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la Costituzione ride, ma è una cosa seria close

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Forse no

in News / by Gian Luca Conti
03/09/2009

vignetta-costituzione-berlusconiBerlusconi ha citato in giudizio L’Unità e La Repubblica, ritenendo l’esposizione delle sue presunte frequentazioni femminili lesiva della propria dignità.
Gli intellettuali hanno fatto quadrato intorno ai due giornali.
Affermando che la loro citazione in giudizio sarebbe un grave attentato alla libertà di stampa.
Forse no.
La libertà di stampa incontra dei limiti costituzionali piuttosto significativi quando ha a che vedere con la vita privata delle persone.
Berlusconi ha il pieno diritto a adire un giudice per sentire se questi limiti sono stati rispettati.
E’ un diritto tutelato dalla Costituzione, esattamente come la libertà di stampa: Tutti possono agire in giudizio per la tutela dei propri diritti ed interessi legittimi.
Un diritto sacrosanto e tipico di ogni Stato di diritto.
Non sembra davvero giusto negare al cittadino Berlusconi la possibilità di avere giustizia, se vi ha diritto, esattamente come qualsiasi altro cittadino.
Negare questo diritto significherebbe ammettere che la giustizia in Italia è una giustizia politica e questo, sia pure con tutte le problematiche che caratterizzano il funzionamento dell’ordine giudiziario, non sembra davvero possibile.
Parlare di fascismo a proposito di una citazione in giudizio non è bello.
Il fascismo agiva sulla stampa attraverso la necessaria iscrizione dei giornalisti al partito nazionale fascista, la censura preventiva, la centralizzazione della produzione delle notizie nella agenzia Stefani.
Non certo rivolgendosi alla magistratura per sapere se l’articolo apparso su quel determinato quotidiano era o meno lesivo della dignità del Primo Ministro.
Sotto questo aspetto, Berlusconi si comporta esattamente come Max Mosley e chiede alla magistratura di stabilire se la sua dignità è stata lesa.
Sta alla magistratura adesso dare una risposta seria alla domanda di giustizia del cittadino Berlusconi.
Ma c’è anche un altra domanda a cui la magistratura dovrebbe dare una risposta.
Gli scandali sessuali, veri o presunti, del Capo del Governo hanno incrinato il prestigio del Governo ed il prestigio del Governo è tutelato dall’art. 290 del Codice Penale: Chiunque pubblicamente vilipende la Repubblica, le Assemblee legislative o una di queste, ovvero il Governo o la Corte Costituzionale o l’ordine giudiziario, è punito con la multa da euro 1.000 a euro 5.000.
Questo è il vero problema, anche se in questa fattispecie il soggetto attivo della condotta criminosa sembra essere lo stesso Capo del Governo, che con le sue feste e le sue frequentazioni ha pregiudicato il senso dello Stato ed il suo prestigio interno e internazionale.
I giornali accusati non dovrebbero, forse, lamentarsi di una citazione in giudizio con cui il cittadino Berlusconi intende tutelare i propri diritti.
Dovrebbero presentare un esposto perché il Primo Ministro Berlusconi sia costretto a rispondere delle sue azioni.
In questo modo, la pregiudiziale penale bloccherebbe l’azione civile e Berlusconi sarebbe costretto a rinunciare all’ombrello del Lodo Alfano.

Di santa ragione

in News / by Gian Luca Conti
26/08/2009

papalstatebisDI SANTA RAGIONE è il titolo del Manifesto di oggi.
Che plaude al presidente del pontificio consiglio dei migranti, mons. Antonio Maria Veglio ed al suo segretario, mons. Agostino Marchetto.
Quest’ultimo ha avuto modo di affermare che il peccato originale della legge sulla sicurezza è l’introduzione del reato di clandestinità: Se non sono d’accordo con noi, non sono d’accordo con l’insegnamento della Chiesa ed è un controsenso che si dicano cattolici se non accettano la dottrina sociale cattolica.
C’è da applaudire?
Forse no. La Chiesa ha ritenuto di prendere posizione su un affare politico ledendo il principio per cui lo Stato, inteso come Repubblica, e la Chiesa sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani.
Non diversamente dalle prese di posizione ecclesiastiche su aborto, eutanasia, trattamento di fine vita.
Dispiace leggere un plauso strumentale in un giornale che continua a professarsi comunista.
Non è inutile ricordare che fu Togliatti a definire – in Prima Sottocommissione – il testo dell’art. 7, Cost. e che (Atti Ass. Cost., Prima Sottocommissione, 18 dicembre 1946) questo articolo ha come proprio fondamento il principio per cui la Repubblica deve garantire a tutti il diritto di professare e praticare la propria religione e, per questo motivo, non può avere una religione.
Quanto un alto prelato chiede ai rappresentanti del corpo elettorale di seguire i dettami della dottrina sociale della Chiesa nella propria attività politica viola apertamente questo principio e la laicità non può essere invocata solo a favore del diritto all’aborto o ad una morte pietosa.
Riguarda anche le posizioni della Chiesa sui migranti.
Che possono essere discusse e condivise ma a condizione che si prescinda dalla loro sostanza religiosa.

