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la Costituzione ride, ma è una cosa seria close

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Il segreto della camera di consiglio (Un galantuomo)

in News / by Gian Luca Conti
08/10/2009

9788815124234Chi scrive è diventato professore universitario dopo avere conosciuto Paolo Grossi.
Sono state le lezioni di Paolo Grossi, la sua attenta lucidità, che lo hanno convinto.
Sono le lezioni di Paolo Grossi che cerca di rincorrere per i suoi studenti.
Paolo Grossi può avere molti difetti.
Ma è sicuramente un galantuomo.
Un uomo d’altri tempi.
Un uomo che sa coltivare il diritto con quella passione che faceva disegnare le colline ai monaci medioevali, sui cui usi giuridici ha molto studiato e attentamente scritto.
L’intelligenza di Paolo Grossi è nella sua scuola, che, molto laicamente, ha impegnato nello studio delle dottrine giuspubbliciste, piuttosto che appiattirla sui suoi interessi primariamente orientati al diritto privato e alle teorie della proprietà.
E’ lui il giudice costituzionale di cui si parla nelle cronache di oggi.
Il giudice che avrebbe fatto pendere il piatto della bilancia per la incostituzionalità del Lodo Alfano.
E’ lui che Berlusconi citava quando indicava con sapida ignoranza 11 giudici di nomina presidenziale (anziché 5), e quindi comunisti.
Grossi può essere molte cose, ma immaginarlo comunista è davvero impossibile.
Il problema, però, è un altro.
La notizia che Grossi era indeciso è una notizia che appartiene al segreto della camera di consiglio della Corte costituzionale.
Il segreto della camera di consiglio fa sì che le sentenze della Corte costituzionale escano da un Collegio e siano l’immagine della Costituzione: la Costituzione non può tollerare voci discordanti e le sentenze integrano il testo costituzionale perché gli danno voce e forza normativa.
Far emergere i rumors della Corte significa indebolirla spaventosamente.
Questo è intollerabile.
Come è intollerabile immaginare una Corte di destra o di sinistra o citare, così Feltri, la provenienza dei giudici come sintomo della loro coloritura politica: i giudici della Corte Suprema degli Stati Uniti sono nominati a vita proprio per sganciarli da qualsiasi mandato di carattere politico.
La stessa cosa è per i nostri giudici costituzionali, che durano in carica nove anni, ovvero più di una magistratura, ma anche di un mandato presidenziale, e non sono rieleggibili.
E’ un contesto che non accetta, che non dovrebbe accettare, pettegolezzi da camera di consiglio.
L’unica cosa che importa è che cosa la Corte ha deciso e se la sua motivazione può reggere il confronto con l’opinione pubblica da cui deriva la legittimazione delle sentenze.
Il resto sono chiacchiere.
Di pessimo gusto.
Perchè trasformano la Consulta in una salone di bellezza di periferia.

