere legislativo: se questa fonte normativa ha come scopo quello di assicurare una sorta di prestigio di illibatezza degli organi elettivi della Repubblica evitando che ne facciano parte persone che hanno subito condanne per reati particolarmente gravi, se rappresenta in un certo senso il prezzo che il sistema paga all’abbandono della legge della moglie di Cesare causato dall’acuirsi delle tensioni fra magistratura e politica, allora non si può dire che sia scritta benissimo.
Le cause di incandidabilità per gli uffici di Senatore e Deputato sono stabilite all’art. 1, che distingue fra tre diverse fattispecie. Al primo comma prevede chi è stato condannato a una pena detentiva superiore a due anni per i delitti di cui a 51, comma 3 bis e 3 quater, c.p.p. Al secondo comma, chi è stato condannato a una pena detentiva superiore a due anni per un reato previsto dal Libro II, Titolo II, Capo I del Codice penale. Al terzo comma chiunque sia stato condannato a una pena detentiva superiore a due anni per un reato non colposo la cui pena nel massimo edittale, computata ai sensi dell’art. 278, c.p.p., supera i quattro anni.
La vera questione è, in questo caso, di che cosa parlano le fattispecie incriminatrici indicate come fonte di incandidabilità e il nesso fra le stesse e il concetto di illibato prestigio delle assemblee parlamentari che si intende stabilire.
Sotto questo aspetto, il primo comma rinvia all’art. 51, comma 3 bis e 3 quater, c.p.p. che prevedono che nel caso di alcuni reati le funzioni di accusa siano esercitate dall’ufficio del pubblico ministero costituito presso il tribunale del capoluogo in cui ha sede il giudice competente.
Di conseguenza, l’incandidabilità è riferita ai reati per i quali il pubblico ministero è un magistrato dell’ufficio presso il tribunale del capoluogo del distretto in cui ha sede il giudice competente a decidere.
Questi reati sono piuttosto vari ed eterogenei. Si tratta:
416, sesto comma: associazione per delinquere finalizzata alla riduzione in schiavitù, alla tratta delle persone, all’acquisto e all’alienazione di schiavi, al procurare l’ingresso illegale di stranieri nel territorio della Repubblica: da 5 a 15 anni (promotori), da 4 a 9 anni (sodali) + la pena per il reato principale
416, settimo comma: associazione per delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione minorile, alla pornografia minorile, alla detenzione di materiale pornografico minorile, all’organizzazione di iniziative turistiche volte allo sfruttamento della prostituzione minorile, alla violenza sessuale di gruppo in danno di un minore di anni 18, all’adescamento di minorenni: da 4 a 8 anni (promotori), da due a sei anni (sodale) + la pena per il reato principale
416 (associazione a delinquere): da 3 a 7 anni (promotore), da 1 a 5 anni (sodale) + la pena per il reato principale, per la contraffazione, alterazione o uso di segni distintivi di opere dell’ingegno o di prodotti industriali: 6 mesi – 3 anni (473), per l’introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi: da uno a quattro anni (474)
associazione a delinquere di stampo mafioso: da 7 a 12 anni
630 (sequestro di persona a scopo di estorsione): da 24 a 30 anni
tutti i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto articolo 416-bis ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo
associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope: non meno di venti anni
associazione per delinquere finalizzata al contrabbando di tabacchi lavorati esteri: da 3 a 8 anni (promotore), da 1 a 6 anni (sodale)
attività organizzate per il traffico illecito di rifiuti: da 1 a 6 anni
In generale, non è facile comprendere perché la maggiore delle incandidabilità (storicamente collegata alla associazione di stampo mafioso) sia collegata a una gran parte di reati associativi. Non è che non sia grave, ad esempio, un’associazione a delinquere finalizzata allo sfruttamento della prostituzione minorile, ma è che è altrettanto grave, dal punto di vista del prestigio della istituzione, colui che ha singolarmente commesso un reato di questo tenore. Al contrario, le associazioni che mirano al commercio di prodotti contraffatti, forse, costituiscono un attentato al prestigio delle istituzioni elettive minore di molti altri reati, ad esempio dei reati contro la personalità dello Stato previsto dal Titolo Primo del Libro Secondo del Codice penale e che, invece, sono sfuggiti all’attenzione del legislatore.
Si noti, inoltre, che tutte le fattispecie di reato indicate cadrebbero nel terzo comma dello stesso articolo 1, sicché non è facile comprendere il perché dell’elencazione.