Lacune laiche

in News / by Gian Luca Conti
04/08/2009

PreteTre notizie di questi giorni sono legate da un filo rosso: la commercializzazione della pillola abortiva RU486, che ha suscitato le proteste del Vaticano; la sentenza della Law Lords del 31 luglio 2009 sul caso Debbie Purdy, che ha stabilito che non vi è alcuna ragione di procedere contro un marito che assiste la moglie che – malata incurabile – ha liberamente scelto di morire; con ordinanza iscritta al registro della Corte costituzionale al n. 177/2009, il Tribunale di Venezia ha dubitato della legittimità costituzionale delle norme che vietano il matrimonio fra persone dello stesso sesso.
Tutte queste vicende pongono lo stesso problema: in che misura il diritto, e soprattutto il diritto costituzionale, può intervenire nelle scelte fondamentali di una persona?
Non può farlo per ragioni etiche.
La struttura del diritto è la stessa struttura del linguaggio.
Il diritto è una grammatica che consente il dialogo fra persone che possono avere posizioni etiche molto diverse.
Vi è nel diritto, nelle singole norme che lo compongono, una struttura assiologica che è molto simile al "giudizio" inconsapevole delle norme linguistiche: un giudizio di giustizia che si aggancia al bisogno di comunicare con le altre persone e che parla per consuetudini irrazionali.
Una persona non ha bisogno di riflettere per trovare la giusta consecuzione fra i verbi: i verbi suonano bene o suonano male per ragioni che nella loro esatta formulazione grammatica sono spesso ignorate da chi parla.
Così è delle norme giuridiche.
Quando le norme giuridiche si collegano ad istanze etiche, la proposizione cogente che ne risulta perde questo connotato: diventa un qualcosa che può suonare bene a taluni, ma che suona inevitabilmente male per altri.
In questi casi, si smarrisce la radice naturale di ogni norma: è proibito perché l’esercizio di questa libertà turba il principio di eguaglianza.
Così, nell’aborto, vi sono dele scelte consolidate dalla legge 194 del 1978. La sostanza di queste scelte non cambia a seconda del meccanismo scelto per provocare l’interruzione della gravidanza. La scelta del meccanismo è solo un problema farmacologico e utilizzarla per riaprire il dibattito sulla liceità dell’aborto è solo un artificio retorico.
Intimamente scorretto.
Nel suicidio medicalmente assistito, che è cosa assai diversa dalla interruzione di cure necessarie per il mantenimento in vita, il problema è se lo Stato può costringere a vivere e se ha un interesse a considerare socialmente pericolosa la persona che decide di non poter non accompagnare la propria moglie che ha deciso di porre fine alla propria vita e che non vorrebbe restare sola in quel momento.
Nel matrimonio fra persone dello stesso sesso, il punto, il vero punto, è in che misura due persone che decidono di unirsi in matrimonio, anche se omosessuali, possono essere di pregiudizio per la società? Che cosa leva la consacrazione giuridica nella forma del contratto nuziale del loro affetto agli altri cittadini? Che diritto hanno gli altri cittadini di violare il principio di eguaglianza per ragioni di carattere esclusivamente genetico?
Naturalmente, questa è la sostanza giuridica delle scelte.
La sostanza etica pone interrogativi molto diversi.
Ma quella appartiene a ciascuno.
Non allo Stato.

