Non aprite quelle porte: ciò che Napolitano può fare e quello che potrebbe (ma non dovrebbe) fare
1 – Ci si deve chiedere in questi giorni che cosa Napolitano, considerato come Capo dello Stato, può fare e che cosa non può fare.
Non è solo un esercizio di teoria generale del diritto costituzionale applicata alla scienza della politica, ma è un modo per fissare alcuni principi che possono aiutare a comprendere l’attuale fase evolutiva della forma di governo fissata dai costituenti nel 1947 e successivamente oggetto di una inarrestabile evoluzione che, a partire dalla prima legislatura repubblicana, non si è mai fermata.
2 – La prima cosa che si deve chiarire è che il Presidente della Repubblica non è assolutamente libero di fare quello che vuole, ma è limitato da una serie di precedenti storici che delineano i termini in cui i suoi predecessori hanno inteso interpretare situazioni simili.
Non è la prima volta che le urne consegnano il paese ad un parlamento caratterizzato da diverse maggioranze nelle due camere.
E’ già accaduto, non soltanto in quella che per comodità si può chiamare prima repubblica e la cui seconda legislatura iniziò con maggioranze parzialmente diverse nei due rami del Parlamento, dal momento che il Senato era stato sciolto da Einaudi proprio per impedire che la legge truffa potesse avere piena efficacia nella camera bassa. Ma anche in quella che si potrebbe chiamare seconda repubblica, quando la prima legislatura del maggioritario è iniziata con una maggioranza del centrodestra piuttosto ben formata nella Camera dei Deputati, ma di un solo voto al Senato, anche per effetto dell’elezione di Scognamiglio a presidente di assemblea.
2.1 – Il primo precedente, la seconda legislatura repubblicana, è utile per fissare un principio: la nostra Costituzione non è affatto incompatibile con un bicameralismo caratterizzato da maggioranze diverse nei due rami del Parlamento.
In un certo senso, fa parte del suo genoma originario.
Sia perché nella discussione in assemblea costituente era pacifico, se si può definire pacifico l’esito di una discussione durata due sedute, dal 7 all’8 ottobre 1947, in cui regionalisti e antiregionalisti si affrontarono senza esclusione di colpi, che le due camere sarebbero state elette con meccanismi elettorali diversi: proporzionale nella Camera dei Deputati e maggioritario nel Senato (in questi termini, l’ordine del giorno Nitti approvato con la 190 voti favorevoli e 181 voti contrari nella sedute del 7 ottobre 1947: L’Assemblea Costituente afferma che il Senato sarà eletto con suffragio universale e diretto con il sistema del collegio uninominale).
Ma, soprattutto, appare illuminante del pensiero di Nitti come esposto nella seduta dell’8 ottobre 1947: per Nitti, il Senato avrebbe dovuto essere una cosa diversa rispetto alla Camera dei Deputati. Il Senato avrebbe dovuto rappresentare la continuità della rappresentanza e per questo differenziarsi rispetto alla Camera dei Deputati, perfino con un avvicendamento parziale dei senatori, che avrebbero dovuto essere eletti ogni due anni per un terzo dei componenti, senza la previsione di alcuna forma di scioglimento, neppure anticipato, perché Senato vuol dire permanenza di qualche cosa … Senato vuol dire continuità.
Ma non si può dimenticare neppure che la reazione di Einaudi al tentativo di modificare le maggioranze parlamentari attraverso un premio di maggioranza alla Camera dei Deputati fu lo scioglimento anticipato del Senato e questo scioglimento aveva la funzione di correggere le distorsioni della rappresentanza generate dal premio di maggioranza nella Camera con la possibilità di una maggioranza diversa nel Senato.
