Il pubblico ministero di Calamandrei (A proposito di separazione fra le carriere)
I magistrati hanno protestato contro il disegno di legge di revisione costituzionale che renderebbe costituzionalmente necessaria la separazione fra le carriere.
E’ una protesta che deve essere presa sul serio.
Dal punto di vista della protesta, l’idea di separare rigidamente la carriera della magistratura inquirente da quella giudicante sarebbe contraria alla Costituzione.
Non è così: per 101, secondo comma, i giudici sono soggetti soltanto alla legge e, perciò, godono della massima autonomia di cui può godere un funzionario dello Stato. Per 107, quarto comma, il pubblico ministero gode delle garanzie che gli sono garantite dalle norme sull’ordinamento giudiziario, di talché la sua autonomia è l’oggetto di una particolare riserva di legge.
La Corte costituzionale ha applicato questi principi chiarendo in più occasioni che la separazione delle carriere non sarebbe incostituzionale: la disciplina costituzionale in materia di esercizio della funzione giurisdizionale “non contiene alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di una carriera unica o di carriere separate fra i magistrati addetti rispettivamente alle funzioni giudicanti e a quelle requirenti, o che impedisca di limitare o condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni” (Corte cost. 37/2002 e 58/2022).
Di conseguenza, il senso della protesta dovrebbe essere diverso: sarebbe contraria a Costituzione una modifica della stessa che imponga la separazione fra le carriere. Tuttavia affermare che una modifica alla Costituzione sia vietata dalla Costituzione significa ammettere l’esistenza di principi supremi che impongono ulteriori limiti alla revisione costituzionale rispetto a quelli imposti dall’art. 139, Cost. e appare complesso sostenere che la forma repubblicana oggetto del referendum costituzionale del 1946 sia violata nel momento in cui la carriera del pubblico ministero viene separata da quella del giudice.
La verità è che in assemblea costituente si è discusso di separazione delle carriere e che in questo senso era la posizione dell’on.le Leone, relatore in Seconda sottocommissione sull’ordinamento giudiziario, unitamente a Piero Calamandrei: il pubblico ministero avrebbe dovuto essere ricondotto “direttamente al circuito democratico, in quanto espressione della pretesa punitiva dello Stato, e rientrante, dunque, nella sfera d’azione dell’Esecutivo”, trattandosi della figura che funge da “tramite o organo di collegamento fra potere esecutivo e potere giudiziario”. In questa chiave di lettura, il pubblico ministero avrebbe dovuto essere “privato di quelle attuali attribuzioni che lo accostano al potere giudiziario, in funzione di organo del potere esecutivo, come tale alle dipendenze del Ministro della giustizia, in modo da stabilire un […] punto di collegamento con gli altri poteri” (assemblea costituente, Commissione per la costituzione, Seconda sottocommissione, seduta del 5 dicembre 1946).
Sul piano storico, non appare quindi corretto affermare che la scelta per la separazione delle carriere si ponga in contrasto con l’opzione per la forma repubblicana manifestata dal corpo elettorale il 2 giugno 1946 perché se così fosse, l’assemblea costituente non avrebbe neppure prendere in esame questa opzione nei suoi lavori.
La questione, quindi, è di carattere eminentemente politico e, in questo senso, la protesta dei magistrati deve essere presa sul serio perché il suo vero significato dovrebbe essere quello di richiamare il circuito Parlamento – governo a una maggiore attenzione per i principi costituzionali di cui l’ordinamento giudiziario deve essere il corretto svolgimento.