Quanto all’art. 51, comma 3 quater, c.p.p. indica tutti i delitti commessi con la finalità di terrorismo. Ovvero tutti i reati che sono collegati allo scopo di sovvertire con la violenza la libera autonomia delle istituzioni democratiche.
Il secondo comma prevede, indistintamente, tutti coloro che hanno subito una condanna a una pena superiore ai due anni per un delitto previsto dal Libro Secondo, Titolo II del Codice penale. Si tratta dei reati commessi da un pubblico ufficiale contro la pubblica amministrazione. Si tratta dei seguenti reati:
Peculato
Malversazione a danno di privati
Peculato mediante profitto dell’errore altrui
Malversazione a danno dello Stato
Indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato
Concussione
Corruzione per l’esercizio della funzione
Corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio
Corruzione in atti giudiziari
Induzione indebita a dare o promettere utilità
Corruzione di persona incaricata di pubblico servizio
Istigazione alla corruzione
Peculato, concussione, induzione indebita dare o promettere utilità, corruzione e istigazione alla corruzione di membri degli organi delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri
Abuso di ufficio
Interesse privato in atti di ufficio
Utilizzazione di invenzione o scoperte conosciute per ragione di ufficio
Rivelazione e utilizzazione di segreti di ufficio
Rifiuto di atti di ufficio. Omissione
Rifiuto o ritardo di obbedienza commesso da un militare o da un agente della forza pubblica
Interruzione di un servizio pubblico o di pubblica necessità
Sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall’autorità amministrativa
Violazione colposa di doveri inerenti alla custodia di cose sottoposte a sequestro disposto nel corso di un procedimento penale o dall’autorità amministrativa
Ma la rivelazione di un segreto di ufficio o la sottrazione di una cosa sottoposta a sequestro possono essere paragonati al peculato, alla corruzione o alla concussione?
E, di più, come si è detto, perché il Titolo II e non anche il Titolo I, che si occupa, invece, dei reati contro la personalità dello Stato?
Forse chi commette un attentato contro un organo costituzionale si guadagna un’indegnità minore di chi utilizza a nome proprio un’invenzione di cui è venuto a conoscenza in ragione dell’ufficio ricoperto.
Il terzo comma prevede tutti coloro che sono stati condannati a una pena superiore a due anni per un delitto non colposo la cui pena nel massimo edittale, computato ai sensi dell’art. 278, c.p.p., supera i quattro anni.
Ora il vero nodo di razionalità legislativa è che nei primi due commi il prestigio del Parlamento è considerato leso da reati che si caratterizzano, indipendentemente dal loro effettivo significato penale e della gravità delle offese ai beni giuridici che tutelano e anche dal rilievo costituzionale dei valori sottintesi a questi beni giuridici, per la loro gravità.
In altre parole, il legislatore del primo comma e del secondo comma ha (l’indicativo è indulgente) provveduto a selezionare nel vasto insieme delle condotte criminose quelle che effettivamente costituiscono una offesa per il prestigio del Parlamento, che, ad esempio, verrebbe meno nel caso in cui fosse eletto Senatore un pedofilo, mentre potrebbe non venire meno nel caso in cui sia semplicemente candidato un ladro o un piccolo spacciatore di stupefacenti.
Non si capisce come siano state selezionate le condotte rilevanti a tal fine, ma si può comprendere la logica di una operazione di questo genere.
Il legislatore del terzo comma, invece, opera su di un piano completamente diverso e, quasi con una norma di chiusura, afferma che tutti coloro che hanno subito una condanna a una pena detentiva pari o superiore a due anni – il limite della sospensione condizionale – per un reato il cui massimo edittale sommi più di quattro anni costituiscono una offesa per il prestigio delle assemblee elettive nazionali.
Sono due logiche diverse e, forse, incompatibili fra di loro, perché la prima seleziona i reati, mentre la seconda guarda esclusivamente le pene ed è evidente che il prestigio dell’assemblea è leso dalle caratteristiche dell’azione criminosa, non dall’ammontare della pena, per il semplice motivo che se il prestigio dell’assemblea fosse leso per effetto dell’ammontare della pena la questione non sarebbe di incandidabilità ma, semmai, di interdizione dai pubblici uffici, intesa come sanzione accessoria.
In altre parole, una incandidabilità che colpisce tutti coloro che hanno subito una determinata pena finisce per assomigliare molto a una forma di interdizione dai pubblici uffici e questa somiglianza è data proprio dalla distinzione con la incompatibilità “titolata” del primo e del secondo comma dell’art. 1, d.lgs. 235/2012.