Fu uno scioglimento politico e non tecnico, come è dimostrato dal discorso di De Gasperi del 4 aprile 1953, ovvero dello stesso giorno in cui per effetto del D.P.R. del 4 aprile 1953, n. 174, era stato sciolto il Senato. De Gasperi infatti spiega di proporsi, con la legge elettorale, di indurre gli estremi ad accettare ed applicare i principi democratici costituzionali…Siamo in urto con i comunisti, non perché vogliamo escluderli dal diritto comune ma perché essi vogliono impedire di ricostituire e rinnovare il Paese in un regime di libertà e di democrazia. Non reprimiamo ma conteniamo. Ed era esattamente questo che Einaudi non ritenne ragionevole, di talché lo scioglimento anticipato del Senato fu la risposta del Presidente della Repubblica alla richiesta dei senatori Terracini e Pertini di non promulgare la legge truffa e non ebbe un suono molto diverso dallo schiaffo di Lussu a La Malfa nella seduta del 29 marzo 1953.
Sotto entrambi gli aspetti, sembra di poter sostenere che la Costituzione tollera come non innaturale il fatto che ci siano maggioranze diverse nei due rami del Parlamento.
Secondo il pensiero di Nitti, è lo stesso bicameralismo che trova il proprio significato nel momento in cui le due camere hanno una composizione diversa, rappresentano istanze diverse e possono, quindi, esprimere maggioranze politiche differenti.
Il bicameralismo, in un certo senso, rafforza la democrazia nel momento in cui è obbligato a cercare la convergenza di due indirizzi politici differenti.
Sotto questo aspetto, la possibilità di diverse maggioranze nelle due camere è funzionale alla centralità del Parlamento.
Difatti, lo spirito del maggioritario conduce alla centralità del governo se questi ha una solida maggioranza in entrambi i rami del Parlamento, ma rende centrale la formazione di maggioranze in Parlamento, e quindi amplifica la funzione di rappresentanza di questo organo, nel caso in cui il governo debba negoziare con i gruppi parlamentari la propria sopravvivenza o, addirittura, la propria formazione.
2.2 – Quanto avvenne nei primi anni della storia repubblicana, non è stato smentito dalla prassi successiva e soprattutto non è stato minimamente scalfito dallo “spirito del maggioritario”.
Dopo che la legge elettorale nel 1993 si era strutturata in senso maggioritario e che le urne il 27 – 28 marzo 1994 avevano consegnato la maggioranza alla coalizione di centrodestra, Scalfaro stentò ad affidare l’incarico a Berlusconi, lo fece con una serie di raccomandazioni formali, nota quella per cui la Repubblica era da intendersi come indivisibile a proposito della Lega Nord come partito di governo, ma, soprattutto, dopo che le trattative fra Berlusconi e i suoi alleati erano concluse e si era formato un accordo di coalizione: Da molte parti si è fatto richiamo, e non solo dalle opposizioni alla funzione di garante del capo dello Stato. E se c’è un momento in cui deve essere esercitata questa funzione è in un passaggio delicato come questo. Credo, nell’ambito dell’ortodossia costituzionale, di dover esercitare questo compito di garante, anzitutto nel rispetto assoluto della volontà popolare espressa nelle votazioni (Scalfaro, messaggio di incarico a Berlusconi).
In quel caso, gli accordi fra Berlusconi, Fini e Bossi ebbero vita breve e Scalfaro non cedette a chi, da destra, principalmente il ministro per i rapporti con il Parlamento, Giuliano Ferrara, lo invitava a tenere conto dello “spirito del maggioritario”, verificò che una diversa maggioranza era possibile ed affidò l’incarico a Dini, per un governo non semplicemente tecnico, ma in grado di ricevere i voti della maggioranza che aveva vinto la competizione elettorale (Forza Italia), ma anche di altre forze politiche presenti in Parlamento.
E’ opportuno ricordare come questa scelta fu ampiamente motivata dal Presidente della Repubblica nel suo messaggio di fine anno, ovvero ad un anno di distanza dai giorni (e dalle notti), che segnarono la fine della prima esperienza di governo di Berlusconi.
E ora uno sguardo sereno, ma proprio privo di ogni polemica, su questo anno politico.
