Il semestre nero va verso l’uomo del destino?
1 – La crisi preparlamentare si sta avviando a un esito insolito.
Insolite sono state le consultazioni.
Inusuale la prima dichiarazione al termine del primo giro di consultazioni (21 marzo 2013: Sono qui per salutarvi e ringraziarvi dell’impegno. Abbiamo lavorato: voi, modestamente anche io. E, come facilmente potete intendere, io ho ora da riordinare gli appunti e le idee per vedere quali decisioni prendere. Domani presenterò e motiverò le mie decisioni. Intanto vi ringrazio), che, nella sostanza, pare sottolineare il fatto che le consultazioni svolte non determinavano alcun esito necessario, ovvero che non era possibile individuare un candidato alla carica di presidente del consiglio in grado di ottenere la fiducia nei due rami del Parlamento.
In particolare, con questa dichiarazione, il Capo dello Stato pare avere rivendicato la centralità del proprio ruolo nella individuazione del soggetto cui affidare l’incarico di formare un nuovo governo.
La centralità del Capo dello Stato discende direttamente dall’assenza di una coalizione vittoriosa in entrambi i rami del Parlamento e, nello stesso tempo, dall’assenza di un accordo di coalizione formato in un momento successivo alla elezione.
Altrettanto inusuale la seconda dichiarazione, in occasione dell’incarico esplorativo (o meglio del pre-incarico) conferito all’on. Bersani. In questa occasione, il Capo dello Stato ha sottolineato la natura preliminare dell’incarico (verificare l’esistenza di un sostegno parlamentare certo, tale da consentire la formazione di un governo che ai sensi del 1° comma dell’art. 94 della Costituzione abbia la fiducia delle due Camere. Egli mi riferirà, sull’esito della verifica compiuta, appena possibile), il fatto che lo stesso fosse consentito da non lontani e autorevoli precedenti (l’incarico a Prodi, il 14 ottobre 1998, che si caratterizzò per le parole molto simili utilizzate da Scalfaro), la citazione di Enzo Cheli a proposito della disciplina costituzionale in materia di formazione del Governo, quasi a sottolineare che le riforme elettorali non hanno intaccato il disegno della Costituzione sul punto, il fatto che Bersani non era legittimato unicamente dal voto ma anche dal metodo utilizzato dalla coalizione di centrosinistra per scegliere il proprio leader.
Soprattutto, però, in questa dichiarazione risuona il principio della estraneità del Capo dello Stato rispetto alle scelte programmatiche del futuro governo (non tocca certo a me vagliare piattaforme programmatiche, su cui dovranno pronunciarsi partiti e gruppi parlamentari nelle prossime discussioni finalizzate alla formazione del governo), estraneità che non impedisce un richiamo alla necessità di larghe intese per quelle scelte che sono destinate a incidere sugli equilibri del sistema politico istituzionale.
Il 22 marzo, Bersani ha avviato il suo giro di consultazioni, che potrebbe essere ricordato per il tam tam ironico che lo ha commentato sulla rete, e, il 28 marzo, ha riferito di non essere in grado di formare un nuovo governo. Il Presidente della Repubblica ne ha preso atto, riservandosi di prendere senza indugio iniziative che gli consentano di accertare personalmente gli sviluppi possibili del quadro politico-istituzionale.
In questo comunicato, si deve osservare che Napolitano ha ritenuto di procedere “personalmente” ad accertare i possibili sviluppi del “quadro politico-istituzionale”. Vi è molto in questa laconica stringatezza. Vi è prima di tutto l’affermazione del principio per cui il fallimento del pre-incarico rende il Capo dello Stato responsabile “personalmente”, non tanto per la formazione di un nuovo governo, quanto per l’individuazione di un percorso politico-istituzionale in grado di risolvere la necessità di stabilità istituzionale ed economica.
In altre parole, se nel comunicato stampa del 22 marzo, il pre-incarico era giustificato con la necessità di dare al Paese un nuovo governo “al più presto”, espressione ripetuta per due volte, perché L’essenziale è mostrare a noi stessi, all’Europa e alla comunità internazionale quanto apprezziamo e coltiviamo il valore della stabilità istituzionale, non minore di quello della stabilità finanziaria : da entrambi dipende il grado di affidabilità del nostro paese, il fallimento del pre-incarico impone al Capo dello Stato di adottare “personalmente” le iniziative necessarie per assicurare il valore della stabilità istituzionale in assenza di un nuovo governo percorrendo vie politiche e, soprattutto, istituzionali diverse da quelle ordinarie.
