Miopi battiti di farfalla (A proposito della incandidabilità di Berlusconi)
Il tema della incandidabilità di Berlusconi non si presta a un giudizio sereno.
Si presta a un giudizio dannatamente politico: non sono le disposizioni costituzionali, e neppure quelli che si sviluppano sulla capacità elettorale, che aiutano a risolvere la questione. E’ una questione di pancia che si risolve con lo stomaco (o l’intestino).
Ma siccome ci siamo dati, in qualche modo, una Costituzione, siccome l’abbiamo cambiata solo 15 volte e, forse, tutte le volte peggiorata, qualche riflessione di diritto costituzionale bisogna provare a stenderla.
Con calma e senza fretta.
La prima questione riguarda la logica della incandidabilità. E’ una logica sicuramente abbastanza oscura, che nasce in ambito locale (cfr. gli artt. 55, 56 e 58 del d.P.R. 18 agosto 2000, n. 267, che hanno consolidato l’art. 15 della l. 19 marzo 1990, n. 55, recante «Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale», successivamente modificato dalla l. 18 gennaio 1992, n. 16, recante «Norme in materia di elezioni e nomine presso le regioni e gli enti locali» e dalla l. 28 maggio 2004, n. 140 «Conversione in legge, con modificazioni, del d.l. 29 marzo 2004, n. 80, recante disposizioni urgenti in materia di enti locali. Proroga di termini di deleghe legislative») per assicurare che alcuni amministratori, tipicamente quelli accusati di aver dato vita alle infiltrazioni mafiose che poi avevano condotto allo scioglimento della loro amministrazione, non potessero essere candidati. Secondo questa logica, la incandidabilità serve ad escludere che talune persone possano inquinare con la loro presenza lo svolgimento delle elezioni.
E’ una logica diversa sia da quella tipica della ineleggibilità, che ha a che fare con la libertà di voto, perché mira a impedire che persone in grado di influenzare gli elettori possano partecipare alle elezioni, sia con quella della incompatibilità, che serve a far sì che il libero mandato parlamentare possa essere correttamente svolto, perché impedisce che il rappresentante possa ricoprire anche incarichi che si frapporrebbero fra lui e la nazione che è chiamato a rappresentare “senza alcun vincolo di mandato” (vedi T. Martines, In tema di ineleggibilità e di incompatibilità parlamentari, in Annali seminario giuridico dell’Università di Catania, III (1948-1949), Napoli 1949, 478 ss., spec. 487 ss.; L. Galateria, Sui caratteri distintivi tra ineleggibilità ed incompatibilità nel diritto amministrativo, in Scritti giuridici in memoria di V.E. Orlando, vol. I, Padova 1957, 623 s.; V. Messerini, Eleggibilità e sistema democratico. Le limitazioni alle scelte dei rappresentanti del corpo elettorale nel Parlamento e nei Consigli regionali, provinciali, comunali, Milano 1983, 177 s.; G.E. Vigevani, Stato democratico ed eleggibilità, Milano 2001, 151 ss.; A. Pertici, Il conflitto di interessi, Torino 2002, 145 s.).
Qui, si ha piuttosto di mira il rapporto fra elettori e elezioni, traguardando una pulizia elettorale che dovrebbe assicurare la pulizia delle istituzioni (più o meno in questi termini, G. M. Flick,Mafia e imprese vent’anni dopo Capaci, via D’Amelio, Mani pulite. Dai progressi nella lotta al crimine organizzato, ai passi indietro nel contrasto alla criminalità economica e alla corruzione, in Rivista delle Societa’ 2013, pag. 505, fasc. 2-3: Per la prima volta — seguendo quelle indicazioni e (vorrei dire) facendo tesoro dell’esperienza di buon senso maturata dopo il fallimento di Mani pulite — si prendono in considerazione l’organizzazione, la struttura e la funzionalità della amministrazione, in una prospettiva di prevenzione organica del rischio di corruzione).
In altre parole, oggi, non può essere candidato chi potrebbe influenzare il voto degli elettori, e perciò è ineleggibile, chi non potrebbe essere considerato libero nello svolgimento del mandato parlamentare, e perciò è incompatibile, chi con la sua presenza turberebbe il prestigio dell’organo e perciò è incandidabile.