Faccio brevemente questa cronaca essenziale, sentendo anche il dovere di riferire, perché io ho preso degli impegni l’anno scorso, in questo stesso dialogo con voi.
Questo anno ’95 è iniziato mentre già dal dicembre – il 22 del ’94 – si era aperta la crisi del Governo con le dimissioni del Presidente Berlusconi, dopo che la Lega di Bossi aveva tolto la fiducia al Governo del quale faceva parte, rompendo un’alleanza duplice, che era stata con Forza Italia già in campagna elettorale e si era allargata a tutto il Polo, proprio per avere maggioranza governativa, dopo i risultati elettorali.
Non potevo che essere contrario ad un immediato scioglimento del Parlamento. Non potevo fare altro, per un preciso dovere costituzionale. Lo scioglimento anticipato deve essere motivato, altrimenti sconfina in atto di prepotenza che ha il sapore persino di colpo di Stato.
E quali considerazioni mi hanno portato a questa posizione negativa? Anzitutto, la legge maggioritaria: anche se fosse totalmente tale, non giustificherebbe per sé uno scioglimento in quelle circostanze. Ma la legge elettorale politica è ibrida, perché è senza dubbio maggioritaria, ma è anche proporzionale per una parte. Ed è tanto ibrida – lasciatelo dire al Capo dello Stato – che, essendo stata pensata per ridurre il numero dei partiti, quando io feci le prime consultazioni, incontrai dodici gruppi parlamentari. Si disse: “sono troppi, facciamo una legge che li riduca”. Adesso sono venti! Lascio giudicare a voi, se avete in casa il pallottoliere!
Inoltre, il Parlamento nato il 27 marzo, il 22 dicembre aveva appena nove mesi di vita, sui cinque anni che sono previsti dalla Costituzione stessa.
Avevamo dinnanzi una diversa presenza delle forze politiche fra Camera e Senato, con la conseguenza di una quasi diversa maggioranza fra i due rami del Parlamento, che rendeva ancora più delicata ed incerta la situazione politica – e l’abbiamo esaminato e visto e provato durante questo anno – specie se si fosse constatato che, prescindendo dal gruppo parlamentare della Lega, idoneo a spostare maggioranze – tanto idoneo che l’ha spostata… – sia il centro-destra, sia il centro-sinistra non erano in grado, di forza loro, di formare una maggioranza capace di dare vita ad un Governo.
Ma la ragione dominante, risolutiva, che giustifica uno scioglimento anticipato del Parlamento, sta nella comprovata incapacità del Parlamento stesso di mettere al mondo, di generare un Governo, quantomeno di saperlo e poterlo tenere in vita.
Questo impone il dovere costituzionale al Presidente della Repubblica di svolgere tentativi idonei per accertare se il Parlamento abbia o non abbia questa capacità di mettere al mondo un Governo. E solo se non l’ha il Capo dello Stato è autorizzato, anzi è costretto, a sciogliere il Parlamento.
Per queste ragioni un anno fa dissi che avrei tenuto conto e del dettato costituzionale e del risultato elettorale. Cosí ho fatto, chiedendo al Presidente Berlusconi, dimissionario, una proposta, un nome per guidare il nuovo Governo, che fosse soprattutto di tregua e che si qualificasse solo per le cose da fare. Voi le ricordate…!
La mia proposta, che non aveva precedenti, era ben motivata dalla situazione di eccezione, bisognosa di rasserenamento e di grande collaborazione.
Ci fu intesa e sul nome del Ministro Dini e sulla composizione del Governo, fatto di persone qualificate. La formula precisa fu questa: “svincolati dall’appartenenza a gruppi parlamentari”. Anche su questa formula vi fu accordo totale.
Si presentava cosí un Governo, non qualificato da maggioranza precostituita, che avrebbe potuto legittimamente prendere i voti da qualsiasi parte. Ma, attenzione: evidentemente, questo Governo era stato pensato e costituito in modo da garantirsi l’appoggio del Polo e, in particolare, di Forza Italia.