La Corte costituzionale ed il superenalotto

in News / by Gian Luca Conti
07/10/2009

ConsultaOggi, è attesa la sentenza sul cd. Lodo Alfano.
I giornali incorrono pronostici e chiacchierano di incostituzionalità, incostituzionalità parziale, inammissibilità, infondatezza, e quant’altro, costringendo i loro cronisti a ripetere l’esame di diritto costituzionale come se fosse una sessione di superenalotto.
Dal punto di vista costituzionale, dal punto di vista di uno studioso di diritto costituzionale, appare difficile sostenere l’incostituzionalità del Lodo Alfano.
Non perchè questa legge sia conforme alla Costituzione.
Non sembra esserlo.
Ma perchè le ordinanze che hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale evocano dei parametri che rendono molto complesso l’accoglimento della questione di illegittimità costituzionale.
Il più ficcante di questi parametri è l’art. 138, Cost., che chiederebbe, secondo le prospettive dei giudici milanesi, una legge costituzionale per introdurre la sospensione dei processi in favore del Primo Ministro.
Tuttavia, è un parametro costituzionale molto scivoloso, che costringerebbe la Corte a introdurre una forma di riserva di legge costituzionale non necessariamente evocata dal testo costituzionale ed è un parametro su cui la Corte si è pronunciata molto raramente: l’ultima volta, salvo errori, con la sentenza 372/2004, a proposito del riconoscimento di altre forme di convivenza more uxorio diverse dal matrimonio operata dallo Statuto della Regione Toscana e la sentenza fu, non a caso, di inammissibilità.
Eppure, politicamente parlando, la sentenza di incostituzionalità appare non improbabile dopo avere ascoltato gli interventi di Gaetano Pecorella, presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati e quindi avvocato istituzionalmente scomodo: una carica dello Stato non può difendere un’altra carica dello Stato dinanzi alla Corte costituzionale senza confondere le ragioni del libero foro con considerazioni politiche, e di Ghidini, che ha reso molto complicato per la Corte respingere la questione di legittimità costituzionale nel momento in cui ha affermato la superiorità del Presidente del Consiglio rispetto alle ragioni della giustizia per effetto della investitura popolare.
Il ragionamento di Ghidini, nella sostanza, ha costretto la Corte costituzionale in un angolo: se la Corte respingesse la questione di legittimità costituzionale riconoscerebbe il valore taumaturgico del voto popolare e questo sarebbe davvero troppo.
In questa situazione pare possibile quotare l’incostituzionalità del Lodo Alfano, almeno a 2,10, tanto per fare un numero.
Ma l’aspetto singolare è che questo non dipende dalle ragioni dei giudici milanesi, che avrebbero meritato un ben diverso fiato, ma dalla difesa del Premier, che lascia immaginare una congiura di palazzo, in cui si gioca un atout apparentemente azzardato: se la Corte accoglie la questione, gli avvocati del Premier acquistano un prestigio inimmaginabile perché ottengono l’avallo costituzionale sul plusvalore di legittimazione democratica del voto popolare. Se non l’accoglie, gli avvocati del premier vincono il premio Bruto perché potranno sostenere di essere i veri artefici della caduta del dittatore.
Da tempo, si parla di congiure e Arlecchino Calderoli ha mostrato più volte di vedere le mani di Letta su questa vicenda, che davvero sembra perfetta per le caratteristiche da gentiluomo del consigliori di Berlusconi.

Elegie geriatriche

in News / by Gian Luca Conti
16/09/2009

silvio-berlusconi-vespa
Il cd. Salotto di Vespa, ieri, ha suscitato molte polemiche.
La Stampa, quotidiano negli ultimi tempi non lontano da una linea di fiancheggiamento esterno nei confronti del governo, si è pronunciato con un editoriale di Mattia Feltri (Lo show senza concorrenza), in cui Berlusconi viene paragonato a Leopoldo Fregoli.
A Fregoli, il Berlusconi di Vespa assomiglia molto: sia per la totale assenza di una personalità propria (è ingegnere, architetto, giardiniere, imprenditore, etc.), sia soprattutto per quel viso da burattino invecchiato che fa ridere piangendo.
Ieri, la Repubblica di D’Avanzo si poneva in chiave timidamente speranzosa. Immaginava lo show di Berlusconi come l’estremo vaneggiare di un dittatore sulla via del tramonto. Molto Idi Amin o Bokassa.
E’ una tesi pericolosa: Berlusconi non è affatto sulla via del tramonto. La sua faccia da Fregoli animato Pixar appare sempre più intramontabile e, soprattutto, poche cose sono più pericolose degli estremi singulti di un leader populista.
Il "tramonto" di Berlusconi è l’elegia del miglior Presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni, di un uomo che non considera necessaria la democrazia interna al proprio partito, perché il partito è un comitato elettorale e il comitato elettorale non risponde ai propri soci secondo lo schema della rappresentanza popolare, ma secondo il modello della "democrazia assembleare" tipica delle società per azioni.
Ci si deve domandare che cosa significa essere il miglior presidente del Consiglio dei Ministri degli ultimi centocinquanta anni. Perché Berlusconi si pone a paragone con De Gasperis (in realtà, il vero confronto lo dovrebbe cercare con Cavour o con Ricasoli). Perché sia difficile, sul piano logico e costituzionale, paragonare le dinamiche di Berlusconi con Zoli, Rumor, Colombo, Fanfani, Andreotti, Leone, etc. Perché l’unico paragone vero che può venire in mente, a parte De Gasperis, che c’entra davvero poco, è il Craxi della riforma dei Patti Lateranensi, piuttosto che il ferreo modo di condurre gli affari di governo imposto dalla dura onestà di Crispi.
Si tratta, però, di dinamiche estranee alla logica degli equilibri repubblicani, in cui il Presidente del Consiglio dovrebbe essere un primus inter pares, la cui autorità non si pone sul piano personale, ma nella attenta capacità di coordinare un’azione di governo efficace perché coesa.
Questa trasformazione del Presidente del Consiglio è il vero miraggio delle elegie geriatriche ed è una configurazione non lontana dai programmi istituzionali della nascente "corrente di Montecitorio", che non è una fronda, come sembra apparire allo smarrimento del Partito Democratico, ma la leva di una pericolosa manovra a tenaglia.
Il corpo elettorale potrebbe difendere la Costituzione esercitando la chimera del diritto di resistenza, ma un popolo che guarda un Fregoli farsi Caligola senza incazzarsi di brutto dà poche speranze.