Infine, le due forme di incandidabilità si sovrappongono in maniera piuttosto confusa. In particolare, se il terzo comma colpisce tutti coloro che hanno subito una condanna superiore a due anni per un reato il cui massimo edittale è superiore a quattro anni, praticamente tutte le ipotesi del primo comma, vi ricadono e quindi non si capisce la ragione di distinguere, se non per i reati commessi per finalità di terrorismo, che, al netto dell’aggravante, che però in questo caso, si dovrebbe computare, perché, salvo errore, a effetto speciale, potrebbero avere un massimo edittale inferiore.
Di conseguenza, non è difficile dubitare della ragionevolezza di questa previsione costituzionale, perché non è semplice comprendere il tipo di prestigio dell’organo rappresentativo che intende preservare.
2 – Il problema della durata della incandidabilità
La seconda questione riguarda la durata della incandidabilità.
L’incandidabilità dura il doppio della pena accessoria della interdizione dai pubblici uffici e comunque non meno di sei anni (art. 13, primo comma) e viene meno solo con la riabilitazione.
Sia il riferimento per la durata alla interdizione, che il collegamento alla riabilitazione come strumento che determina il venire meno della incandidabilità possono essere discusse.
Da una parte, se la questione riguarda il prestigio dell’organo elettivo, questo prestigio viene meno in ogni caso in cui ne faccia parte una persona che ha commesso un delitto particolarmente grave e questo per il solo fatto di averlo commesso, indipendentemente da quando è stato commesso e dalla eventuale riabilitazione.
Se, invece, la incandidabilità opera come una ulteriore sanzione, perché questa sanzione deve durare più della pena?
Una volta espiata la pena principale e le pene accessorie, colui che ha commesso il reato dovrebbe tornare a essere un cittadino titolare di tutti i diritti, compresi quelli di elettorato attivo e passivo, perché la pena ha come scopo la riabilitazione e quindi la riammissione del colpevole nella comunità degli uomini liberi.
3 – La giustiziabilità delle decisioni che accertano la incandidabilità
La terza questione riguarda la giustiziabilità delle decisioni che accertano la incandidabilità.
Questo problema merita di essere considerato sotto tre distinti profili (l’incandidabilità a Senatore e a Deputato prima dello svolgimento delle elezioni; l’incandidabilità a Senatore e Deputato dopo lo svolgimento delle elezioni; l’incandidabilità – che in questo caso, forse, si dovrebbe chiamare “innominabilità” a membro del Governo) e muovendo da un comune punto di partenza.
Il punto di partenza comune è che l’incandidabilità non scatta per effetto di una sentenza di condanna, ma per effetto della interpretazione di una sentenza di condanna come tale da determinare gli effetti previsti dall’art. 1, d.lgs. 235/2012.
Il problema, infatti, non è che una condanna sia stata pronunciata, ma che quella condanna rientri fra quelle previste dalla disposizione che si è richiamata più volte e non sempre può essere semplice stabilirlo.
O meglio può essere semplice nei casi del primo e del secondo comma, ma non anche nel caso del terzo comma, in cui occorre stabilire il massimo edittale ai sensi dell’art. 278, c.p.p., che prevede: si ha riguardo alla pena stabilita dalla legge per ciascun reato consumato o tentato. Non si tiene conto della continuazione, della recidiva e delle circostanze del reato, fatta eccezione della circostanza aggravante prevista al numero 5) dell’articolo 61 del codice penale e della circostanza attenuante prevista dall’articolo 62 n. 4 del codice penale nonché delle circostanze per le quali la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato e di quelle ad effetto speciale.
Una rapida ricerca, condotta su dejure semplicemente inserendo la norma di riferimento come parametro di ricerca, trova, ad oggi, 118 sentenze che discutono delle diverse volontà concrete di legge espresse da questa disposizione, che non è per nulla irrilevante nella pratica quotidiana del penalista perché stabilisce l’ammontare massimo delle misure cautelari.
Di conseguenza, non è una operazione semplice.
Questa operazione è, nel caso di candidati eletti e di membri del Governo nominati, di competenza del pubblico ministero, cui spetta in un caso trasmettere la sentenza alla Giunta delle elezioni competente e nell’altro al Presidente del Consiglio dei Ministri.
Al contrario, nel caso di candidati non ancora eletti, è lo stesso candidato che deve autocertificare di non trovarsi in una delle ipotesi che ne determinerebbero l’incompatibilità e l’ufficio elettorale competente verifica questa autodichiarazione. In questo caso, la giustiziabilità delle decisioni dovrebbe essere assicurata dall’art. 23, t.u. 361/1957.