Il Governo nacque, il Parlamento gli diede la fiducia. In pochi giorni, si può dire, la situazione incominciò a deteriorarsi e non fu tregua; senza che, peraltro, nulla fosse stato alterato circa gli accordi che ho poco fa enunciato (Scalfaro, messaggio di fine anno 1995).
In una situazione molto simile a quella di oggi, in cui la forza politica che aveva la maggioranza alla Camera non disponeva della maggioranza al Senato, il Presidente della Repubblica ha ritenuto di essere in qualche misura vincolato alla scelta di una personalità che fosse gradita alla forza politica che aveva ottenuto la maggioranza dei voti, ma che potesse essere oggetto di una “benevolente attesa” (ovvero dell’espressione con cui i partiti laici minori misuravano il proprio appoggio esterno e fondato sull’astensione, ai monocolore DC nella prima repubblica) anche da parte di altre forze politiche in grado di esprimere la propria maggioranza nell’altro ramo del Parlamento.
Più analiticamente, Scalfaro ha risolto il problema rappresentato da maggioranze diverse nei due rami del Parlamento fissando i seguenti principi:
(i) lo “spirito del maggioritario” impone l’incarico al candidato premier palese di una coalizione solo nel caso in cui questi abbia raggiunto in sede preelettorale un accordo di coalizione tale per cui ci sono ragionevoli motivi per ritenere che possa ottenere la fiducia di entrambe le Camere: l’incarico è stato concesso a Berlusconi solo quando le consultazioni hanno avuto esito positivo e quindi era prevedibile che Berlusconi ottenesse la fiducia in entrambe le camere;
(ii) non può essere incaricato, per effetto dello “spirito del maggioritario”, chi ha vinto in una Camera ma ha perso nell’altra, perché se anche ha ottenuto la maggioranza dei voti nella camera bassa, la maggioranza dei componenti della camera alta è stata eletta in coalizioni che avevano come obiettivo principale la sconfitta di questo candidato. In altre parole, lo “spirito del maggioritario” consente al Presidente della Repubblica di incaricare il candidato premier palese di una coalizione solo nel caso in cui questi abbia superato la competizione elettorale con una maggioranza. Se questo non accade, lo stesso “spirito del maggioritario” impedisce al Presidente della Repubblica di incaricarlo, perché fra tutti coloro che possono ricevere l’incarico, il premier palese di una coalizione che non ha raggiunto una maggioranza egemone in entrambe le camere è quello che è predestinato a un sicuro fallimento perché la maggioranza di una Camera è stata eletta in contrapposizione alla sua premiership;
(iii) l’incaricato, nel caso in cui non vi sia un candidato premier palese in grado di ottenere la fiducia del Parlamento, deve essere gradito alla coalizione che ha ottenuto la maggioranza dei voti anche se questa non corrisponde alla maggioranza dei seggi;
(iv) la convergenza delle maggioranze è favorita da una personalità estranea alla politica dei partiti (Dini era percepito come tale e il suo gabinetto fu formato di ministri esclusivamente tecnici, nessuno dei quali era parlamentare e uno solo, oltre a Dini, aveva avuto responsabilità di governo in precedenza: Baratta) e da un programma di governo basato su chiare priorità;
(v) lo scioglimento anticipato delle Camere non è una conseguenza necessaria della restituzione dello scettro al principe, perché non esiste alcuna etica del maggioritario che impedisca il mutamento delle maggioranze parlamentari (così P. Calandra, I governi della repubblica, ma G. Pitruzzella, Verso una democrazia maggioritaria: ambiguità e limiti della ingegneria costituzionale in Italia; G. Pasquino, Restituire lo scettro al principe. Proposte di riforme istituzionali, e, forse, per tutti, C. Mortati, Commento all’art. 1 della Costituzione).
3 – Sul piano storico, i precedenti sembrano significativi.
Prima di tutto, quello che è accaduto nell’attuale tornata elettorale è tutt’altro che innaturale nella forma di governo prevista dall’Assemblea Costituente e non è neppure in contrasto con l’etica del maggioritario che ha caratterizzato la seconda repubblica.