La politica di classe

in News / by Gian Luca Conti
15/09/2009

GelminiL’attuale ministro per l’istruzione, l’università e la ricerca scientifica ha ammonito gli insegnanti a tenersi lontani dalla politica.
Il concetto è banale: la formazione dei giovani virgulti non deve minare la loro libertà di coscienza.
E’ un modello ipocrita.
La scuola è naturalmente politica, nel senso che inevitabilmente forma e modella un determinato modo di vedere la realtà delle cose da parte di chi la frequenta.
E’ anche un modello incostituzionale: per l’art. 33, primo comma, Cost., l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento.
Nella relazione di Marchesi alla Prima Sottocommissione, la libertà dell’insegnamento viene collegata alla laicità dello Stato e quindi alla stessa struttura democratica della repubblica.
Questa struttura viene meno se si impone all’arte e alla scienza di derivare in purezza dai propri capisaldi che non esistono senza i pregiudizi ideologici di chi insegna.
Solo il dominio dello Stato sui libri di testo, solo una cultura di Stato consente alla scuola di non essere politicamente in mano agli insegnanti.
Io non sono in grado di preparare il mio corso di diritto costituzionale senza essere influenzato da un preciso modo di collegare forma di governo e forma di Stato all’interno di un modello politico.
Ma la stessa cosa deve essere predicata a proposito del modo in cui l’asilo nido insegna a cantare o l’insegnante di greco in un liceo classico sceglie i testi da tradurre.
Tutto questo è molto banale.
Talmente banale che ci si deve chiedere che cosa la ministra Gelmini abbia inteso dire e, forse, in un momento di feroce discussione sia sulla riforma del lavoro scolastico che dell’accesso alla carriera accademica, il vero significato delle sue parole riguarda i sindacati, la loro forza politica e suona come una minaccia nei confronti degli insegnanti che possono essere più attenti alla difesa delle proprie prerogative.
Difesa, dice la ministra, che sarà considerata un atto politico e quindi un comportamento incompatibile con la dignità dell’insegnamento.

