Primarie e democrazia interna dei partiti: per cosa sono stati in fila gli elettori del centrosinistra?
Le polemiche dell’attualità politica. Il dibattito che si è sviluppato nel corso delle ultime settimane all’interno del centrosinistra italiano pone alcune interessanti questioni generali di ordine costituzionalistico, che meritano di essere riflettute al di là delle contingenze legate all’occasione elettorale delle primarie. Anzi, proprio l’avvenuta consumazione di tale fondamentale passaggio di avvicinamento alle elezioni politiche rende la riflessione che queste poche righe intendono promuovere, da un lato, più libera, dall’altro, più urgente: maggiormente libera perché non più limitata dal rischio che essa possa essere interpretata come una – anche solo indiretta – adesione all’una o all’altra delle opzioni politiche sul tappeto; maggiormente urgente perché indilazionabile se si vuole evitare che proprio il travisamento dei termini costituzionalistici di alcune questioni sottese alle più recenti vicende politiche possa produrre dannose torsioni del nostro “sistema costituzionale dei partiti”.
Il dibattito cui si fa riferimento, in particolare, è quello risultato dall’esacerbarsi del dialogo (che ha – in alcuni momenti – assunto i toni dello scontro) tra una parte della dirigenza del Partito Democratico e quella parte del medesimo partito, non rappresentata dalla maggioranza uscita dall’ultimo congresso, che propone un rinnovamento – essenzialmente generazionale – della classe dirigente.
Ciò che si vuole qui preliminarmente evidenziare è che tale polemica si è sviluppata nell’ambito della campagna elettorale per le appena celebrate primarie del centrosinistra. È, infatti, in quella sede che la seconda delle parti “in causa” ha denunciato la “configurazione ostruzionistica” delle regole stabilite per la competizione elettorale ed ha avvertito che, in caso di vittoria del proprio candidato, avrebbe proceduto a svecchiare la classe dirigente del partito, favorendo l’accesso al Parlamento degli iscritti più giovani e meno legati da ragioni di continuità con l’attuale maggioranza. Ed è sempre nella medesima sede che alcuni autorevoli esponenti della dirigenza del PD hanno paventato, per la medesima ipotesi, una propria candidatura alle elezioni politiche contro quella uscita dalle primarie.
Perché ciò interessa il diritto costituzionale? Proprio tale constatazione induce a riflettere su come i partiti politici stiano interpretando l’istituto delle primarie e su come si stia strutturando nel diritto costituzionale vivente, appunto per effetto dell’affermarsi delle primarie, la democrazia interna dei partiti. In definitiva, ciò che viene in considerazione è la sottesa interpretazione dell’art. 49 Cost. Come noto, infatti, dopo un lungo periodo in cui il “metodo democratico”, che la norma in questione pone come unico limite espresso all’azione dei partiti politici, è stato interpretato dai costituzionalisti con esclusivo riferimento ai rapporti “esterni” dei medesimi (cioè ai rapporti dei partiti tra di loro e degli stessi con gli organi costituzionali), è progressivamente aumentata la sensibilità dell’ordinamento nei confronti del tasso di democraticità “interna” alla vita dei partiti. Ne sono il chiaro segno il proliferare di Statuti che disciplinano i diritti degli iscritti, procedimentalizzano l’adozione delle decisioni più importanti, istituiscono Collegi di garanzia (per la verità, rimasti in molti casi sulla carta), nonché l’elevato numero di proposte di legge pendenti in Parlamento e miranti ad introdurre una disciplina legislativa in tema di organizzazione interna dei partiti. Ma, soprattuto, per quanto qui di più prossimo interesse, ne è riprova l’introduzione dell’istituto delle primarie per la selezione dei candidati alle elezioni politiche ed amministrative.