Ma soprattutto esistono dei precedenti che possono essere interpretati come una prassi e questo consente al Capo dello Stato di essere meno solo del suo predecessore fra il 1994 ed il 1995: gli permette di operare secondo quanto già fatto dai suoi predecessori e assegnare al proprio operato l’autorevolezza di una continuità.
Il che rende un operato in questa direzione di Napolitano non facilmente contestabile siccome arbitrario.
In altre parole, la storia in questo caso è particolarmente significativa, sia perché racconta una situazione caratterizzata da tensioni politiche non particolarmente distanti da quelle attualmente all’opera, sia perché offre a Napolitano la sponda su cui appoggiare la propria discrezionalità, in un momento in cui facilmente potrebbe essere considerata dall’opinione pubblica come strumentale.
Nello stesso tempo, il valore di questo precedente sta nell’autorevolezza che può dare al comportamento della massima carica dello Stato. Il Presidente della Repubblica, infatti, nel momento in cui assegna ai propri comportamenti la prevedibilità generata da una prassi consolidata si afferma come istituzione.
Infine, è un precedente che priva di qualsiasi importanza il fatto che al Capo dello Stato sia precluso lo scioglimento delle Camere, perché chiarisce che se lo “spirito del maggioritario” non impone alcun candidato al Capo dello Stato, il Presidente della Repubblica ha l’obbligo di verificare se vi sia un candidato non inviso allo “spirito del maggioritario” che possa essere nominato ed ottenere la fiducia delle Camere.
4 – Chi non può essere incaricato dal Capo dello Stato?
Bin, in un articolo per i quotidiani veneti del gruppo de La Repubblica, ha confermato che dipende dalle consultazioni e quindi dalla discrezionalità del Presidente della Repubblica individuare la persona cui affidare l’incarico e ha ricordato che le consultazioni possono iniziare solo dopo la formazione dei gruppi parlamentari e la nomina dei capigruppo, sette giorni dalla prima seduta del Senato e quattro per la Camera.
Questione di giorni, anche considerando le astensioni ed i veti reciproci delle prime sedute.
Molti sostengono che l’incarico debba essere affidato a Bersani come conseguenza della “etica del maggioritario” o dello “spirito del maggioritario”.
Sicuramente non è così.
Se Bersani non è in grado di ottenere la fiducia in entrambi i rami del Parlamento, Bersani non può essere incaricato di formare nessun governo, perché non rispetta l’unico requisito soggettivo che deve possedere un incaricato, ovvero la ragionevole attitudine a ricevere la fiducia dei due rami del Parlamento.
Bersani è stato eletto in una competizione elettorale in cui ciascuna coalizione presentava il proprio candidato premier in palese opposizione rispetto alle altre.
Questo significa che il voto, letto secondo l’etica del maggioritario, non è stato espresso dagli elettori solo a favore di un candidato premier, ma anche a sfavore dei candidati premier espressi dalle altre coalizioni.
Sotto questo aspetto, vi è una contraddizione palese fra chi ritiene che Monti non possa restare in carica perché ha ricevuto il voto sfavorevole della maggioranza degli elettori e contemporaneamente ritiene che Bersani debba essere incaricato, anche solo per traghettare, come si diceva negli anni della prima repubblica, a nuove elezioni. I due sono esattamente nella stessa situazione perché entrambi non sono riusciti a convincere la maggioranza degli elettori.
Di conseguenza, la tesi di un incarico a Bersani è in palese contrasto con lo stesso “principio del maggioritario” che viene evocato, ora esplicitamente ora implicitamente, da chi la propugna e perfino da chi l’avversa.
E’ ancora più in contrasto con le prassi che hanno caratterizzato gli incarichi nella storia repubblicana.