Un tanto è corretto dal punto di vista costituzionale?
Probabilmente, si se e nella misura in cui colui che partecipa alle elezioni sa di non poter essere candidato perché incandidabile, ma è molto più complicato da sostenere nel caso in cui chi ha partecipato alle elezioni sapeva di poter diventare incandidabile, sapeva di poter essere condannato, ma si riteneva innocente.
Difatti, la disciplina sulla incandidabilità non si può spingere fino a escludere anche chi ancora non è stato condannato perché altrimenti cozzerebbe con la presunzione di innocenza, ma se non si può spingere fino a questo punto, è inevitabile che colui che si ritiene innocente si possa presentare alle elezioni ed essere eletto.
In questo caso, che è il caso in discussione oggi, il vero problema non è il sopraggiungere della incandidabilità (che assomiglia molto a un caso di ineleggibilità sopravvenuta), quanto il rapporto che si viene a stabilire fra la politica e il processo che determinerà la incompatibilità. In questo processo, infatti, non si discute semplicemente della colpevolezza o meno, della innocenza o meno, forse si dovrebbe dire, dell’imputato, ma del risultato elettorale e questo colora, non può non colorare, in termini politici un giudizio che dovrebbe essere formulato, sia nella sostanza che nell’apparenza, esclusivamente nell’interesse della legge.
Questo è il primo punto: la vera frizione della incandidabilità non riguarda tanto la politica, o i suoi rappresentanti, nel cui interesse è stata elaborata, quanto piuttosto la magistratura che viene indebolita da un giudizio che finisce per apparire politico, poiché non si discute solamente di una frode fiscale, ma soprattutto della permanenza di un senatore e, addirittura, della sopravvivenza di un governo.
La seconda questione riguarda il momento in cui scatta l’incandidabilità e il modo in cui la stessa è prevista.
Si è detto che l’incandidabilità scatta dopo la condanna, o meglio dopo il passaggio in giudicato della condanna stessa.
Si deve aggiungere che il “giudice” della incandidabilità è il Parlamento, o meglio il ramo del Parlamento cui appartiene il parlamentare divenuto incandidabile.
Da sempre la dottrina ondeggia fra chi ritiene che le giunte per le elezioni di Camera e Senato in sede di verifica dei poteri esercitino poteri giurisdizionali (P. Virga, La verifica dei poteri, Palermo 1949, 20 s.; M. Mazziotti, Osservazioni sulla natura dei rapporti tra le Giunte delle elezioni e la Camera dei deputati, in questa Rivista 1958, 428 ss., spec. 438; L. Elia, voce Elezioni politiche (contenzioso), in Enc. dir., XIV, Milano 1965, 782 ss.), chi individua il proprium del loro giudizio in un’attività politica (A.M. Sandulli, Spunti problematici in tema di autonomia degli organi costituzionali e di giustizia domestica nei confronti del loro personale, in Giur. it. 1977, parte I, sez. I, col. 1836 s.; V. Lippolis, Art. 66, in Commentario della Costituzione, a cura di G. Branca, Le Camere, tomo II, Bologna-Roma 1986, 173 s.; nonché, più di recente, M. Cerase, Art. 66, in Commentario alla Costituzione, a cura di R. Bifulco, A. Celotto, M. Olivetti, vol. II, Torino, 2005, 1283) e chi dice che il procedimento segue uno schema giurisdizionale, ma la sostanza del giudizio è politica (A. Manzella, Il parlamento, III ed., Bologna 2003, 233).
In realtà, se è il Parlamento che giudica e se giudica attraverso un voto, è inevitabile ritenere che la sostanza del giudizio sia politica, anche perché non vi è nessuno che possa ribaltare l’opinione del Parlamento circa la convalida o meno dell’elezione di un suo membro.
A questo proposito, basta ricordare la vicenda del revirement sulla trasformazione delle cause di ineleggibilità sopravvenute in cause di incompatibilità sopraggiunte per dimostrare la natura essenzialmente politica del giudizio del Parlamento (vedi G. Rivosecchi, La Corte costituzionale garante della isonomia democratica e la resistenza del Parlamento sul cumulo dei mandati elettivi, in Giur. cost. 2011, 3805), ma anche il modo con cui la giunta delle elezioni del Senato ha resistito alla stessa Corte costituzionale proprio in materia di ineleggibilità sopravvenuta.