Lodo Bernardo

in News / by Gian Luca Conti
27/07/2009

MancaSoloLaPottaIl cd. Lodo Bernardo è un emendamento al dl anticrisi che stabilisce: Le procure regionali della Corte dei conti esercitano l’azione per il risarcimento del danno all’immagine nei soli casi previsti dall’articolo 7 della legge 27 marzo 2001 numero 97.
Il danno all’immagine è il danno che lo Stato soffre quando un pubblico dipendente viene meno ai propri doveri di lealtà ed imparzialità: ogni volta che un dipendente pubblico non adempie alle proprie funzioni con disciplina ed onore, lo Stato ha diritto ad essere risarcito.
Questo significa che lo Stato, inteso come persona giuridica, è titolare del diritto al nome, ad una identità coerente con i principi costituzionali, alla reputazione che deriva dal rispetto dei principi costituzionali intesi come canoni di carattere etico e perciò norme comportamentali che assumono una consistenza giuridica per effetto del risarcimento del danno.
Sotto questo aspetto, la responsabilità del pubblico dipendente per il danno all’immagine ha un valore caratterizzante dal punto di vista della forma di Stato: lo Stato costituzionale di diritto si proietta come norma comportamentale di tutti coloro che sono chiamati a rappresentarlo per il tramite del rapporto di immedesimazione organica tipico sia del rapporto di pubblico impiego che della rappresentanza politica.
Trascende la classica ipotesi del dipendente della guardia di finanza che intrattiene rapporti di natura patrimoniale con una persona sottoposta alle sue indagini o del carabiniere che si appropria dei buoni carburante.
Il Lodo Bernardo si pone in radicale contrasto rispetto a questa costruzione.
Vede la responsabilità per danno all’immagine solo nell’ipotesi in cui siano stati commessi dei reati contro la pubblica amministrazione (i reati di cui al Capo I, Titolo II, Libro II del Codice penale, cui si riferisce l’art. 7, legge 97 del 2001) dimenticando che molti reati possono stare al di fuori del Codice penale, come, ad esempio, le fattispecie fallimentari che possono essere commesse dall’amministratore di una società pubblica, ovvero impedendo il risarcimento del danno all’immagine in ogni caso in cui l’azione penale non sia procedibile, così nel caso dei reati commessi dalle più alte cariche dello Stato.
Soprattutto, però, al di là del collegamento fra il Lodo Bernardo, il Lodo Alfano ed il Noemi_Gate, il Lodo Bernardo si fonda su una scelta etica molto discutibile.
Per questo emendamento, il danno all’immagine risiede solo nella violazione di norme penali, di talché i doveri del pubblico dipendente vengono ad essere impressi solo nel Codice penale.
Ma non è così: adempiere le proprie funzioni con disciplina ed onore significa collaborare alla costruzione di uno stato costituzionale di diritto, osservando in ogni comportamento lo spirito della Costituzione e, a questo fine, non basta certo evitare di commettere i reati di corruzione o concussione.

Irrituale

in News / by Gian Luca Conti
16/07/2009

NapolitanoNapolitano ha promulgato la legge sulla sicurezza.
Lo ha fatto sforzando le prassi presidenziali in punto di applicazione dell’art. 74, Cost.
Per questa disposizione, il Presidente della Repubblica può rinviare alle Camere la deliberazione legislativa sottoposta alla sua firma, chiedendo una nuova deliberazione con un messaggio motivato.
In questo caso, invece, il Capo dello Stato ha promulgato la legge, manifestando le proprie attente perplessità in una lettera al Capo del Governo ed al Ministro della Giustizia, inviata per conoscenza anche ai presidenti dei due rami del Parlamento. Il Primo ministro ha subito risposto con soddisfazione.
Questa lettera mostra due criticità, cui se ne aggiunge una terza.
Prima di tutto, il Capo dello Stato può promulgare una legge della cui costituzionalità dubita?
Forse no.
Forse, in questo modo, il Presidente della Repubblica commette un qualcosa di non lontano dall’alto tradimento.
In secondo luogo, Napolitano ha scritto al Capo del Governo, indirizzando all’esecutivo delle doglianze che riguadano il merito di un testo legislativo, il che significa che, per il Presidente della Repubblica, il motore della attività legislativa del Parlamento non sono le Camere ma è l’esecutivo.
Così, il Capo dello Stato ammette che l’attuale forma di governo ha superato il portato precettivo dell’art. 70, Cost., per il quale la funzione legislativa appartiene alle Camere.
E’ un secondo attentato alla Costituzione.
Soprattutto, però, la lettera del Capo dello Stato al Capo del Governo e la prontamente soddisfatta risposta del Primo ministro evidenziano un mutamento ancora più profonda della forma di governo: la funzione di indirizzo politico viene ad essere oggetto di condivisione fra Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio dei Ministri, con una prassi eversiva dell’art. 87, Cost., che prevede un dialogo fra Capo dello Stato e Camere, ma non anche con il Governo.
Ci si avvicina, molto, alla Quinta Repubblica francese, dove primo ministro e presidente della repubblica sono costretti a coabitare e il presidente della repubblica non si può rivolgere al parlamento.
Con una torsione delle forme costituzionali molto evidente.
Anche se la realtà è che se le Camere non sono in grado di esercitare la funzione legislativa al di fuori della direzione impressa alla loro attività dal Consiglio dei Ministri, se il Parlamento è un simulacro poiché non esistono le condizioni politiche per poter esprimere la sfiducia al Governo, se la Corte costituzionale va a cena con i destinatari della lettera del Capo dello Stato, allora il Quirinale diventa l’unico organo costituzionale in grado di influenzare le scelte di Palazzo Chigi e, rapidamente, conquista i vuoti di potere lasciati aperti dal venire meno di ogni altro check and balance costituzionale.