Le due ipotesi strutturano l’istituto su due diversi livelli, a seconda che l’incandidabilità preceda o segua l’elezione.
Nel primo caso, non opera ancora l’art. 66, Cost., perché le elezioni non si sono ancora svolte.
In questo caso, il vero problema è la tutela del diritto del candidato a presentarsi alle elezioni e questo diritto si presenta in purezza dinanzi alle disposizioni in materia di incandidabilità, che, di conseguenza, devono trovare il loro giudice, sul che si dirà. In ogni caso, in questa ipotesi, vi è una questione di giurisdizione e di costituzionalità che non trova limitazioni nella sovrana autonomia delle Camere.
Nel secondo caso, invece, le elezioni si sono svolte e il candidato è stato proclamato eletto, di talché non vi è più solo la questione della tutela dell’elettorato passivo, ma anche della salvaguardia del principio di separazione fra i poteri e della sovranità popolare che, secondo un classico schema roussoviano presupposto all’art. 66, Cost., verrebbe meno nel caso in cui il giudice potesse interferire con il risultato elettorale con la conseguenza che sono solo i cittadini, tramite i loro rappresentanti, che possono giudicare sugli esiti della consultazione che li ha designati.
3.1 – La giustiziabilità delle decisioni nei confronti del candidato ritenuto incandidabile
Le decisioni nei confronti del candidato incandidabile sono regolate dall’art. 2, d.lgs. 235/2012 che struttura il procedimento nei seguenti passaggi: (i) il candidato deve autocertificare la propria” illibatezza” ai sensi dell’art. 1; (ii) l’ufficio elettorale competente verifica l’autocerficazione; (iii) nel caso in cui l’ufficio elettorale competente ritenga sussistere una condizione di incandidabilità, esclude il candidato dalla lista; (iv) il candidato, in questo caso, ha a sua disposizione i rimedi di cui all’art. 23, d.p.r. 361/1957.
Il procedimento ha una evidente struttura amministrativa: il candidato è tenuto a dichiarare che non vi sono a suo carico limitazioni dell’elettorato passivo, l’ufficio verifica la corretta veridicità di questa dichiarazione e nel caso in cui escluda il candidato il candidato può far valere i propri diritti nelle forme di cui all’art. 23, d.p.r. 361/1957.
Si è già detto che questa struttura è ragionevole perché il candidato non è ancora stato eletto e quindi non sono ancora emersi i valori costituzionali sottesi all’art. 66, Cost.
Nello stesso tempo, si ha un candidato che sa di essere stato condannato e sa anche che la sua condanna rappresenta un limite del proprio elettorato passivo e, quindi, sa di essere escluso dalle elezioni secondo le norme che ne regolano lo svolgimento, sicché se decide di partecipare lo fa sul presupposto di poter ottenere una dichiarazione di incostituzionalità delle norme di cui al d.lgs. 235/2012 e, perciò, la vera questione, in questo caso, è quella della giustiziabilità della decisione dell’ufficio elettorale centrale in una forma tale da consentire di sollevare la questione di legittimità costituzionale.
La questione è nota e se ne è già discusso in queste pagine: in un caso nel quale il candidato escluso aveva tentato di contestare l’esclusione e si era verificato un arresto di tutela perché la Corte di cassazione si ritiene incompetente (da ultimo: Cass., sez. un., 8 aprile 2008 nn. 9151, 9152 e 9153; 6 aprile 2006 n. 8118 e n. 8119 e, già: Cass., sez. un., 31 luglio 1967 n. 2036; 10 marzo 1971 n. 674; 17 ottobre 1980 n. 5583; 14 dicembre 1984 n. 6568; 11 gennaio-22 marzo 1999 n. 172), egualmente si ritengono incompetenti le Giunte delle elezioni di Camera e Senato (per quanto riguarda la Camera cfr.: nella XV Leg. Res. Giunta elez. 7 novembre 2006, 5, 6, 12 e 13 dicembre 2006; nella XVI Leg. Res. Giunta elez. 5 giugno 2008, 22 luglio 2008, 4 febbraio 2009, tutti in www.camera.it; per il Senato, cfr. Res. Giunta elez. imm. parl. 26 febbraio 2008, in www.senato.it), né può essere ritenuto competente il giudice amministrativo in assenza di una sua competenza esclusiva (vedi Corte cost. 259/2009), la Corte costituzionale con la sentenza appena citata ha affermato che il problema non è né il fatto che il candidato abbia diritto a una tutela giurisdizionale, e quindi a un giudice in grado di sollevare una questione di legittimità costituzionale, né che tale giudice vi sia, ma solo l’individuazione di tale giudice e quindi ha, sostanzialmente, rimesso la questione alla Suprema corte in sede di regolamento di giurisdizione, o, più precisamente, in sede di conflitto negativo di giurisdizione.