Di conseguenza, il giudizio del Parlamento è un giudizio politico, ovvero un giudizio che può prescindere dalla logica della trasformazione di una volontà astratta di legge in volontà concreta di legge per mezzo del sillogisma, un giudizio in cui l’interpretazione della legge si confonde con logiche di parte, un giudizio che altrimenti dovrebbe appartenere alla magistratura, come osservava sul Corsera di oggi (19 agosto 2013) Capotosti.
In questo giudizio, non può non pesare l’affermazione di Berlusconi per cui se la sua incandidabilità dovesse essere dichiarata allora salterebbe il Governo. E’ un giudizio assurdo in una logica giuridica, ma un giudizio assolutamente plausibile all’interno della logica politica.
Qui sta la seconda osservazione: è grave che il Parlamento si trovi a dover esprimere una valutazione politica in una materia che dovrebbe essere risolta con un sillogisma giuridico. E’ grave perché indebolisce l’autorità della legge, che non esce bene nel momento in cui la stessa autorità che l’ha posta la viola, più o meno apertamente, più o meno palesemente.
Non sembra un caso che i costituenti avessero affidato il difficile compito di raccordare la politica alla giustizia penale con l’istituto dell’autorizzazione a procedere. L’autorizzazione a procedere aveva un grandissimo vantaggio: risolveva il conflitto nel momento in cui non si era ancora cristallizzato con una sentenza passata in giudicato, quando ancora era in pieno vigore la presunzione di innocenza.
Era un privilegio, ma un privilegio che andava a favore di un cittadino innocente.
In questo caso, invece, la convalida dell’elezione sarebbe un privilegio per un cittadino colpito da una sentenza passata in giudicato e questo, davvero, suona malissimo.
Sotto questo aspetto, ha ragione Mangia quando osserva che una cosa è l’incandidabilità, un’altra molto diversa l’incandidabilità sopravvenuta, che pone problemi assolutamente diversi.
Queste due osservazioni spingono a ritenere che la disciplina sulla incandidabilità sopravvenuta sia profondamente irrazionale sotto due diversi aspetti: da una parte, perché spinge il magistrato a decidere sapendo che dalla sua decisione deriveranno delle conseguenze politiche potenzialmente molto rilevanti e dall’altra perché costringe il Parlamento a utilizzare dei propri poteri senza alcuna libertà politica o ad ammettere che la legge può non essere rispettata, che la legge può non valere per i parlamentari.
Entrambi gli aspetti sono estremamente gravi e non sarebbe difficile risolverli se la incandidabilità riguardasse solo le condanne passate in giudicato nel momento della competizione elettorale, quelle condanne che il candidato conosce e che sa essere di ostacolo alla propria elezione.
Ma non è così, sicuramente non è così e allora si aprono degli scenari che fanno tremare le vene ai polsi, perché il Senato sa che se confermasse l’incandidabilità si potrebbe andare a elezioni anticipate. Il Presidente della Repubblica sa che le elezioni anticipate sono uno scenario che deve essere evitato, anche solo perché l’incandidabile si farebbe eleggere di nuovo e tutto questo conduce al più naturale dei trasformismi, a un secondo governo Letta con il sostegno dei “responsabili” del PdL e del Cinque Stelle, con tutto ciò che ne consegue.
E allora?
Allora, forse, il Parlamento dovrebbe trovare la maggioranza dei due terzi per una amnistia, una amnistia che abbia esattamente lo stesso ambito di applicazione dei capi di accusa per cui Berlusconi è stato condannato, perché se la grazia non avrebbe nessun senso, non sarebbe un atto di clemenza ma una concessione politica che non apparterrebbe al magistero del Capo dello Stato, così non sarebbe per una legge votata dai due terzi dei parlamentari. In questa legge, non vi sarebbe clemenza, ma solo la volontà di cambiare definitivamente pagina, di eliminare la questione giudiziaria dalla politica, di far sì che Berlusconi possa svolgere liberamente il suo mandato, che comunque è un mandato elettorale, che comunque incarna una maggioranza di elettori tutt’altro che irrilevante.
Sarebbe un gesto coraggioso.
Forse troppo.
Forse l’unico possibile per uscire da un dannato cul de sac.