Conviene ritornare alla seconda legislatura repubblicana, Einaudi, dopo una tornata elettorale che aveva prodotto un Parlamento in grado di produrre solo governi ma non politica, secondo la definizione di La Malfa, affidò l’incarico di formare il governo a De Gasperi, che non raggiunse la fiducia iniziale, solo dopo un preincarico con un termine brevissimo (quattro giorni) e l’unico scopo di sondare gli umori dei partiti politici, ovvero solo dopo aver ricevuto rassicurazioni circa l’esistenza di un accordo fra i partiti politici che fosse in grado di ottenere la fiducia del Parlamento.
Lo stesso è accaduto per Fanfani, che egualmente non ha raggiunto la fiducia, ma che aveva proposto un “governo di attesa” che, a suo avviso, avrebbe potuto ottenerla.
Esiste, quindi, una prassi, confermata dal precedente di Scalfaro su cui ci si è dilungati, che impedisce al Presidente della Repubblica di affidare un incarico se non l’incaricato non si presenta con un accordo di coalizione tale da consentire una ragionevole certezza circa l’esito del voto di fiducia e questa prassi non è tanto confermata dai precedenti nei quali il Parlamento ha concesso la fiducia iniziale al governo, quanto da quelli in cui la fiducia iniziale è mancata, perché questo evento si è verificato (tanto nel caso di De Gasperi che di Fanfani nel periodo compreso fra la nomina presidenziale e il dibattito parlamentare sulla fiducia).
5 – Chi può incaricare il Capo dello Stato?
Per rispondere a questa domanda, ci si deve interrogare sul significato di quello che finora si è definito alternativamente spirito ed etica del maggioritario.
Sembra difficile sostenere che lo spirito o l’etica del maggioritario consistano della designazione da parte del corpo elettorale del candidato premier.
Lo scettro non è stato restituito al principe.
La vera novità introdotta a partire dalla riforma della legge elettorale del 1993 e successivamente confermata anche dalla sua equivoca mutazione del 2005 è la convocazione del corpo elettorale ad referendum su diversi accordi di coalizione.
Ciascun partito politico è, infatti, spinto a presentarsi con un preciso accordo di coalizione dinanzi agli elettori e gli elettori sono chiamati a rispondere al quesito su quale accordo di coalizione preferiscano per il governo della legislatura.
Pare questo il vero significato da dare allo spirito del maggioritario nell’attuale fase evolutiva della democracy italian style, che non è il dress code dei politici italiani, ma il modo in cui la politica italiana riesce ad interpretare in termini innovativi istituti che il resto del mondo interpreta diversamente, secondo la nota formula di Joseph La Palombara.
Se si imposta in questi termini, lo spirito del maggioritario, ci si rende conto che è cambiato davvero molto poco rispetto al sistema che ha caratterizzato la prima repubblica: per costruire un governo occorre un accordo di coalizione fra diverse forze politiche e questo accordo di coalizione viene sia anticipato rispetto al voto sia posticipato, nel duplice senso che oggi come allora i partiti politici sono costretti a rappresentare ai propri elettori potenziali quali saranno le alleanze che andranno a stringere e oggi come allora le alleanze che sono state proposte in sede elettorale possono modificarsi sia per effetto dell’esito delle urne che della dialettica parlamentare.
De Gasperi è andato alle urne nel 1953 proponendo un meccanismo elettorale che avrebbe dovuto garantire uno stabile monocolore DC. Non è successo e l’intera seconda legislatura repubblicana è trascorsa fra governi che cercavano la benevola attesa delle sinistre e dei partiti laici minori e governi che miravano all’appoggio delle destre liberali e monarchiche, ma anche nostalgiche.
Il vero nodo non è tanto la formalizzazione esplicita dell’accordo di coalizione in sede di formazione delle liste elettorali, quanto piuttosto il fatto che l’accordo di coalizione non riguarda il Presidente della Repubblica.
Il Capo dello Stato riceve l’accordo di coalizione o dal risultato elettorale, se questo è effettivamente chiaro, o dalle consultazioni con le forze politiche presenti in Parlamento, ma nell’accordo di coalizione è un terzo, come un notaio esperto che guida le parti di un contratto complesso verso la sistemazione dei dettagli negoziali, ma che, non per questo, diventa parte del negozio giuridico, resta quello che è: una persona animata dallo spirito di voler svolgere bene una pubblica funzione.