E’ la rivendicazione di un potere di emergenza giustificato dalla necessità di assicurare stabilità in assenza dello strumento ordinariamente diretto a questo scopo.
Ma ci si deve chiedere se il valore della stabilità possa essere perseguito in via di emergenza. In fondo, l’emergenza, il procedere per emergenze, è esattamente il contrario della stabilità che presuppone la capacità di tutti gli attori a farsi carico dei propri compiti. Se questa disponibilità o capacità manca, sembra dire Napolitano, il Capo dello Stato può intervenire escogitando vie diverse.
Il 30 marzo 2013, il Presidente della Repubblica ha comunicato di non essere in grado di procedere oltre nella formazione di un nuovo governo. Di conseguenza, ha confermato l’operatività del governo in carica (non può sfuggire agli italiani e all’opinione internazionale che un elemento di concreta certezza nell’attuale situazione del nostro paese è rappresentato dalla operatività del governo tuttora in carica, benché dimissionario e peraltro non sfiduciato dal Parlamento : esso ha annunciato e sta per adottare provvedimenti urgenti per l’economia, d’intesa con le istituzioni europee e con l’essenziale contributo del nuovo Parlamento attraverso i lavori della Commissione speciale presieduta dall’on. Giorgetti) e nello stesso tempo ha chiesto a due gruppi ristretti di aiutarlo a concorrere almeno a creare condizioni più favorevoli allo scopo di sbloccare una situazione politica irrigidita tra posizioni inconciliabili, attraverso l’individuazione di una piattaforma condivisa su temi istituzionali e a carattere economico sociale, un materiale che viene definito utile anche per il prossimo Capo dello Stato.
E’ interessante osservare che il Capo dello Stato ha, sostanzialmente, giustificato la propria scelta di non procedere oltre nella ricerca della persona cui affidare l’incarico di formare un nuovo governo con l’impossibilità di sciogliere le Camere, ovvero ha affermato, implicitamente ma chiaramente, che in questa situazione, se non gli fosse precluso dalla Costituzione, le Camere dovrebbero essere sciolte.
Il mandato affidato ai due gruppi è stato successivamente chiarito nel comunicato del 2 aprile 2013, al termine della prima riunione dei due gruppi, che si è tenuta al Quirinale: è importante osservare che i due gruppi si sono riuniti al Quirinale, essi agiscono come consulenti del Capo dello Stato e hanno come scopo quello di fornire al Presidente della Repubblica “materiale utile” per la formalizzazione di un incarico, di conseguenza sono destinati a durare non più della residua durata in carica di Napolitano e la loro attività non può e non deve interferire con quella del Parlamento.
Ma ci si deve chiedere se un comitato di saggi interno al Quirinale abbia la possibilità di concorrere a risolvere l’emergenza posta dal valore della stabilità istituzionale. Si può rispondere di no, sono dei gruppi di persone che hanno come unico scopo quello di offrire al Capo dello Stato un approccio alle parti politiche della crisi che si avvalga di un plusvalore di legittimazione politica derivante dal fatto che la proposta che il Capo dello Stato dovrà andare a formulare sarà particolarmente persuasiva perché confortata del parere favorevole di dieci personalità illustri…
Il resto, sul piano della cronaca, deve essere ancora scritto.
2 – La sostanza dal punto di vista costituzionale, forse, è molto più complicata.
Il Quirinale ha terminato il suo secondo giro di consultazioni prendendo atto che non vi era alcuna maggioranza per formare il governo della Repubblica e che, perciò, non era opportuno conferire un incarico.
Ha preferito costituire un comitato di saggi con il compito di individuare i possibili punti di convergenza fra le forze politiche.
Nello stesso tempo, ha ricordato che il governo Monti è ancora in carica e che il suo lavoro è pienamente legittimo (non può sfuggire agli italiani e all’opinione internazionale che un elemento di concreta certezza nell’attuale situazione del nostro paese è rappresentato dalla operatività del governo tuttora in carica, benché dimissionario e peraltro non sfiduciato dal Parlamento, nelle parole del comunicato stampa datato 30 marzo 2013).