Molto è stato scritto su questa sentenza (fra gli altri, e a mo’ di un cherry piking: F.G. Scoca, Elezioni politiche e tutela giurisdizionale, in Giur. cost. 2009, 3613, E. Lehner, L’apertura condizionata della Corte sulla verifica dei poteri, tra tutela dell’autonomia parlamentare e garanzia dei diritti di elettorato passivo, ivi, 3620), e, forse, si può anche aggiungere un ulteriore profilo problematico a quelli che sono stati sinora evidenziati.
La Corte, infatti, ha individuato lo strumento del conflitto negativo di giurisdizione come il modo in cui deve essere individuato il giudice dell’elettorato passivo, ma lo ha fatto in un caso della vita in cui era questione il diritto del candidato a partecipare alla competizione elettorale.
In questo caso, la Corte ha detto che la Giunta delle elezioni opera come un giudice, ovvero opera al di fuori della struttura politica e assiologica che è tipica dell’art. 66, Cost.
Ma è un caso diverso da quello in cui la Giunta sia chiamata a pronunciarsi dopo lo svolgimento della competizione elettorale, ovvero in un momento in cui la sua competenza non è quella di un giudice “speciale” ma si aggancia alla sovrana autonomia del parlamento all’interno del principio di separazione fra i poteri e, ancora, di più all’essenza del concetto stesso di sovranità parlamentare.
Il fatto che le attribuzioni esercitata dalla Giunta in sede di decisione del ricorso sul provvedimento pronunciato ai sensi dell’art. 23, t.u. 361/1957 abbia una struttura essenzialmente diversa dalle apparentemente analoghe funzioni esercitate in sede di verifica dei poteri nei confronti di un candidato eletto può essere dedotto anche da una considerazione ulteriore.
In questo caso, ad avviso della Corte, la Giunta opera come un giudice e difatti sul diniego a provvedere della Giunta si può pronunciare la Corte di cassazione in sede di regolamento di giurisdizione.
La pronuncia della Corte di cassazione ipotizzata dalla Corte costituzionale avrebbe come effetto quello di individuare il giudice competente a conoscere del reclamo avverso la pronuncia dell’Ufficio centrale elettorale e, siccome, secondo la stessa Corte costituzionale, questo può essere alternativamente il giudice ordinario o la Giunta delle elezioni potrebbe, evidentemente, condurre alla individuazione della Giunta delle elezioni come giudice titolare di questa competenza e molto probabilmente accadrebbe esattamente questo dal momento che la Corte di cassazione si è pronunciata, anche se non in questa sede, in questo senso ben più di una volta.
Di conseguenza, ad avviso della Corte costituzionale, il pronunciamento della Corte di cassazione in sede di regolamento di giurisdizione avrebbe effetti vincolanti per la Giunta delle elezioni, alla pari di qualsiasi altro giudice cui un tale pronunciamento sia diretto, salvo un eventuale conflitto di attribuzioni da parte del Parlamento avverso la sentenza delle Sezioni unite che lo dichiarano competente.
Ma questo significa trasformare la Giunta delle elezioni in un organo giurisdizionale tout court e si può ragionevolmente dubitare che questo possa accadere in sede di verifica dei poteri, poiché la verifica dei poteri è un’attribuzione che proclama dal principio di separazione fra i poteri e di sovranità popolare e che perciò non può essere in alcun modo influenzato dal potere giurisdizionale che, per definizione, nel nostro sistema costituzionale, è estraneo al potere giurisdizionale: «Attraverso la Giunta delle elezioni è ancora la massa degli elettori che giudica la propria azione; quindi è proprio il principio della sovranità popolare che si afferma nuovamente nella verifica dei poteri» (Cfr. Atti Ass. Cost. – Comm. Cost. – Seconda Sottocomm., seduta giovedì 19 settembre 1946, Roma 1951, part. 218).
Nello stesso tempo, non è del tutto inutile osservare che la Giunta che interviene ai sensi dell’art. 23, d.p.r. 361/1957 è un soggetto estraneo alla controversia, pressoché terzo rispetto alla stessa, poiché non è la massa degli elettori che giudica della propria azione, ma un giudice speciale che definisce coloro che potranno essere gli attori dello spettacolo su cui la massa degli elettori è chiamata a pronunciarsi.