Già Esposito, però, riteneva che l’esigenza di un ordinamento interno a base democratica fosse implicita, dovendo tutti gli iscritti poter disporre liberamente dell’azione dei partiti, anziché sottostare a strutture elitarie ed oligarchiche
In estrema sintesi, l’ipotesi che si vuole sottoporre a discussione attraverso questo post è che l’interpretazione dell’art. 49 Cost. che emerge da questa esperienza di primarie per le elezioni politiche stia travisando la natura dell’istituto, deformandolo e portandolo su un terreno che non gli è proprio ed in cui il medesimo non solo non è in grado di fornire il surplus di legittimazione democratica di cui il sistema democratico-rappresentativo ha disperatamente bisogno per evitare il collasso, ma – al contrario – rischia di favorire una deriva populista, esiziale per i primi timidi tentativi di democratizzare la vita interna dei partiti.
Ma qual è questa natura? Di quale democrazia interna si deve ragionare a proposito delle primarie?
Primarie e concezione formale della democrazia? Rispondere a queste domande è necessario perché l’attuale dibattito politico richiama inevitabilmente alla mente del costituzionalista l’arcinota polemica che ha portato, già negli anni Venti, Hans Kelsen a stigmatizzare la “moda politica, [per cui] si pensa di dover usare la nozione di democrazia per tutti gli scopi possibili e in tutte le possibili occasioni, tanto che essa assume i significati più diversi, spesso tra di loro assai contrastanti, quando la solita improprietà del linguaggio volgare politico non la degrada addirittura ad una frase convenzionale che non esige più un senso determinato” (Essenza e valore della democrazia, trad. it. 1981, 57-8).
E la citazione non è casuale perché, a giudizio di chi scrive, per sciogliere la confusione che governa la nostra attualità politica è necessario prendere a prestito proprio il concetto di democrazia formale elaborato dal padre della dottrina pura del diritto (ma, anche se non lo si può qui argomentare, alle stesse conclusioni si arriverebbe facendo ricorso allo sviluppo che tale concezione ha avuto nel pensiero di Schumpeter e di Bobbio).
Come a tutti noto, il discorso kelseniano sulla democrazia (che si snoda nelle conosciutissime tre opere: Essenza e valore della democrazia del 1929, Il problema del parlamentarismo del 1925, I fondamenti della democrazia del 1955) ruota attorno all’idea-fulcro secondo cui è necessario tenere distinti – poiché tra di essi non vi è corrispondenza necessaria – i due aspetti fondamentali che animano il fenomeno democratico: quello dell’essenza e quello del valore. L’essenza della democrazia è ciò che la identifica e la distingue dagli altri modi di concepire il rapporto governanti-governati (e segnatamente dall’autocrazia). Il valore, invece, è il complesso di contenuti dell’ordine sociale che riflettono i convincimenti politici, etici, religiosi di un dato momento storico.
A partire dal presupposto che non esiste un rapporto diretto tra l’essenza della democrazia e le possibili weltaschauen che la riempiono di contenuto, Kelsen conclude che compito del teorico è quello di costruire un concetto di democrazia che ne sia svincolato. E per questo scrive che “se la democrazia volesse seriamente legittimarsi in questo modo, farebbe la figura dell’asino nella pelle del leone” (Ivi, p. 146).
Se, dunque, non si desidera costruire un concetto di democrazia che sia funzione della sempre controvertibile opzione per un dato ordine sociale, non resta che concepire la democrazia come la forma di quell’ordine, come il complesso di regole che ne consentono la realizzazione, senza però determinarne la dinamica interna.
Come altrettanto noto, la democrazia, intesa in senso formale, viene comunemente detta anche “procedurale”, proprio per dare rilievo al fatto che l’elemento centrale della nozione è rappresentato dal criterio di governo dell’ordine costituito. Lo stesso Kelsen, infatti, scrive che “come metodo o procedura, la democrazia è una forma di governo. Infatti la procedura attraverso la quale si crea e si attua in pratica un ordinamento sociale è considerata formale per distinguerla dal contenuto dell’ordinamento che è un elemento sostanziale o materiale” (Ivi, p. 198).