Sulla base di queste premesse, il Capo dello Stato ha rinunciato:
(a) a sciogliere anticipatamente le Camere (Questa questione non mi interessa. Io sono Presidente della Repubblica in pieno semestre bianco che è ritornato operante dopo la elezione del nuovo Parlamento. Quindi, non mi occupo di problemi che non posso risolvere oggi nelle mie funzioni, in risposta a una domanda che chiedeva se non fosse preferibile andare a nuove elezioni nel mese di ottobre, nello stesso comunicato stampa);
(b) a formare un nuovo governo (pur essendo ormai assai limitate le mie possibilità di ulteriore iniziativa sul tema della formazione del governo, posso fino all’ultimo giorno concorrere almeno a creare condizioni più favorevoli allo scopo di sbloccare una situazione politica irrigidita tra posizioni inconciliabili, ivi).
Sulla base di queste premesse, molte cose possono non essere chiare.
La prima è il Presidente della Repubblica, se non procede allo scioglimento anticipato delle Camere, può rinunciare a cercare un governo per il paese?
No. La Costituzione non tollera un governo privo di fiducia se non per il tempo di giungere a nuove elezioni o di formare un nuovo governo.
La seconda è il Presidente della Repubblica che riconosce piena legittimazione a un governo privo della fiducia delle Camere può affiancarlo con un comitato di saggi?
Si può rispondere che, in realtà, il Presidente della Repubblica non ha inteso affiancare i saggi al governo in carica, ma li ha affiancati a se stesso (sono stati nominati da lui, si incontrano a casa sua e il loro mandato dura quanto quello del Capo dello Stato).
Ma non è una risposta sufficiente: i saggi sono chiamati a dare una risposta programmatica alla crisi istituzionale e alla crisi economica e sociale. La loro risposta non può interferire con l’attività parlamentare. Tuttavia, in questo momento, l’assenza strutturale della fiducia fra Parlamento e governo fa sì che il Parlamento non sia in grado di interferire con il governo, mentre invece il governo risponde inevitabilmente al Capo dello Stato, perché se non è sorretto dalla fiducia delle Camere è sorretto esclusivamente dall’autorità di un decreto di nomina che, in questo caso, è particolarmente forte siccome voluto (fortissimamente voluto) dal Capo dello Stato in risposta alle tensioni finanziarie che hanno caratterizzato gli ultimi mesi di governo del precedente premier. Se è così, questo governo si giustifica per effetto della sua polarizzazione sul disbrigo degli affari che non tollerano dilazione perché di necessaria e immediata soluzione per effetto dell’emergenza economica e sociale, ma anche della necessaria coesione del sistema nazionale dinanzi alle istituzioni eurounitarie. Ma sono esattamente questi i problemi su cui devono pronunciarsi i saggi designati dal Quirinale, che perciò, solo apparentemente, non sono chiamati a interferire con il governo, nella realtà dei fatti sono destinati a concedere al governo una legittimazione che altrimenti non avrebbe.
I saggi non sono tanto necessari per generare del materiale utile alla soluzione della crisi di governo, quanto piuttosto per coadiuvare il Presidente della Repubblica nella formulazione di un indirizzo politico che non gli dovrebbe appartenere e che, attraverso di loro, viene ammantato di una legittimazione pluralista che il carattere monocratico della carica presidenziale impedisce.
Niente di diverso da un consiglio di Stato nelle monarchie parlamentari, ovvero in quei sistemi politici che non conoscevano ancora la fiducia.
Il venire meno del rapporto di fiducia, in assenza del potere di scioglimento anticipato, rafforza talmente i poteri del Capo dello Stato da modificare la forma di governo in senso statutario e la sensibilità del Capo dello Stato ricorre alla formazione di un irrituale consiglio di Stato, ovvero di quell’organismo cui Kelsen affidava il compito di alleggerire la strutturalmente insostenibile solitudine di un sovrano assoluto.
Sotto questo aspetto, l’unica cosa buona è che una simile torsione è destinata a durare poco, purché le Camere riescano a eleggere in tempi rapidi il nuovo Capo dello Stato.
3 – Molto si è scritto su quello che può fare e quello che non può fare il governo in assenza della fiducia.
Si può non condividere la posizione di chi considera questa situazione intollerabile.
E’ naturale che il governo che guida il paese verso le nuove elezioni nel caso di scioglimento anticipato delle Camere non abbia la fiducia delle Camere e questo è accaduto davvero molte volte nella storia repubblicana.
