Pubblici ministeri ed azione penale: l’illusione di un conflitto
La Corte costituzionale ha dichiarato inammissibile il conflitto di attribuzione sollevato dal procuratore della Repubblica di Taranto avverso il d.l. 207/2012 con le ordinanze 16 e 17 del 13 febbraio 2014.
Una prima osservazione riguarda i tempi della decisione: i conflitti sono stati depositati in cancelleria rispettivamente il 31 dicembre 2012 ed il 28 gennaio 2013 e decisi nel senso della inammissibilità il 13 febbraio, ovvero 44 e 16 giorni dopo il deposito. Un tempo di decisione davvero breve e che di per sé rappresenta un segnale dell’attenzione che la Corte ha riservato all’affare Ilva, di cui molto si è parlato e non solo in questo luogo di discussione.
Una seconda osservazione riguarda il modello di comunicazione della decisione della Corte. Per chi scrive, la Corte dovrebbe parlare essenzialmente per mezzo delle sue sentenze e, al più, con le conferenze stampa dei suoi presidenti. Ma sempre più spesso la Corte usa parlare anche per mezzo di comunicati stampa che chiariscono all’opinione pubblica il significato delle sue sentenze. Lo ha fatto anche questa volta e non perché (il riferimento è al comunicato stampa che ha anticipato il dispositivo di Corte cost. 1/2013) non era ancora stato pubblicato il provvedimento nella sua interezza, ma perché questo provvedimento aveva bisogno di essere precisato e meglio spiegato, non era autosufficiente dal punto di vista motivazionale.
Questa osservazione merita, forse, qualche parola in più. Per la Corte, il conflitto merita di essere considerato inammissibile perché avverso il d.l. 207/2012 è dato il rimedio di costituzionalità rappresentato dal giudizio in via incidentale.
Sul piano delle forme costituzionali, le leggi e gli atti aventi forza di legge possono essere oggetto di conflitto solo nel caso in cui avverso di essi non sia possibile (utilmente possibile, si deve sottolineare) proporre questione di legittimità costituzionale in via incidentale (vedi Corte cost. 343/2003, 221/2002, 284/2005, 69 e 296/2006, 38/2008).
In altre parole, il fatto che una legge o un atto avente forza di legge alteri l’ordine costituzionale delle attribuzioni, si ponga in contrasto con il principio di separazione fra i poteri, non è sufficiente perché si possa sollevare conflitto ogni volta in cui colui che vede lesa la propria sfera di attribuzioni può, dinanzi ad un giudice e nel corso di un giudizio, sollevare questione di legittimità costituzionale della volontà concreta di legge che assume lesa.
Il significato vero di questo principio è che la sintesi politica manifestata attraverso la legge o l’atto avente forza di legge, intesi come espressione di una decisione pubblica che trova il suo unico limite nella Costituzione, non può essere oggetto di un ricorso per conflitto di attribuzione perché i poteri dello Stato non hanno il potere di contestare la formula di promulgazione con cui il Presidente della Repubblica comanda a tutti di rispettare il valore democratico della norma primaria, se non nella ipotesi residuale che si è detta.
L’unico potere che può farlo e non nelle forme contenziose della via diretta, riservata alle regioni ed alle province autonome, ma nelle forme non contenziose del giudizio in via incidentale, è il potere giurisdizionale, che ha questo compito perché la sua indipendenza è garanzia di un rispetto quasi sacerdotale del valore normativo della Costituzione.
Qui cade la brillante ricostruzione operata con il conflitto, secondo cui il principio di separazione fra i poteri avrebbe trovato il proprio custode nella Corte come giudice delle leggi in via incidentale, perché riguarderebbe la funzione giurisdizionale, dove a ben vedere ogni questione di legittimità costituzionale rappresenta la azione diretta di un giudice contro il legislatore che lo costringe a fare applicazione di una norma che il giudice ritiene incostituzionale ed è perciò una actio finium regundorum fra potere legislativo e potere giurisdizionale, mentre il principio di obbligatorietà dell’azione penale potrebbe essere giustiziato unicamente per mezzo del conflitto fra poteri, poiché segna la diretta interferenza del potere legislativo nelle attribuzioni di un potere caratterizzato dalla ufficialità e dalla irretrattabilità.
E’ questo che la Corte sottolinea non tanto nella parte in cui dichiara il conflitto inammissibile, con le ordinanze che si commentano, quanto piuttosto nel momento in cui il comunicato stampa annuncia la trattazione in udienza pubblica della questione di legittimità costituzionale del d.l. 207/2012 il prossimo 14 aprile.
Sarà in quel momento che la Corte affronterà il valore costituzionale dell’ambiente nel caso Ilva anche con riferimento ai criteri di ripartizione delle attribuzione invocati dal procuratore della repubblica con i conflitti dichiarati oggi inammissibili.
Non è possibile prevedere l’esito di questo giudizio.
Ma, e qui sta la terza osservazione, le ordinanze si soffermano a lungo sul significato del principio della obbligatorietà dell’azione penale: il d.l. 207/2012 potrebbe essere considerato illegittimo perché interferisce con le funzioni del pubblico ministero, condizionando l’esercizio dell’azione penale nel momento in cui determina l’inefficacia dei provvedimenti adottati dal pubblico ministero per evitare che i reati commessi con l’esercizio dell’attività industriale da parte dell’Ilva e nel momento in cui potrebbe determinare l’irrilevanza penale di condotte già oggetto di azione penale (per il procuratore della Repubblica questi reati non potrebbero essere perseguiti proprio in forza del decreto legge in questione e della successiva legge di conversione, con conseguente violazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale).
Pare essere il principio di obbligatorietà dell’azione penale il nodo delle ordinanze del 13 febbraio 2013, ma questo principio non si legge bene se non lo si collega alla inammissibilità del conflitto che discende direttamente dalla impossibilità di distinguere fra interferenza con la funzione giurisdizionale da far valere per mezzo di una questione di legittimità costituzionale in via incidentale ed interferenza con l’esercizio dell’azione penale azionabile per mezzo del conflitto.
L’esercizio dell’azione penale può essere considerato obbligatorio, e quindi caratterizzato dalla ufficiosità e dalla irretrattabilità, perché caratterizzato dall’attribuzione ad un potere la cui essenza assiologica è nell’essere soggetto soltanto alla Costituzione.
Di conseguenza, la Corte con queste ordinanze afferma un principio molto forte in un tempo in cui l’azione penale è oggetto di continue pressioni politiche e di delicate manovre elettorali (mentre la Corte, la cui camera di consiglio ascolta la radio come tutti i cittadini, decideva un boiardo di Stato veniva arrestato per una delicata vicenda di tangenti, il Celeste riceveva nuove notizie di reato, il Monte dei Paschi è oggetto di una indagine in cui politica e potere bancario si rivelano avvinti in termini tutt’altro che limpidi, ecc.).
Un principio forte nella sua assolutezza: l’azione penale non può che essere obbligatoria perché appartiene ad un potere che risponde solo alla Costituzione.
Ma che parla molto anche nel caso concreto, parla del contenuto che potrebbe avere la sentenza che sarà pronunciata il 14 aprile 2013: se l’azione penale ha queste caratteristiche, non spetta ad un decreto legge interferirvi, una legge o un atto avente forza di legge non può servire a consentire legittimando il compimento di ulteriori reati.
Forse…