Quando, poi, si tratta di individuare l’elemento unificante della procedura democratica, per Kelsen non ci sono dubbi: “Si deve considerare la partecipazione al governo come la caratteristica essenziale della democrazia […]. Infatti questo è il criterio distintivo di quel sistema politico propriamente chiamato democrazia. Tale criterio non è un contenuto specifico dell’ordinamento sociale, in quanto la procedura in questione non è essa stessa un contenuto di quest’ordinamento” (Ivi, p. 195).
L’immagine della democrazia come governo del popolo affonda le proprie radici nell’immaginario ereditato dalla cultura e dalla letteratura greca. Nelle Supplici di Eschilo, a Danao, che comunica alle cinquanta figlie che chiedevano asilo a Pelago, re di Argo, la decisione della città di accoglierle, il coro delle Danaidi domanda: “Dimmi come si perviene ad una decisione, come diventa maggioranza la mano del popolo che comanda?”
Il sommario riferimento operato alla concezione kelseniana, per cui la democrazia non è altro che il complesso di regole che consentono la partecipazione del popolo al governo (ossia all’adozione delle decisioni pubbliche), è particolarmente utile ai nostri limitati fini perché consente di mettere in evidenza che una procedura democratica “avvalora” il risultato che produce, ossia la decisione pubblica che viene presa attraverso di essa, se e solo se la medesima consente la più ampia partecipazione dei soggetti interessati a prenderla, ossia quelli nella cui sfera giuridica soggettiva la decisione può, concretamente o anche solo astrattamente, direttamente o anche solo indirettamente, produrre effetti. E ciò per quanto la complessità degli ordinamenti giuridici contemporanei imponga che tale partecipazione si realizzi in maniera mediata o attraverso finzioni procedimentali.
Ed è proprio qui che si annida il punto più delicato. Da ciò deriva, infatti, che ad ogni procedura corrisponde una decisione da prendere ed un nucleo di soggetti interessati a prenderla, che – in quanto tali – sono chiamati a parteciparvi, a poco rilevando dal punto di vista ricostruttivo, come detto, che questa partecipazione avvenga in maniera diretta o indiretta.
Primarie e democrazia interna dei partiti. E con questo si può tornare all’attualità del dibattito politico. Le primarie sono una procedura democratica attraverso cui si selezionano i candidati con cui i partiti e le coalizioni intendono competere in occasione delle periodiche revisioni del consenso elettorale. Tale istituto, dunque, può concorrere all’attuazione del “metodo democratico interno” ricavabile dall’art. 49 Cost. nella misura in cui “costringe” i soggetti partitici ad individuare i candidati attraverso la manifestazione di volontà dei propri elettori, cui toccherà votarli. Ma solo nell’ambito di tale finalità e con la sola partecipazione di tali soggetti.
Viceversa, le primarie non possono, se non al prezzo di una pericolosa e deformante confusione, trasferire alcun surplus di legittimazione democratica alla vita interna dei partiti al di fuori di quei confini oggettivi e soggettivi. In particolare, le primarie non possono, se non al costo di minarne la coerenza intrinseca derivante dal fatto di essere un istituto di democrazia formale, diventare lo strumento per stabilire l’indirizzo politico di maggioranza all’interno del partito o per rinnovarne la dirigenza sulla base di questo o quel criterio. Per quello, infatti, esiste una diversa procedura democratica, con diversi presupposti soggettivi e con diversa dimensione teleologica: le elezioni congressuali, che – non a caso – vedono la partecipazione degli iscritti e si effettuano proprio per eleggere i dirigenti del partito e stabilire la linea di indirizzo politico che i medesimo devono perseguire.