In altre parole, questa Giunta è la Giunta della Camera che deve essere rinnovata, non della Camera che è stata appena rinnovata, sicché non vale il principi che gli elettori, tramite i loro rappresentanti, giudicano delle proprie azioni, perché i rappresentanti che si stanno pronunciando non sono stati eletti dagli elettori che ancora non hanno votato e quindi operano come un soggetto estraneo soggettivamente al potere giurisdizionale, ma che è chiamato a operare in seno allo stesso in termini non molto dissimili da un giudice speciale.
In ogni caso, il candidato escluso dalle elezioni può, una volta che abbia trovato il giudice competente a decidere delle proprie doglianze, ovvero una volta che la Corte di cassazione abbia deciso del conflitto negativo di giurisdizione eventualmente sollevato, sollevare questione di legittimità costituzionale.
3.2 – Lo stesso, ma nei confronti del candidato eletto e successivamente divenuto incandidabile
L’art. 3, d.lgs. 235/2012 struttura un giudizio probabilmente diverso da quello che si è appena visto e lo struttura su due fasi completamente diverse: una a carattere amministrativo, nella quale probabilmente vi è un problema di tutela delle situazioni soggettive di cui è titolare il candidato, e una a carattere politico, nella quale questa problematica viene meno dinanzi alla autonomia costituzionale dell’organo chiamato a esprimersi definitivamente sulla incompatibilità.
La struttura logica dell’art. 3, d.lgs. 235, cit. è la seguente: (i) nel caso in cui sia pronunciata una sentenza di condanna rilevante ai fini dell’art. 1, d.lgs. 235 nei confronti di un deputato o di un senatore, il pubblico ministero deve trasmettere la sentenza di condanna alla Giunta delle elezioni competente; (ii) la Giunta delle elezioni deve pronunciare, se del caso, la decadenza.
La vera questione è quale sia il potere della Giunta delle elezioni e quali siano le attribuzioni del pubblico ministero e deve essere risolta a partire dal presupposto che in questo caso la riserva di sovrana autonomia imposta dall’art. 66, Cost. si svolge nella sua pienezza, perché sono solo gli elettori tramite gli eletti che possono giudicare sul risultato delle operazioni elettorali.
Questo non accadrebbe nel caso in cui il giudizio della Giunta sia il recepimento notarile di quanto già accertato dal pubblico ministero in sede di qualificazione della sentenza di condanna ai sensi dell’art. 1, d.lgs. 235/2012.
Per risolvere la questione sembra di dover ipotizzare due diverse fasi nel procedimento, come si è detto, una a carattere essenzialmente amministrativo, nelle mani del pubblico ministero, e una a carattere essenzialmente politico nelle mani della Giunta e della Assemblea.
In particolare, nella prima fase, opera un ufficio amministrativo: non importa che sia il pubblico ministero o, in ipotesi, il competente ufficio elettorale, ciò che importa è la struttura del giudizio operato in questa fase. Questo ufficio compie una operazione tipicamente amministrativa perché valuta un fatto giuridico (nel caso di specie, una sentenza definitiva) dal punto di vista delle disposizioni astratte di legge che lo qualificano (nel caso di specie le norme in materia di incandidabilità) e pronuncia una volontà concreta di legge in assenza di qualsiasi contraddittorio inteso in senso giurisdizionale, ovvero nel caso in cui ritenga che questa sentenza determini l’incandidabilità la trasmette all’organo competente ad una decisione definitiva sul punto mentre nel caso in cui non lo ritenga archivia il procedimento.
Nella seconda fase, i competenti organi del Parlamento dovranno decidere il seguito da dare alla prima fase e, se è corretta questa ricostruzione, potranno decidere se dichiarare incandidabile o meno il candidato.
Questa decisione è completamente diversa dalla prima, perché la prima ha un contenuto amministrativo, è la trasformazione di un fatto in un provvedimento attraverso la sua interpretazione secondo diritto e in assenza di un contraddittorio processuale, mentre la seconda è espressione della sovrana autonomia costituzionale del Parlamento che non possono essere considerati sottomessi alla volontà del potere giurisdizionale per effetto dei principi attuati dall’art. 66, Cost.
Nella prima fase, il candidato si trova a dover accettare il provvedimento amministrativo che dichiara come nel caso di specie si sia dinanzi a una ipotesi di incandidabilità ovvero nel caso in cui non condivida questo giudizio a doverlo impugnare dinanzi al giudice ordinario e sarà il giudice ordinario a dover sollevare l’eventuale questione di legittimità costituzionale sulle norme in materia di incandidabilità.