Il primo di questi principi è sicuramente l’eguaglianza di tutti i cittadini dinanzi alla legge e rispetto a questo principio l’obbligatorietà dell’azione penale si pone come inevitabile: se siamo tutti eguali dinanzi alla legge, non è immaginabile che due persone possano commettere lo stesso fatto e l’una sia indagata mentre l’altra sfugga alle maglie della giustizia, non perché è riuscita a farla franca ma perché il suo fascicolo langue sulla scrivania di un pubblico ministero per tutto il tempo necessario alla prescrizione o non sia oggetto della stessa intelligenza investigativa che invece il primo ha visto dispiegarsi. Lo ebbe a sostenere con la sua estrema chiarezza di pensiero Calamadrei nella lezione inaugurale dell’anno accademico all’Università di Siena, il 13 novembre 1921 (P. Calamandrei, Governo e magistratura, in Opere giuridiche, a cura di Mauro Cappelletti, vol. II, Morano, Napoli, 1966, 195 ss., part. 202): “affermare da una parte che la legge è eguale per tutti e dall’altra lasciare al potere esecutivo la possibilità di farla osservare soltanto nei casi in cui non dispiace al partito che è al governo, è tale un controsenso ,che non importa spendervi su molte parole”.
Quindi ci si deve chiedere se il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale sia meglio servito da una carriera unica o da due carriere separate fra di loro.
Quello che importa, qui, però, non è la separazione delle carriere ma la certezza che la decisione sull’esercizio dell’azione penale sia presa da un magistrato preoccupato unicamente dalla necessità di proteggere il corpo sociale dai comportamenti antisociali vuoi perché come scriveva Calamandrei alieno da qualsiasi ingerenza politica (“è ben vero che il pubblico ministero in base al principio di legalità dovrebbe ritenersi indipendente dal Ministro rispetto ad ogni obbligo funzionale impostogli dalla legge e che il Ministro, in ossequio al principio medesimo, non ha facoltà di ordinare al P.M. di non procedere nel caso concreto, né di arrestare o ritardare l’azione penale una volta promossa, ma ciò che si insegna a scuola è ben diverso da quello che accade nella concreta realtà. Infatti gli uomini politici si guardano bene dal dare ordini in materia giudiziaria ma preferiscono dolcemente suggerire di ritardare o sospendere e il P.M. sa di non godere della garanzia di inamovibilità riservata ai magistrati giudicanti”, ivi, 203), vuoi perché affatto disinteressato alle conseguenze dell’esercizio dell’azione penale perché assolutamente indifferente al tribunale dell’opinione pubblica.
Il secondo di questi principi è nell’art. 27, per il quale la pena deve avere una funzione rieducativa per il condannato: la funzione rieducativa della pena è il vero fondamento della obbligatorietà dell’azione penale nel senso che questi due principi si compongono in uno schema nel quale l’azione penale deve essere esercitata perché il reato che è stato commesso impone di rieducare il colpevole, di talché l’unico caso in cui si può non esercitare l’azione penale è quello in cui la pena non avrebbe una funzione rieducativa, ovvero in cui la condanna determinerebbe un lack of justice, secondo l’espressione che è tipica della common law per indicare quando la condanna sarebbe profondamente ingiusta malgrado la colpevolezza sia palese (il padre che aiuta il figlio a suicidarsi dopo che questi ha tentato di farlo più volte senza riuscirci a causa della propria malattia è sicuramente colpevole ma non ha senso rieducarlo).
Anche la valorizzazione di questo principio postula una funzione giurisdizionale del tutto indifferente rispetto al tribunale della opinione pubblica.
La discussione sulla separazione delle carriere, secondo queste minime note, sul piano costituzionale è del tutto legittima e, forse, dovrebbe muovere dalla constatazione che il pubblico ministero cui pensava l’assemblea costituente era il pubblico ministero che guidava l’azione penale in un sistema inquisitorio che non esiste più e che l’indipendenza della magistratura deve essere intesa sia come indipendenza dal potere politico, secondo l’impostazione classica, ma anche come indipendenza dal tribunale della opinione pubblica, ovvero come capacità del potere giudiziario di esercitare le proprie funzioni con un’autorevolezza sufficiente a impedire a chiunque di pensare che quella azione penale trovasse delle giustificazioni estranee al principio di rieducazione che si è cercato di valorizzare.
La protesta dei magistrati contro il disegno di legge in discussione da parte delle assemblee parlamentari non è esattamente coerente con questi principi: da una parte, interpreta la Costituzione in termini assai discutibili. Dall’altra parte, si rivolge direttamente al tribunale dell’opinione pubblica ovvero proprio al soggetto con cui la magistratura non dovrebbe avere mai niente a che fare.