In altre parole, lo spirito del maggioritario non riguarda tanto la persona che viene candidata come premier palese di una coalizione, quanto l’accordo di coalizione, ma l’aver anticipato formalmente l’accordo di coalizione rispetto alla competizione elettorale non significa che l’accordo di coalizione non possa non essere recepito, come è accaduto in questa tornata elettorale, ma in termini sostanzialmente analoghi anche nel 1994 e nel 1953, dal corpo elettorale e se questo succede l’accordo di coalizione torna nelle mani dei partiti politici.
L’accordo di coalizione, però, è un fatto politico che non riguarda il Capo dello Stato, il quale è chiamato semplicemente a prendere atto della sua esistenza ovvero della sua impossibilità.
Può favorirne la conclusione, ma vi è sostanzialmente estraneo perché lo riceve delle forze politiche e sono le forze politiche che lo devono raggiungere o che, eventualmente, lo possono mancare.
In ogni caso, è l’accordo di coalizione il punto critico del potere di nomina del Presidente del Consiglio dei Ministri, perché il Capo dello Stato è vincolato dallo stesso, nel senso che può nominare un Presidente del Consiglio solo se nel corso delle consultazioni ha verificato l’esistenza di un accordo di coalizione, tant’è che, ove l’accordo di coalizione non sia raggiunto, si ha un preincarico, un incarico esplorativo con il compito di sondare gli orientamenti dei partiti, ma non un incarico formale.
Di conseguenza, Napolitano può nominare chi gli viene indicato da un accordo di coalizione, ovvero chi può ottenere la fiducia delle Camere, e non cambia molto se l’accordo di coalizione è stato raggiunto in sede preelettorale o postelettorale.
Non cambia dal punto di vista costituzionale, perché ciò che conta è che il Presidente del Consiglio nominato dal Presidente della Repubblica possa ottenere la fiducia delle Camere e questo può accadere sia perché gli elettori hanno deciso di optare per un preciso programma di governo, o meglio per una ben delineata alleanza elettorale, sia perché si è formata un’alleanza fra i partiti diversa da quella disegnata in sede di votazioni, sia perché i partiti hanno trovato un’alleanza in assenza di una precisa volontà espressa dal corpo elettorale.
6 – Se Napolitano non può incaricare Bersani, ma deve incaricare la persona che gli sarà indicata dai partiti politici nel caso in cui gli stessi riescano a trovare un accordo, si deve prendere in esame l’ipotesi in cui i partiti politici non raggiungano alcun accordo e si abbia quindi una situazione di stallo.
In questo caso, appare inevitabile procedere allo scioglimento anticipato delle Camere.
Napolitano, sicuramente, non vi può procedere negli ultimi sei mesi del mandato.
Altrove si è argomentato che potrebbe, forse, provvedervi dopo la scadenza del semestre bianco nel caso di mancata elezione di un successore.
Tesi suggestiva e che può aprire le porte a logiche estranee allo spirito democratico della repubblica e che perciò deve essere maneggiata con estrema attenzione.
Tuttavia è necessario che il Governo abbia la fiducia delle Camere: se è vero che il Governo resta in carica “per il disbrigo degli affari correnti”, ovvero per la soluzione dei problemi talmente urgenti da non tollerare alcuna dilazione, fino alla sua sostituzione, il che avviene nel momento in cui il nuovo Governo giura fedeltà alla repubblica, è anche vero che la Costituzione non sembra tollerare che questo periodo in cui il rapporto fiduciario fra Parlamento e Governo si protragga oltre una ragionevole misura, che spetta al Capo dello Stato fissare e che, forse, non necessariamente coincide con l’estensione del semestre bianco.