Forse no

in News / by Gian Luca Conti
03/09/2009

vignetta-costituzione-berlusconiBerlusconi ha citato in giudizio L’Unità e La Repubblica, ritenendo l’esposizione delle sue presunte frequentazioni femminili lesiva della propria dignità.
Gli intellettuali hanno fatto quadrato intorno ai due giornali.
Affermando che la loro citazione in giudizio sarebbe un grave attentato alla libertà di stampa.
Forse no.
La libertà di stampa incontra dei limiti costituzionali piuttosto significativi quando ha a che vedere con la vita privata delle persone.
Berlusconi ha il pieno diritto a adire un giudice per sentire se questi limiti sono stati rispettati.
E’ un diritto tutelato dalla Costituzione, esattamente come la libertà di stampa: Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi.
Un diritto sacrosanto e tipico di ogni Stato di diritto.
Non sembra davvero giusto negare al cittadino Berlusconi la possibilità di avere giustizia, se vi ha diritto, esattamente come qualsiasi altro cittadino.
Negare questo diritto significherebbe ammettere che la giustizia in Italia è una giustizia politica e questo, sia pure con tutte le problematiche che caratterizzano il funzionamento dell’ordine giudiziario, non sembra davvero possibile.
Parlare di fascismo a proposito di una citazione in giudizio non è bello.
Il fascismo agiva sulla stampa attraverso la necessaria iscrizione dei giornalisti al partito nazionale fascista, la censura preventiva, la centralizzazione della produzione delle notizie nella agenzia Stefani.
Non certo rivolgendosi alla magistratura per sapere se l’articolo apparso su quel determinato quotidiano era o meno lesivo della dignità del Primo Ministro.
Sotto questo aspetto, Berlusconi si comporta esattamente come Max Mosley e chiede alla magistratura di stabilire se la sua dignità è stata lesa.
Sta alla magistratura adesso dare una risposta seria alla domanda di giustizia del cittadino Berlusconi.
Ma c’è anche un altra domanda a cui la magistratura dovrebbe dare una risposta.
Gli scandali sessuali, veri o presunti, del Capo del Governo hanno incrinato il prestigio del Governo ed il prestigio del Governo è tutelato dall’art. 290 del Codice Penale: Chiunque pubblicamente vilipende la Repubblica, le Assemblee legislative o una di queste, ovvero il Governo o la Corte Costituzionale o l’ordine giudiziario, è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000.
Questo è il vero problema, anche se in questa fattispecie il soggetto attivo della condotta criminosa sembra essere lo stesso Capo del Governo, che con le sue feste e le sue frequentazioni ha pregiudicato il senso dello Stato ed il suo prestigio interno e internazionale.
I giornali accusati non dovrebbero, forse, lamentarsi di una citazione in giudizio con cui il cittadino Berlusconi intende tutelare i propri diritti.
Dovrebbero presentare un esposto perché il Primo Ministro Berlusconi sia costretto a rispondere delle sue azioni.
In questo modo, la pregiudiziale penale bloccherebbe l’azione civile e Berlusconi sarebbe costretto a rinunciare all’ombrello del Lodo Alfano.

Di santa ragione

in News / by Gian Luca Conti
26/08/2009

papalstatebisDI SANTA RAGIONE è il titolo del Manifesto di oggi.
Che plaude al presidente del pontificio consiglio dei migranti, mons. Antonio Maria Veglio ed al suo segretario, mons. Agostino Marchetto.
Quest’ultimo ha avuto modo di affermare che il peccato originale della legge sulla sicurezza è l’introduzione del reato di clandestinità: Se non sono d’accordo con noi, non sono d’accordo con l’insegnamento della Chiesa ed è un controsenso che si dicano cattolici se non accettano la dottrina sociale cattolica.
C’è da applaudire?
Forse no. La Chiesa ha ritenuto di prendere posizione su un affare politico ledendo il principio per cui lo Stato, inteso come Repubblica, e la Chiesa sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani.
Non diversamente dalle prese di posizione ecclesiastiche su aborto, eutanasia, trattamento di fine vita.
Dispiace leggere un plauso strumentale in un giornale che continua a professarsi comunista.
Non è inutile ricordare che fu Togliatti a definire – in Prima Sottocommissione – il testo dell’art. 7, Cost. e che (Atti Ass. Cost., Prima Sottocommissione, 18 dicembre 1946) questo articolo ha come proprio fondamento il principio per cui la Repubblica deve garantire a tutti il diritto di professare e praticare la propria religione e, per questo motivo, non può avere una religione.
Quanto un alto prelato chiede ai rappresentanti del corpo elettorale di seguire i dettami della dottrina sociale della Chiesa nella propria attività politica viola apertamente questo principio e la laicità non può essere invocata solo a favore del diritto all’aborto o ad una morte pietosa.
Riguarda anche le posizioni della Chiesa sui migranti.
Che possono essere discusse e condivise ma a condizione che si prescinda dalla loro sostanza religiosa.