A ben vedere, però, questo è proprio quanto sembra emergere dall’angusto orizzonte della nostra attualità politica, in cui le primarie del centrosinistra sembrano essere divenute la sede di una “resa dei conti” che dovrebbe seguire altre regole e coinvolgere altri partecipanti. Insomma, che dovrebbe seguire la “propria” procedura democratica. Dietro la polemica sulla necessità di ringiovanire la classe dirigente, dietro i dubbi sull’uso strumentale delle regole delle primarie da parte della dirigenza del PD e dietro le “minacce” di candidature individuali contro il vincitore delle primarie, infatti, si cela solo malamente una scomposta dialettica interna al solo PD; la quale ha nulla o poco a che fare con la selezione del leader destinato a guidare la coalizione di centrosinistra alle prossime elezioni politiche, cui invece hanno inteso partecipare i sottoscrittori dell’Appello degli elettori dell’ITALIA BENE COMUNE.
Sarebbe, invece, bene che le classi dirigenti (quelle in carica e quelle aspiranti) acquisissero consapevolezza che le procedure non sono sorde ai valori sostanziali, anzi ne sono intimamente condizionate e, specularmente, ne condizionano l’effettivo perseguimento. Ecco perché una procedura ha esiti tanto più democratici, quanto più favorisce l’emersione dei valori sostanziali in gioco. E, viceversa, ha connotati tanto più demagogici e populisti, quanto più restano inespresse ed implicite le scelte che si stanno facendo.
Qualcuno ha spiegato agli elettori del centro sinistra che da alcuni si è inteso coinvolgerli nelle dinamiche interne al partito?
Una lezione per il futuro? Anche sotto quest’aspetto si conferma l’estrema attualità della lezione kelseniana. Impostare la dialettica politica nei termini di una netta contrapposizione tra rispetto delle regole democratiche, da un lato, e pratica di determinati valori e scelte politiche, dall’altro, è erroneo e controproducente perché si finisce per perdere di vista l’obiettivo principale: l’opportunità – quanto mai rara – di trasfondere la propria visione del mondo nel concreto funzionamento delle istituzioni democratiche. Una corretta interpretazione di cosa si debba intendere per rispetto delle regole, lungi dal rappresentare il pretesto per tacitare le diverse opzioni interpretative che inevitabilmente aprono i problemi politici, costituisce, invece, il nucleo minimo di strumenti necessari per partecipare proficuamente alla vita costituzionale dell’ordinamento. In altri termini, il dissenso e la polemica interna sono utili e legittimi, ma non possono e non devono trasmodare nel disconoscimento del risultato che deriva dalla prima applicazione delle regole democratiche e, cioè, la determinazione della linea politica ufficiale del partito. La contestazione non può sfociare nella delegittimazione della classe dirigente, pena la relativizzazione dell’investitura democratica interna al partito stesso.
Vi è, però, un altro aspetto della concezione kelseniana della democrazia che, già da tempo, mostra il proprio affanno negli ordinamenti pluralistici contemporanei.
Per evidenziarlo è necessario rimarcare che, se, dal punto di vista dell’ideologia, la democrazia è caratterizzata dall’assenza di capi (in quanto governo del popolo), tanto che Kelsen scrive che, se l’archetipo dell’autorità è il padre, allora la democrazia è, sul piano ideale, una “società senza padre” (I fondamenti della democrazia, trad. it. 1981, 252), dal punto di vista della realtà, invece, la democrazia si distingue per la presenza di una pluralità di capi e questo la differenzia concretamente dall’autocrazia (Essenza e valore della democrazia, cit., 132). Ne consegue che il problema vero è quello della individuazione di un metodo idoneo di selezione dei capi. A questo riguardo già Bryce scriveva che “forse nessuna forma di governo abbisogna di grandi leaders tanto quanto la democrazia” (The American Commonwealth, 1888, III, 337).