Si può discutere sulla ragionevolezza di chi considera gli affari correnti solo quelli che non hanno nulla a che vedere con la straordinaria amministrazione ovvero di chi li considera tali solo nel caso in cui non tollerino dilazioni.
Ma un governo senza fiducia può imporre nuove tasse? O può decidere se due soldati italiani accusati in un paese straniero devono subire il processo, scegliendo fra la loro “salvezza” e la salvezza del proprio ambasciatore? Può negoziare le raccomandazioni nell’ambito delle procedure di sorveglianza imposte dal patto di stabilità e crescita? A che categoria appartengono questi singoli atti?
La verità, probabilmente, è che distinguere fra affari correnti e affari urgenti è quasi impossibile e che, così come accade nel diritto comune delle società, l’organo amministrativo dimissionario può quasi tutto, ovvero può tutto ciò che poi l’assemblea non ritiene di censurare attivando l’azione di responsabilità.
Il problema è che l’azione di responsabilità, il voto di sfiducia, manca strutturalmente e, in assenza di rimedi, il governo in carica senza fiducia è per tutto ciò che non abbisogna della collaborazione del Parlamento straordinariamente libero, mentre ogni volta che ha bisogno della collaborazione del Parlamento – come nel caso in cui presenti un disegno di legge – costretto a negoziare una posizione che possa essere considerata condivisibile.
Il che, appunto, può avvenire anche grazie ai saggi di Napolitano, perché il loro compito sembra quello di consentire al governo di presentarsi al Parlamento con una chance di vittoria in più, chiedendo di confermare delle scelte che non sono state giudicate ragionevoli soltanto da un’esperienza politica irrimediabilmente sconfitta dalle urne, ma anche da un comitato costituito con il compito di individuare soluzioni condivisibili ad ampio spettro.
In fondo, il Parlamento si conquista la possibilità di mandare a casa un governo solo nel momento in cui dimostra la capacità di formarne uno: se il Parlamento non è in grado di formare un governo, non è nemmeno in grado di sostituire quello esistente.
Sembra di assistere a un processo storico simile a quello che ha segnato la nascita della fiducia parlamentare. Allora, il Parlamento ha conquistato il voto di fiducia perché è riuscito a vincere le resistenze di Vittorio Emanuele II, con la propria forza di condizionamento politico. Oggi, il Parlamento, non riuscendo a trovare nessuna maggioranza, sta rinunciando alla fiducia e ridando vita, sia pure per pochi istanti – si spera – a una sorta di “monarchia” costituzionale, caratterizzata dalla reciproca impermeabilità di governo e assemblea: la repubblica del semestre nero assomiglia molto a forme di governo che si credevano scomparse per sempre dalla nostra esperienza.
4 – Meno si è scritto, invece, di cosa deve fare il Parlamento.
Il Parlamento si è dato la presidenza di assemblea e ha saputo costruire gli uffici di presidenza.
Poco altro.
Al Senato, è stata costituita la commissione speciale per l’esame dei disegni di legge di conversione dei decreti legge ai sensi dell’art. 24, reg. sen., la giunta per il regolamento e la giunta provvisoria per la verifica dei poteri.
Alla Camera, è stata costituita la giunta per il regolamento e il collegio dei questori.
Mancano in entrambe le Camere le commissioni permanenti.
Per quanto riguarda il Senato, l’art. 17 stabilisce: Il Presidente, non appena costituiti i Gruppi parlamentari, nomina i componenti della Giunta per il Regolamento, della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari e della Commissione per la biblioteca e per l’archivio storico, dandone comunicazione al Senato.
I gruppi parlamentari si sono costituiti il 19 marzo 2013. Tuttavia il Presidente del Senato non ha ancora provveduto alla costituzione né della giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari né della commissione per la biblioteca e per l’archivio storico.
Sempre al Senato, l’art. 21 prevede che ciascun gruppo, entro cinque giorni dalla sua costituzione, debba indicare i propri membri nelle singole commissioni permanenti, “in ragione di uno ogni tredici iscritti”.
19 marzo più cinque giorni fa 24 marzo, ma, a oggi, le commissioni non risultano ancora costituite.
Per quanto riguarda, la Camera la situazione non è migliore.