Nella seconda fase, invece, il Parlamento è chiamato a un giudizio profondamente diverso, è chiamato a considerare la condanna astrattamente idonea a determinare la decadenza perché oltraggiosa del proprio prestigio dal punto di vista essenzialmente politico della sua idea di prestigio e di illibato prestigio, se così si può dire.
L’idea che sta dietro a questa ricostruzione è che mentre il pubblico ministero deve limitarsi a stabilire se una sentenza è astrattamente ricompresa nel non perfettamente razionale elenco di cui all’art. 1, d.lgs. 235/2012, è il Parlamento che deve stabilire se davvero quella sentenza di condanna è tale da determinare un’offesa per il proprio prestigio.
Non tutte le condanne, anche per lo stesso fatto di reato, sono eguali: dietro ogni condanna, vi è una condotta ed è esattamente a questa condotta che il Parlamento, quasi alla maniera di un collegio di probiviri in un’associazione privata, deve riferirsi per pronunciare l’incandidabilità: non importa se il deputato è stato condannato per una pena superiore a due anni e un fatto di reato il cui massimo edittale supera i quattro, importa che il deputato sia considerato dalla sovrana autonomia del Parlamento indegno di partecipare ai lavori parlamentari.
La conseguenza di questa ricostruzione è che il parlamentare ha un pieno diritto alla tutela giurisdizionale solo nei confronti del provvedimento di trasmissione della sentenza da parte del pubblico ministero, perché successivamente non è più un problema di giurisdizione, è una questione politica e come tale insuscettibile di essere giustificabile.
Ma è anche che il luogo naturale per sollevare questioni di legittimità costituzionale è il primo, quello in cui si contesta il provvedimento di trasmissione del pubblico ministero, non il secondo, in cui il Parlamento interpreta politicamente i principi che presiedono alla sua collocazione nel sistema costituzionale.
3.3 – L’innominabilità del membro del Governo
Per l’art. 6, d.lgs. 235/2012: (i) chi assume una carica di governo ha l’obbligo di dichiarare se si trova in una condizione di incandidabilità, che sono le stesse previste per i parlamentari dall’art. 1; (ii) nel caso in cui una sentenza di condanna intervenga successivamente la decadenza opera di diritto nel momento in cui la sentenza viene trasmessa alla Presidenza del Consiglio dei Ministri dal pubblico ministero competente; (iii) la decadenza viene pronunciata con un decreto del Presidente della Repubblica su proposta del Presidente del Consiglio dei Ministri o su proposta del Ministro per gli interni se riguarda il Presidente del Consiglio dei Ministri.
La disposizione non chiarisce che cosa accade se la dichiarazione dell’interessato non corrisponde al vero, né individua un meccanismo di verifica di queste dichiarazioni.
Tuttavia, dal momento che in questo caso non si ha una vera e propria incandidabilità, ma piuttosto una innominabilità dal momento che la decadenza opera di diritto, si può ritenere che la Presidenza del Consiglio abbia l’onere di controllare le dichiarazioni rese dagli interessati e il Presidente del Consiglio debba proporre la decadenza al Presidente della Repubblica nel caso in cui le dichiarazioni si rivelino non corrispondenti al vero.
Il punto, però, è un altro: in questo caso, la sentenza opera come un fatto e questo fatto non ha bisogno di alcuna interpretazione politica, è semplicemente un fatto che rende innominabile la persona candidata a una carica di governo.
Il che mostra una distanza significativa rispetto all’ipotesi di un parlamentare eletto e questa differenza è conseguente alla diversa autonomia di cui godono Parlamento e Governo nel nostro sistema costituzionale: per il Governo, infatti, non vi è la necessità di una giustizia politica per quanto riguarda la capacità dei propri membri, che, invece, vi è per il Parlamento.
4 – Le residue aporie della convenzione della moglie di Cesare
Il sistema del d.lgs. 235/2012 non aveva bisogno di essere posto quando era in vigore la convenzione della moglie di Cesare.
In un tempo, non lontano, i parlamentari, ma più in generale tutti coloro che erano chiamati a una responsabilità politica, ritenevano di dover dare le proprie dimissioni nel momento in cui erano colpiti da un sospetto giudiziario.
La moglie di Cesare, però, è morta da tempo anche nelle nostre prassi istituzionali e questa convenzione è stata abbandonata.