La norma costituzionale, infatti, è chiara nell’esigere una compenetrazione politica fra il Parlamento ed il Governo per mezzo della fiducia parlamentare, come è ben chiarito dal principio per cui la votazione sulla fiducia deve essere palese e per appello nominale.
Se questa compenetrazione manca, le Camere devono essere sciolte e il semestre bianco, in questo caso, determina un paradosso: un Capo dello Stato non può sciogliere le Camere negli ultimi sei mesi del suo mandato perché nessun Presidente della Repubblica può essere sospettato di utilizzare del suo potere di scioglimento allo scopo di provocare la formazione di maggioranze favorevoli ad una sua rielezione. Ma se questo è il significato della disposizione, essa può impedire ad un Presidente della Repubblica che non vuole essere rieletto di sciogliere un Parlamento che non vuole accordarsi sul governo?
Una disposizione che nasce per risolvere un inconveniente può essere utilizzata per prorogare una situazione di stallo in cui le trattative per la fiducia al governo finiscono per intrecciarsi in termini non necessariamente trasparenti con quelle per l’elezione del Capo dello Stato?
Ma, forse, c’è una soluzione.
Il Presidente della Repubblica ha, almeno dal punto di vista formale, un modo per sciogliere le Camere anche negli ultimi sei mesi del suo mandato.
Difatti, il Presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere negli ultimi sei mesi del suo mandato, ma può dare le dimissioni.
Se dà le dimissioni, subentra il Presidente del Senato e nessuna disposizione costituzionale impedisce al Presidente del Senato di sciogliere anticipatamente le Camere, soprattutto se il messaggio di dimissioni del Presidente della Repubblica è motivato con l’urgenza di un tale adempimento e con l’impossibilità di farvi fronte.
Tutto questo non significa che una soluzione del genere possa essere ammessa, ma solo che è astrattamente praticabile e dalla sua astratta praticabilità discende una importante conseguenza pratica: la forza dello stallo in cui alcune forze politiche vogliono trascinare il Parlamento, le une rifiutando qualsiasi accordo che non sia la capitolazione delle altre forze politiche alle proprie condizioni, le altre proponendo accordi irrazionali all’unico scopo di scaricare su di altri la responsabilità politica dell’attuale situazione di crisi preparlamentare, è essenzialmente la convinzione che sino alla elezione del nuovo Capo dello Stato esse potranno bivaccare in Parlamento svuotandolo della sua naturale funzione.
E’ bene, invece, che queste forze politiche siano consapevoli che la nebbiosa palude in cui stanno trascinando il principio democratico potrebbe non durare a lungo e che il Presidente della Repubblica, sia pure con un accorgimento che ha tutto il sapore di un escamotage, ha gli strumenti per risolvere la crisi.
In un modo o nell’altro.
7 – Il vero punto debole di queste pagine è proprio questo.
Il Capo dello Stato ha il potere di risolvere perfino una crisi preparlamentare, perfino una crisi preparlamentare nel pieno di un semestre bianco che odora di aurora boreale prima d’una tempesta perfetta.
Lo può fare perché i suoi poteri si possono dilatare alle estreme latitudini per effetto di tutte le discussioni che hanno caratterizzato la ricostruzione dogmatica del suo ruolo nella forma di governo e per effetto di precedenti (Segni, Gronchi, Saragat, Pertini, Scalfaro – non c’è bisogno di citare Cossiga) che hanno interpretato in maniera molto forte i propri compiti, abbandonando lo scrittorio di Einaudi per delle stilografiche che sembrano picconi che scavano nella Costituzione come nani in un dungeons and dragons.
Napolitano non sembra essere dispiaciuto di chi lo definisce King George e si è mosso nel solco dei più audaci fra i suoi predecessori.
Lo si è scritto molte volte, soprattutto ai margini di Corte cost. 1/2013.
La fragilità del sistema sta spostando sul Capo dello Stato un potere eccessivo perché gli consente di aprire delle porte che sarebbe meglio restassero chiuse.
E quello che si è suggerito si muove esattamente in questo dannato solco.