Nella realtà, l’esperienza democratica vive in bilico sul delicato equilibrio tra esser e dover essere, con la conseguenza che, di fatto, l’instaurazione e la conservazione della democrazia finiscono per essere riservate ad élites esperte ed auspicabilmente responsabili. Questa circostanza era stata già denunziata da Tucidide quando, descrivendo la democrazia ateniese dell’età di Pericle, scriveva: “[…] Pericle, potente per dignità e per senno, chiaramente incorruttibile al denaro, dominava il popolo senza limitarne la libertà […]. Quando dunque li vedeva inopportunamente audaci per tracotanza, con la parola li riduceva al timore, mentre quando erano irragionevolmente spaventati li rimetteva in condizione di aver coraggio. Vi era così ad Atene una democrazia, ma di fatto un potere affidato al primo cittadino” (La guerra del Peloponneso, 2, 65, 8-9 trad. it. 1996, 366).
Nell’imprescindibile consapevolezza di questo dato di fatto non può, però, passarsi sotto silenzio che la dottrina formalista ha individuato un unico metodo per giungere alla selezione dei “capi”: l’elezione democratica. Ma l’elezione come metodo di selezione dei capi porta a sua volta con sé il problema dell’idoneità e dei criteri della scelta. Lo stesso Kelsen ne ha un chiaro sentore quando sostiene che “l’educazione alla democrazia diviene una delle principali esigenze della democrazia stessa” (Essenza e valore della democrazia, cit., 139).
Ciò che, però, non deve essere sottovalutato è che, in quella prospettiva teorica, il ruolo di strumento di selezione dei leader, il ruolo di educatore e trasformatore democratico, spetta essenzialmente al partito politico. E questo perché non va mai dimenticato che quella della democrazia formale è, innanzitutto, una teoria del parlamentarismo dei partiti, in cui forma di stato democratica e forma di governo parlamentare coincidono e sono inscindibili l’una dall’altra.
Ebbene, il grande contributo che l’istituto delle primarie può dare all’attuazione dell’art. 49 Cost. risiede proprio in questo, ossia nel concorrere ad arginare lo scollamento tra società civile e rappresentanza parlamentare determinato dagli esiti nefasti del monopolio lungamente detenuto dai partiti nella selezione della classe dirigente nazionale e locale. Ad esplicitare il concetto soccorre il pensiero di Giovanni Sartori, al quale deve essere riconosciuto il merito di aver reso evidente la natura intima del meccanismo elettorale attraverso l’etimologia della stessa parola elezione, la quale – come noto – deriva dal latino eligere, che “esprime l’idea non di scegliere a caso ma di scegliere selezionando” (Democrazia e definizioni, 1972, 89). Le potenzialità delle primarie come fattore di democratizzazione interna dei partiti, infatti, si appuntano proprio su questo: scindere il ruolo fondamentale del partito di individuare all’interno la propria dirigenza e di legittimarne la linea politica dal processo di selezione delle candidature alle elezioni politiche e amministrative, che, invece, deve avvenire fuori dal partito, come momento fondamentale di riappropriazione degli elettori della scelta e della selezione dei governanti.
Ecco perché, a giudizio di chi scrive, la messa in discussione dei dirigenti di partito e della loro politica attraverso le primarie, ma più in generale al di fuori delle occasioni istituzionali delle periodiche revisioni del consenso rappresentate dai congressi, costituisce un’operazione non solo inopportuna ma anche pericolosa. Essa, infatti, porta con sé il travisamento della dimensione costituzionale delle primarie
come possibile strumento di attuazione del “metodo democratico interno” dei partiti e rischia di far indulgere in derive populiste che, nella sostanza, perpetuano quella confusione tra determinazione della linea politica di maggioranza e selezione delle candidature che tanta responsabilità ha nella dilagante disaffezione dei cittadini nei confronti dei partiti politici.
Non è certo facile dissentire sul fatto che la sorte della democrazia dipenderà in gran parte dalla sua capacità di evitare che la lex maioris partis la svuoti dall’interno, determinando una sorta di selezione al rovescio della classe dirigente.
Ma questo non è un problema di “forma”: è, come direbbe Kelsen, un problema di “educazione”. In questa direzione la sfida che si apre dinnanzi ai partiti politici è difficile ed ambiziosa e non abbisogna certo di comportamenti autolesionistici.
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