Di conseguenza, abbiamo avuto bisogno di una legge che stabilisse ciò che quanti sono chiamati a una responsabilità politica dovrebbero fare di propria spontanea volontà.
Questa sembra la vera radice delle norme in materia di incandidabilità ed è una radice piuttosto nodosa, piuttosto complicata da considerare nella sua intrinseca ragionevolezza: è triste vedere una legge sorgere dall’assenza di senso di responsabilità, ma è così e non ci si può fare nulla.
Vi è però una questione che la convenzione della moglie di Cesare non risolveva: ci si deve dimettere quando si è condannati o basta il sospetto per indurre alle dimissioni? Era la questione che agitava Andreotti nel caso Kappler e che è venuta meno quando un oscuro consigliere socialista ha ritenuto che dinanzi all’assoluzione del proprio partito non vi fossero spazi per una condanna penale alla fine degli anni ottanta.
Ma è una questione dannatamente attuale.
Ancora più attuale nel momento in cui il self restraint dei partiti politici dà vita a una disciplina imperativa.
Lo sfondo del problema è risolto diversamente per i consiglieri regionali e i parlamentari: i parlamentari, come si è visto, conoscono solo della incandidabilità per effetto di una sentenza definitiva. Questo significa che nel tempo necessario per addivenire alla sentenza definitiva essi si possono candidare e che perciò è considerato naturale nel nostro sistema che un parlamentare possa essere condannato definitivamente nel corso della legislatura in cui è stato eletto.
Al contrario, i consiglieri regionali, ai sensi dell’art. 8, si vedono sospesi anche nel caso di sentenze non definitive, ovvero di sentenze confermate in appello, ovvero nel caso in cui siano oggetto di misure di prevenzione.
E’ una strana disparità di trattamento.
Soprattutto, se il problema è il prestigio delle assemblee elettive, questo prestigio non dovrebbe essere sempre lo stesso e, ancora, se il tema vero è la morte di Pompea Silla (la moglie di Cesare ripudiata non perché il suo amante fosse davvero il suo amante, ma perché doveva essere al di sopra di ogni sospetto), questo problema non sorge nel momento in cui colui che detiene una responsabilità politica viene ad essere rinviato a giudizio?
5 – Piccole conclusioni
La prima conclusione è che il d.lgs. 235/2012 non è una bella legge, è una legge difficile da interpretare, una legge di cui non è chiara la ragion d’essere e di faticosa lettura.
Ma questa conclusione vale per molti dei testi normativi che si leggono sulla Gazzetta Ufficiale, sono finiti i tempi in cui si aspettava l’uscita della Gazzetta per imparare a scrivere le norme.
La seconda conclusione è che questa legge, in realtà, solleva molte questioni e, probabilmente, meriterebbe davvero il giudizio della Corte costituzionale, forse non adesso, ma prima o poi, calmate le acque, sarebbe opportuno.
La terza conclusione riguarda il giudice a quo.
Chi scrive dubita fortemente che quanto affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza 259/2009 valga anche per il caso di verifica dei poteri. In questo caso, le radici della giustizia politica parlamentare non consentono di individuare un giudice e un giudizio rilevanti per i fini di 23, legge 87/1953 e 1, legge cost. 1/1948.
Forse il vero giudice è il giudice ordinario cui spetta di conoscere dell’impugnazione dell’atto con cui il pubblico ministero trasmette la sentenza. Mentre il Parlamento potrebbe nella sua sovrana autonomia rivendicare il potere di disapplicare l’art. 1, d.lgs. 235/2012 ritenendo che la sentenza definitiva sia solo astrattamente un limite per l’esercizio dell’elettorato passivo, mentre questo limite deve essere applicato tenendo conto con uno scrutinio che ha un carattere eminentemente politico dei casi concreti…
Ma, forse.
L’ultima conclusione, quella vera, è che suona strano un Parlamento che solleva una questione di legittimità costituzionale di una legge che può modificare.
Un Parlamento davvero responsabile dovrebbe farsi carico dei problemi che il d.lgs. 235/2012, di tutti i problemi che si è provato a evidenziare e che la dottrina, anche i pareri pro veritate depositati presso la Giunta delle elezioni del Senato, ha evidenziato e risolverli, serenamente.
In fondo, la questione vera è l’abbandono della convenzione della moglie di Cesare da parte del sistema politico, in un tessuto che non conosce più l’autorizzazione a procedere, e questa è una questione politica che non deve essere risolta dalla Corte costituzionale, sulle cui spalle il Parlamento non può abbandonare né il peso della propria inerzia né quello della sua ignoranza.