La cena dell’astensione

in News / by Gian Luca Conti
02/07/2009

ConsultaLa notizia era sull’Espresso di venerdì passato.
Un giudice della Corte costituzionale organizza una cena, alla quale invita il Presidente del Consiglio dei Ministri, assieme al sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e al ministro della Giustizia, nonché ad un collega.
L’evento diventa oggetto di una interrogazione parlamentare dell’on. Di Pietro e la risposta del ministro Vito diventa una classica bagarre parlamentare.
Lo sfondo è la discussione della costituzionalità del Lodo Alfano, ovvero della legge che stabilisce la (temporanea) immunità delle più alte cariche dello Stato.
L’oggetto della questione è interessante dal punto di vista del diritto costituzionale.
Prima di tutto, dal punto di vista della giustizia costituzionale.
L’art. 51, primo comma, n. 2, c.p.c. stabilisce che non possono svolgere funzioni giurisdizionali coloro che hanno rapporti di commensalità con una delle parti del giudizio.
Questa disposizione si applica al sistema della giustizia amministrativa (in questi termini, Cons. Stato, Ad. Plen., 25 marzo 2009, n. 2).
Il sistema della giustizia amministrativa è il necessario completamento del sistema della giustizia costituzionale per effetto dell’art. 22, primo comma, legge 87 del 1953.
Tuttavia, la Corte costituzionale può adottare delle norme per disciplinare il proprio funzionamento ai sensi dell’art. 22, secondo comma, legge 87 del 1953.
L’art. 29 delle Norme Integrative adottate dalla Corte costituzionale stabilisce che ai giudizi di competenza della Corte costituzionale non si applicano le cause di astensione e di ricusazione previste per gli altri giudizi.
La logica di questa norma è la necessaria astrattezza del processo costituzionale, conseguenza del tono costituzionale delle sue competenze: le cause di astensione e ricusazione presuppongono un coinvolgimento personale dei magistrati che non è ipotizzabile in un giudizio che ha per oggetto l’attuazione della Costituzione.
Fin qui, un manuale di giustizia costituzionale.
Cui si potrebbe aggiungere che la forza gerarchica delle norme integrative è una naturale conseguenza della posizione della Corte costituzionale nel sistema.
Tutto questo rischia di perdere la sua carica assiologica per una cena.
Non perché lasci immaginare che la questione di legittimità costituzionale possa essere oggetto di una cena alla presenza delle consorti.
Ma perché l’indipendenza della magistratura costituzionale è anche lontananza dalla politica e dalle personalità politiche: estraneità alle logiche conviviali che segnano il passo di altre sintesi.
Vi è anche un secondo aspetto che può essere rimarcato: il punto di vista delle convenzioni costituzionali.
Le elezioni parlamentari di Mazzella, Silvestri, Napolitano e Frigo sono state svolte cercando un accordo su personalità che potessero garantire una seria conduzione del proprio ruolo.
Che avessero un colore politico, inevitabile nelle designazioni da parte del Parlamento, ma che garantissero un alto profilo tecnico.
Per questa ragione, sono state elezioni caratterizzate da un vasto consenso trasversale, ben sottolineato all’epoca sia dai presidenti dei due rami del Parlamento che dal Capo dello Stato.
Questa convenzione costituzionale può essere travolta dalla cena di inizio maggio, che invece mostra una organicità sospetta di due giudici rispetto ad una precisa parte politica.
Infine, la cena – o meglio la notizia della cena – può avere un impatto deflagrante sul funzionamento interno della Corte.
Due giudici hanno dimostrato una commensalità che giustificherebbe la loro astensione o una ricusazione, in un giudizio comune.
I colleghi di questi due giudici – gli altri tredici membri della Corte – non avranno difficoltà ad ottenere il loro silenzio nella camera di consiglio che giudicherà del Lodo Alfano: qualunque sia l’opinione che Mazzella manifesterà sarà un’opinione sospetta, targata politicamente dalla convivialità con l’oggetto del processo.
Una Corte nella quale è possibile togliere la parola ad un giudice perché sospetto di parzialità è un giudice pericoloso.

