Una diversa normalità non è normale ovunque e nello stesso modo (Commento a caldo su CEDU, 19 febbraio 2013)
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (19 febbraio 2013, in X ed altri Vs Austria) ha stabilito che se uno dei due membri di una coppia di fatto eterosessuale può adottare il figlio naturale dell’altro membro, lo stesso diritto deve essere riconosciuto anche al membro di una coppia di fatto omosessuale che si trovi nella stessa situazione.
Se questo è il principio che è stato affermato, può sembrare semplice limitarne gli effetti.
Esso può riguardare solo paesi che ammettono l’adozione da parte di coppie di fatto e che l’ammettono per il caso in cui il bambino che deve essere adottato, con il quale si intende instaurare un legame giuridico pariordinato alla filiazione legittima, sia il figlio legittimo di uno dei due componenti la coppia.
Ma forse non è così.
Il principio ha dettato grande scalpore perché si basa sull’affermazione che l’eterosessualità non può essere una condizione per l’adozione. Non vi sarebbe alcun motivo per cui il diritto ad adottare il figlio del proprio compagno sia limitato nel caso in cui la coppia sia composta da persone di sesso diverso o da persone dello stesso sesso.
Ma, a ben vedere, il principio ha una portata molto più ampia.
Se l’eterosessualità non può essere una condizione per l’adozione del figlio del proprio partner, se quindi non vi è una giustificazione giuridica dal punto di vista del divieto di discriminazioni basata sugli orientamenti sessuali per vietare ad una coppia omosessuale di adottare un figlio, come può essere una condizione che impedisce il matrimonio fra persone dello stesso sesso?
In altre parole, il principio affermato dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha un contenuto molto più ampio di quanto non possa apparire perché il maggior argomento per impedire alle coppie omosessuali di unirsi in matrimonio è proprio la difficoltà di riconoscere alle stesse il diritto di adottare figli basato sull’idea (il pregiudizio?) che non sia coerente con i bisogni del bambino il crescere in una coppia formata da persone dello stesso sesso.
Se questo argomento cade, diventa difficile sostenere che il divieto di matrimonio (o meglio la lacuna in punto di matrimonio fra persone dello stesso sesso) possa essere considerata giustificata dal punto di vista del divieto di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale.
Ma un’affermazione di questo genere è corretta? O meglio è un’affermazione che spettava al Giudice di Strasburgo?
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha conquistato il compito di elaborare una sorta di patrimonio costituzionale condiviso a livello europeo per quanto riguarda l’estensione delle libertà che si caratterizzano per la loro universalità.
Ma la famiglia, intesa nel senso dell’art. 29, Cost., ha il carattere di universalità che ha il divieto di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale?
Altrove si è cercato di sostenere che uno dei significati della formula costituzionale per cui la famiglia è una società naturale fondata sul matrimonio stia nella necessità di adeguare la disciplina civilistica della famiglia, con particolare riferimento alla sua composizione, ma anche alle modalità di costituzione del vincolo e anche al suo allargamento, al modello di famiglia che il paese sente come “naturale” (GL Conti, in La società naturale ed i suoi nemici, Atti del seminario preventivo ferrarese del 2010).
In altre parole, non vi è niente di naturale o di innaturale nel senso immanente dell’espressione in un matrimonio o in un’adozione da parte di persone dello stesso sesso, è, nel nostro ordinamento costituzionale, un problema che il Parlamento è chiamato a risolvere facendo applicazione della propria funzione di indirizzo politico e quindi guardando a che cosa la società che rappresenta considera come naturale o come innaturale.
Ma questo è quello che apparirebbe vietato per effetto della sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ed è un divieto che, forse, non può essere espresso a livello europeo, perché è un livello troppo distante dalle singole realtà nazionali, un livello che non si presta ad esprimere la diversa coscienza sociale di un paese come il nostro e di un paese lontano dal nostro come l’Islanda.
Mettere sullo stesso piano italiani, austriaci ed islandesi sul piano della costruzione costituzionale della famiglia dal punto di vista del divieto di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, forse, non è corretto.
Su queste scelte, forse, dovrebbe resistere la sovranità nazionale per come è espressa dai Parlamenti e ad avviso di chi scrive questa sacca di sovranità è, nel caso della Repubblica Italiana, salvaguardato dal contenuto normativo essenziale dell’art. 29, Cost, inteso come principio fondamentale.