Lacune laiche

in News / by Gian Luca Conti
04/08/2009

PreteTre notizie di questi giorni sono legate da un filo rosso: la commercializzazione della pillola abortiva RU486, che ha suscitato le proteste del Vaticano; la sentenza della Law Lords del 31 luglio 2009 sul caso Debbie Purdy, che ha stabilito che non vi è alcuna ragione di procedere contro un marito che assiste la moglie che – malata incurabile – ha liberamente scelto di morire; con ordinanza iscritta al registro della Corte costituzionale al n. 177/2009, il Tribunale di Venezia ha dubitato della legittimità costituzionale delle norme che vietano il matrimonio fra persone dello stesso sesso.
Tutte queste vicende pongono lo stesso problema: in che misura il diritto, e soprattutto il diritto costituzionale, può intervenire nelle scelte fondamentali di una persona?
Non può farlo per ragioni etiche.
La struttura del diritto è la stessa struttura del linguaggio.
Il diritto è una grammatica che consente il dialogo fra persone che possono avere posizioni etiche molto diverse.
Vi è nel diritto, nelle singole norme che lo compongono, una struttura assiologica che è molto simile al "giudizio" inconsapevole delle norme linguistiche: un giudizio di giustizia che si aggancia al bisogno di comunicare con le altre persone e che parla per consuetudini irrazionali.
Una persona non ha bisogno di riflettere per trovare la giusta consecuzione fra i verbi: i verbi suonano bene o suonano male per ragioni che nella loro esatta formulazione grammatica sono spesso ignorate da chi parla.
Così è delle norme giuridiche.
Quando le norme giuridiche si collegano ad istanze etiche, la proposizione cogente che ne risulta perde questo connotato: diventa un qualcosa che può suonare bene a taluni, ma che suona inevitabilmente male per altri.
In questi casi, si smarrisce la radice naturale di ogni norma: è proibito perché l’esercizio di questa libertà turba il principio di eguaglianza.
Così, nell’aborto, vi sono dele scelte consolidate dalla legge 194 del 1978. La sostanza di queste scelte non cambia a seconda del meccanismo scelto per provocare l’interruzione della gravidanza. La scelta del meccanismo è solo un problema farmacologico e utilizzarla per riaprire il dibattito sulla liceità dell’aborto è solo un artificio retorico.
Intimamente scorretto.
Nel suicidio medicalmente assistito, che è cosa assai diversa dalla interruzione di cure necessarie per il mantenimento in vita, il problema è se lo Stato può costringere a vivere e se ha un interesse a considerare socialmente pericolosa la persona che decide di non poter non accompagnare la propria moglie che ha deciso di porre fine alla propria vita e che non vorrebbe restare sola in quel momento.
Nel matrimonio fra persone dello stesso sesso, il punto, il vero punto, è in che misura due persone che decidono di unirsi in matrimonio, anche se omosessuali, possono essere di pregiudizio per la società? Che cosa leva la consacrazione giuridica nella forma del contratto nuziale del loro affetto agli altri cittadini? Che diritto hanno gli altri cittadini di violare il principio di eguaglianza per ragioni di carattere esclusivamente genetico?
Naturalmente, questa è la sostanza giuridica delle scelte.
La sostanza etica pone interrogativi molto diversi.
Ma quella appartiene a ciascuno.
Non allo Stato.