La repubblica dei referendum quindici anni dopo

in News / by Gian Luca Conti
23/06/2009

AstrazioniIl referendum elettorale non ha raggiunto il quorum.
Non è una novità: è dal 1997 che succede.
Sono passati quindici anni dalla stagione referendaria del 1993.
Quando Anna Chimenti definì la crisi del sistema parlamentare come repubblica dei referendum e i costituzionalisti concentravano i loro tomi sui limiti della ammissibilità del ricorso alla democrazia diretta.
Eppure la crisi del sistema parlamentare non è per niente finita.
Il sistema parlamentare si è evoluto in una sorta di regime dell’esecutivo con forti venature plebiscitarie o neocesariste, secondo la definizione di Azzariti (Il Manifesto del 18 giugno).
In questo sistema, il Parlamento si esprime con un voto che non è più sintesi politica, ma, per effetto dell’abnorme ricorso alla fiducia, espressione di un referendum sulla politica governativa.
Come dire: il voto parlamentare ha un senso nei sistemi parlamentari perché riesce a esprimere un indirizzo politico capace di mediare fra maggioranze e opposizioni attraverso una dialettica, fatta di complessi emendamenti e di attente discussioni. Nel momento in cui il Governo presenta al Parlamento testi bloccati dalla fiducia e sui quali l’unico voto possibile è un si o un no, il Parlamento assume un ruolo referendario circa l’indirizzo politico di maggioranza che viene ad essere espresso solo dal Consiglio dei Ministri e dal Capo del Governo, in particolare.
Probabilmente, i tre referendum elettorali sono falliti anche per questo: gli elettori si rendono perfettamente conto che il loro ruolo è ormai del tutto marginale e si riespande, se così si può dire, solo nella competizione politica nazionale, per poi scomparire del tutto.
In questo schema, il referendum popolare è del tutto inutile perché la funzione referendaria è divenuta la principale attribuzione del Parlamento.
Eppure, l’omino di latta bendato con solo la bocca per parlare è una discreta immagine del referendum: al corpo elettorale in una democrazia parlamentare resta solo il referendum per inviare i propri messaggi al sistema della rappresentanza politica.
Rinunciare a questa attribuzione ammantando di inutilità l’istituto attraverso l’astensione non sembra una buona idea.
Soprattutto se il referendum aveva per oggetto una disciplina elettorale più che discutibile e del tutto coerente con il movimento neocesarista che sta lentamente invadendo il tessuto costituzionale.

Berluschini (Il Berlusconi di Ghedini)

in News / by Gian Luca Conti
12/06/2009

Cosimo_IBronzinoEsistono vari Berlusconi.
La personalità di Berlusconi emerge trasfigurandosi nei suoi diversi collaboratori, ognuno dei quali riflette uno degli aspetti del Cavaliere.
Come camerieri che dopo anni di quotidianità prendono i vezzi del padrone che più si adattano al loro carattere.
Berluscondi è il Berlusconi di Bondi: curiale e ipocrita.
Berluschetta, il Berlusconi di Letta: diplomatico e attento.
Berluschini, il Berlusconi di Ghidini: inutilmente e ostentamente bauscia.
Ieri, da Santoro, con Travaglio, in versione particolarmente orticante, Berluschini si è difeso sull’uso dei voli di Stato.
L’argomento è banale: siccome il miliardario ridens investe notevoli denari per la sua carica, ospitando alte cariche di Stato e altri soggetti pubblici, nei suoi possedimenti privati, allora ha diritto di usare a scopo privato beni pubblici.
E’ un argomento caro a Cosimo I Medici: la ragione che gli consentì di trasformare Palazzo della Signoria nella propria residenza personale.
E’ anche intimamente antidemocratico.
In una democrazia il potere deve appartenere al popolo e al popolo devono appartenere anche gli strumenti usati per l’esercizio del potere.
La confusione fra patrimonio personale e patrimonio pubblico è intimamente autoritaria e, di solito, non avvantaggia affatto la cosa pubblica.
Peraltro un bauscia che mira a diventare Cosimo I Medici fa rabbrividire.
Anche se la stampa di Cosimo I non era particolarmente migliore di quella di Berlusconi.