Risulta costituita la Giunta per il regolamento e il Collegio dei questori, ma non anche il Comitato per la legislazione (art. 16 bis, i suoi membri sono scelti dal presidente della camera in modo da rispettare la parità fra maggioranza e opposizioni), non è stata costituita la Giunta delle elezioni (art. 17), né la Giunta per le autorizzazioni a procedere (art. 18), tutti organi che devono essere costituiti dal presidente della Camera.
Tantomeno, ovviamente, sono state costituite le commissioni permanenti, che, anche in questo caso, dipendono da una designazione dei gruppi di appartenenza alla presidenza d’assemblea.
Tutto questo significa che, sostanzialmente, il Parlamento sta funzionando solo come assemblea e si è privato, almeno per ora, sia delle giunte delle elezioni e delle autorizzazioni a procedere che delle commissioni permanenti, nonché delle ulteriori articolazioni che si sono richiamate.
Si dice che questi adempimenti non sono stati possibili perché mancando un governo manca una maggioranza (quella che sostiene il governo) e una minoranza (quella che non sostiene il governo).
Ovviamente non è una spiegazione ragionevole.
Prima di tutto, perché l’espressione maggioranza in Parlamento non è necessariamente agganciata al concetto di maggioranza di governo: le commissioni devono rispettare i gruppi parlamentari e i gruppi parlamentari esistono, mentre per le giunte e le altre istituzioni che devono essere costruite in termini tali da rispettare maggioranza e minoranze, penso essenzialmente alla presidenza di Copasir e della Commissione di vigilanza sulla RAI, ciascuna camera è in grado di esprimere al suo interno una sua maggioranza e il fatto che questa maggioranza sia diversa da quella esistente nell’altra camera non impedisce la formazione dell’organo.
Ma il vero punto è un altro: il Parlamento non può funzionare solo come assemblea: le commissioni svolgono un ruolo delicatissimo nella formazione delle leggi e hanno un compito per nulla irrilevante per quanto riguarda l’esercizio della funzione ispettiva e di controllo sull’attività del governo.
Di conseguenza, il Parlamento che non si istituisce in commissioni, che non si dà l’articolazione che è necessaria al suo funzionamento è un Parlamento che rinuncia a funzionare regolarmente.
Forse, in questa strana crisi pre-parlamentare, è proprio questo l’aspetto che preoccupa maggiormente.
Il Parlamento continua a pensare se stesso come se esistesse in funzione della fiducia e del dialogo fra maggioranza e minoranza che sorge dalla votazione sulla mozione di fiducia, ma il Parlamento esiste oltre la questione di fiducia e ha l’obbligo di strutturarsi in maniera tale da poter funzionare anche se le due Camere non sono in grado di esprimere un voto conforme sulla fiducia da dare al governo.
5 – La crisi pre-parlamentare, si è detto, si sta avviando a un esito insolito.
E’ insolito perché vede un Capo dello Stato che rinuncia alla ricerca di un nuovo governo, preferendo affidarsi a un consiglio di Stato, come un antico monarca assoluto nelle pagine di Kelsen.
Ma anche perché questo consiglio di Stato finisce per modificare gli equilibri istituzionali ben al di là del modestissimo compito che apparentemente gli è stato assegnato.
E perché il governo non è in carica per il disbrigo degli affari correnti, è in carica per dare una impronta di solidità e continuità istituzionale e un compito di questo genere in tempi di emergenza lo rende limitato esclusivamente dal Capo dello Stato.
Il Parlamento non riesce non solo a esprimere la fiducia a un nuovo governo, con la conseguenza che non può neppure esprimere la sfiducia al vecchio, ma anche perché stenta a strutturarsi nella sua composizione ordinaria e lavora esclusivamente come assemblea.
Non sono tensioni irrilevanti quelle che questo momento storico sta scatenando sulla Costituzione e, di solito, ci si tranquillizza dicendo che finiranno nel momento in cui sarà eletto il nuovo Presidente della Repubblica.
Ma chi sarà il Presidente di una repubblica stravolta da queste tensioni?
Sarà l’uomo a cui tutti stiamo guardando per superare un’emergenza che, forse, non ha avuto precedenti nella storia repubblicana, neppure negli anni bui del terrorismo e dei governi di solidarietà nazionale.
Ovvero un uomo che avrà dalla sua la forza del destino… Ed è esattamente questo di cui, forse, la Costituzione non avrebbe bisogno.