Lodo Bernardo

in News / by Gian Luca Conti
27/07/2009

MancaSoloLaPottaIl cd. Lodo Bernardo è un emendamento al dl anticrisi che stabilisce: Le procure regionali della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi previsti dall’articolo 7 della legge 27 marzo 2001 numero 97.
Il danno all’immagine è il danno che lo Stato soffre quando un pubblico dipendente viene meno ai propri doveri di lealtà ed imparzialità: ogni volta che un dipendente pubblico non adempie alle proprie funzioni con disciplina ed onore, lo Stato ha diritto ad essere risarcito.
Questo significa che lo Stato, inteso come persona giuridica, è titolare del diritto al nome, ad una identità coerente con i principi costituzionali, alla reputazione che deriva dal rispetto dei principi costituzionali intesi come canoni di carattere etico e perciò norme comportamentali che assumono una consistenza giuridica per effetto del risarcimento del danno.
Sotto questo aspetto, la responsabilità del pubblico dipendente per il danno all’immagine ha un valore caratterizzante dal punto di vista della forma di Stato: lo Stato costituzionale di diritto si proietta come norma comportamentale di tutti coloro che sono chiamati a rappresentarlo per il tramite del rapporto di immedesimazione organica tipico sia del rapporto di pubblico impiego che della rappresentanza politica.
Trascende la classica ipotesi del dipendente della guardia di finanza che intrattiene rapporti di natura patrimoniale con una persona sottoposta alle sue indagini o del carabiniere che si appropria dei buoni carburante.
Il Lodo Bernardo si pone in radicale contrasto rispetto a questa costruzione.
Vede la responsabilità per danno all’immagine solo nell’ipotesi in cui siano stati commessi dei reati contro la pubblica amministrazione (i reati di cui al Capo I, Titolo II, Libro II del Codice penale, cui si riferisce l’art. 7, legge 97 del 2001) dimenticando che molti reati possono stare al di fuori del Codice penale, come, ad esempio, le fattispecie fallimentari che possono essere commesse dall’amministratore di una società pubblica, ovvero impedendo il risarcimento del danno all’immagine in ogni caso in cui l’azione penale non sia procedibile, così nel caso dei reati commessi dalle più alte cariche dello Stato.
Soprattutto, però, al di là del collegamento fra il Lodo Bernardo, il Lodo Alfano ed il Noemi_Gate, il Lodo Bernardo si fonda su una scelta etica molto discutibile.
Per questo emendamento, il danno all’immagine risiede solo nella violazione di norme penali, di talché i doveri del pubblico dipendente vengono ad essere impressi solo nel Codice penale.
Ma non è così: adempiere le proprie funzioni con disciplina ed onore significa collaborare alla costruzione di uno stato costituzionale di diritto, osservando in ogni comportamento lo spirito della Costituzione e, a questo fine, non basta certo evitare di commettere i reati di corruzione o concussione.

Irrituale

in News / by Gian Luca Conti
16/07/2009

NapolitanoNapolitano ha promulgato la legge sulla sicurezza.
Lo ha fatto sforzando le prassi presidenziali in punto di applicazione dell’art. 74, Cost.
Per questa disposizione, il Presidente della Repubblica può rinviare alle Camere la deliberazione legislativa sottoposta alla sua firma, chiedendo una nuova deliberazione con un messaggio motivato.
In questo caso, invece, il Capo dello Stato ha promulgato la legge, manifestando le proprie attente perplessità in una lettera al Capo del Governo ed al Ministro della Giustizia, inviata per conoscenza anche ai presidenti dei due rami del Parlamento. Il Primo ministro ha subito risposto con soddisfazione.
Questa lettera mostra due criticità, cui se ne aggiunge una terza.
Prima di tutto, il Capo dello Stato può promulgare una legge della cui costituzionalità dubita?
Forse no.
Forse, in questo modo, il Presidente della Repubblica commette un qualcosa di non lontano dall’alto tradimento.
In secondo luogo, Napolitano ha scritto al Capo del Governo, indirizzando all’esecutivo delle doglianze che riguadano il merito di un testo legislativo, il che significa che, per il Presidente della Repubblica, il motore della attività legislativa del Parlamento non sono le Camere ma è l’esecutivo.
Così, il Capo dello Stato ammette che l’attuale forma di governo ha superato il portato precettivo dell’art. 70, Cost., per il quale la funzione legislativa appartiene alle Camere.
E’ un secondo attentato alla Costituzione.
Soprattutto, però, la lettera del Capo dello Stato al Capo del Governo e la prontamente soddisfatta risposta del Primo ministro evidenziano un mutamento ancora più profonda della forma di governo: la funzione di indirizzo politico viene ad essere oggetto di condivisione fra Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio dei Ministri, con una prassi eversiva dell’art. 87, Cost., che prevede un dialogo fra Capo dello Stato e Camere, ma non anche con il Governo.
Ci si avvicina, molto, alla Quinta Repubblica francese, dove primo ministro e presidente della repubblica sono costretti a coabitare e il presidente della repubblica non si può rivolgere al parlamento.
Con una torsione delle forme costituzionali molto evidente.
Anche se la realtà è che se le Camere non sono in grado di esercitare la funzione legislativa al di fuori della direzione impressa alla loro attività dal Consiglio dei Ministri, se il Parlamento è un simulacro poiché non esistono le condizioni politiche per poter esprimere la sfiducia al Governo, se la Corte costituzionale va a cena con i destinatari della lettera del Capo dello Stato, allora il Quirinale diventa l’unico organo costituzionale in grado di influenzare le scelte di Palazzo Chigi e, rapidamente, conquista i vuoti di potere lasciati aperti dal venire meno di ogni altro check and balance costituzionale.