Il diritto al nome

in News / by Gian Luca Conti
14/05/2009

studenti_stranieriNon si parla molto di una frazione normativa del disegno di legge in materia di sicurezza.
E’ una modifica banale.
Diabolicamente trasparente.
All’art. 6, secondo comma, del d.lgs. 281 del 1998.
Eccola:
"Fatta eccezione per i provvedimenti riguardanti attività sportive e ricreative a carattere temporaneo e per quelli inerenti agli atti di stato civile o all’accesso a pubblici servizi, i documenti inerenti al soggiorno di cui all’articolo 5, comma 8, devono essere esibiti agli uffici della pubblica amministrazione ai fini del rilascio di licenze, autorizzazioni, iscrizioni ed altri provvedimenti di interesse dello straniero comunque denominati."
Sono soppresse le parole in corsivo.
Significa che chi non possiede un permesso di soggiorno, non può accedere allo stato civile, sicché non può registrare i propri figli all’anagrafe, dando loro il nome che ha scelto ed il cognome cui hanno diritto.
Dal punto di vista regolamentare, significa anche che questo progetto di legge incide sui diritti di libertà in termini tali da consentire la richiesta di voto segreto ai sensi degli artt. 49 e 51, Reg. Camera.
Ed è questo che il Governo ha voluto impedire con la questione di fiducia.
Inutile osservare che lo scrutinio segreto salvaguarda il libero mandato parlamentare quando si toccano materie (come i diritti fondamentali dell’uomo) nelle quali la disciplina di partito non dovrebbe prevalere sulla libertà di coscienza, perché impedisce ai gruppi parlamentari di conoscere come hanno votato i loro membri.
Inutile osservarlo dal momento che il Presidente del Consiglio ha già avuto modo di dimostrare l’opinione che ha del Parlamento, senza alcuna eco significativa nella opinione pubblica.

Il Pinelli della Calabresi (E viceversa)

in News / by Gian Luca Conti
11/05/2009

gasparazzo
Napolitano ha invitato la vedova di Pinelli a celebrare il giorno della memoria con la vedova di Calabresi.
Un gesto umanamente importante.
Un gesto di riconciliazione.
Molto Mandela.
Anche troppo Mandela.
Voglia di essere polemici e di stigmatizzare la distanza fra i due.
Il primo, vittima innocente, ma proprio innocente, di una finestra dalle parti di via dei Giardini, in una Milano che non esiste più.
Il secondo, commissario integerrimo e vittima di un omicidio molto discusso.
Voglia di segnalare l’ingiustizia della memoria che non fa distinzioni.
Discorso molto Pasoliniano.
Inutile.
Probabilmente, l’aspetto su cui pensare è un altro.
Una equazione che non è certo stata ignorata dal Quirinale.
Celebrare Pinelli nel giorno dedicato alle vittime del terrorismo significa riconoscere che anche lui è stato una vittima del terrorismo.
Che quella finestra della Questura di Milano è stata un’arma terroristica non meno della pistola che ha ucciso Calabresi o della bomba che in Piazza Fontana ha aperto la strategia della tensione.
Dire: "Questo ‘Giorno della Memoria’ offre l’occasione per accomunare nel rispetto e nell’omaggio che è loro dovuto i famigliari di tutte le vittime – come ha detto con nobili parole Gemma Calabresi – di una stagione di odio e di violenza. Rispetto ed omaggio dunque per la figura di un innocente, Giuseppe Pinelli, che fu vittima due volte, prima di pesantissimi infondati sospetti e poi di un’improvvisa, assurda fine" significa ammettere che Pinelli è stato una vittima di Stato.
Che in Italia vi è stato un terrorismo di Stato e che Giuseppe Pinelli ne è stato vittima.
E questo, ad oggi, non era ancora stato detto.
Tanto meno dal Capo dello Stato.

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