La cena dell’astensione

in News / by Gian Luca Conti
02/07/2009

ConsultaLa notizia era sull’Espresso di venerdì passato.
Un giudice della Corte costituzionale organizza una cena, alla quale invita il Presidente del Consiglio dei Ministri, assieme al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e al ministro della Giustizia, nonché ad un collega.
L’evento diventa oggetto di una interrogazione parlamentare dell’on. Di Pietro e la risposta del ministro Vito diventa una classica bagarre parlamentare.
Lo sfondo è la discussione della costituzionalità del Lodo Alfano, ovvero della legge che stabilisce la (temporanea) immunità delle più alte cariche dello Stato.
L’oggetto della questione è interessante dal punto di vista del diritto costituzionale.
Prima di tutto, dal punto di vista della giustizia costituzionale.
L’art. 51, primo comma, n. 2, c.p.c. stabilisce che non possono svolgere funzioni giurisdizionali coloro che hanno rapporti di commensalità con una delle parti del giudizio.
Questa disposizione si applica al sistema della giustizia amministrativa (in questi termini, Cons. Stato, Ad. Plen., 25 marzo 2009, n. 2).
Il sistema della giustizia amministrativa è il necessario completamento del sistema della giustizia costituzionale per effetto dell’art. 22, primo comma, legge 87 del 1953.
Tuttavia, la Corte costituzionale può adottare delle norme per disciplinare il proprio funzionamento ai sensi dell’art. 22, secondo comma, legge 87 del 1953.
L’art. 29 delle Norme Integrative adottate dalla Corte costituzionale stabilisce che ai giudizi di competenza della Corte costituzionale non si applicano le cause di astensione e di ricusazione previste per gli altri giudizi.
La logica di questa norma è la necessaria astrattezza del processo costituzionale, conseguenza del tono costituzionale delle sue competenze: le cause di astensione e ricusazione presuppongono un coinvolgimento personale dei magistrati che non è ipotizzabile in un giudizio che ha per oggetto l’attuazione della Costituzione.
Fin qui, un manuale di giustizia costituzionale.
Cui si potrebbe aggiungere che la forza gerarchica delle norme integrative è una naturale conseguenza della posizione della Corte costituzionale nel sistema.
Tutto questo rischia di perdere la sua carica assiologica per una cena.
Non perché lasci immaginare che la questione di legittimità costituzionale possa essere oggetto di una cena alla presenza delle consorti.
Ma perché l’indipendenza della magistratura costituzionale è anche lontananza dalla politica e dalle personalità politiche: estraneità alle logiche conviviali che segnano il passo di altre sintesi.
Vi è anche un secondo aspetto che può essere rimarcato: il punto di vista delle convenzioni costituzionali.
Le elezioni parlamentari di Mazzella, Silvestri, Napolitano e Frigo sono state svolte cercando un accordo su personalità che potessero garantire una seria conduzione del proprio ruolo.
Che avessero un colore politico, inevitabile nelle designazioni da parte del Parlamento, ma che garantissero un alto profilo tecnico.
Per questa ragione, sono state elezioni caratterizzate da un vasto consenso trasversale, ben sottolineato all’epoca sia dai presidenti dei due rami del Parlamento che dal Capo dello Stato.
Questa convenzione costituzionale può essere travolta dalla cena di inizio maggio, che invece mostra una organicità sospetta di due giudici rispetto ad una precisa parte politica.
Infine, la cena – o meglio la notizia della cena – può avere un impatto deflagrante sul funzionamento interno della Corte.
Due giudici hanno dimostrato una commensalità che giustificherebbe la loro astensione o una ricusazione, in un giudizio comune.
I colleghi di questi due giudici – gli altri tredici membri della Corte – non avranno difficoltà ad ottenere il loro silenzio nella camera di consiglio che giudicherà del Lodo Alfano: qualunque sia l’opinione che Mazzella manifesterà sarà un’opinione sospetta, targata politicamente dalla convivialità con l’oggetto del processo.
Una Corte nella quale è possibile togliere la parola ad un giudice perché sospetto di parzialità è un giudice pericoloso.

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