Piccolo è bello, grande è meglio. L’Agenda Monti e le autonomie
Mi è venuta la curiosità di leggere l’Agenda Monti (il documento dal titolo Cambiare l’Italia, riformare l’Europa. Un’agenda per un impegno comune. Primo contributo ad una riflessione aperta, pubblicato in varie sedi giornalistiche e anche scientifiche) per vedere cosa diceva di regioni ed enti locali.
La curiosità mi è venuta per diversi motivi. I programmi elettorali sono una cartina di tornasole delle parole d’ordine, e degli argomenti di attualità, nel dibattito politico; e, per ora, sono riuscito a leggere solo il programma del nuovo schieramento di destra. Del resto, le altre forze politiche hanno avuto occasioni di governo, e anche di riforma; e cosa pensassero del principio di autonomia, lo si è visto e sentito. In realtà anche l’ideologia del Presidente Monti si è percepita in modo abbastanza chiaro, in quest’anno di regno: ma la si avverte di più, nel momento in cui l’iniziativa elettorale la sgancia dalla strana maggioranza che sinora l’ha sostenuta più o meno volentieri, per propugnarne un’affermazione ancora più dura e pura.
Nell’Agenda Monti, in linea di principio, si ammette che pluralità, articolazione e autonomia territoriale sono una ricchezza per l’Italia. Ma, quando si enunciano linee concrete di azione, poco o nessun ruolo positivo è attribuito alle autonomie. A esse si guarda ora come a intralci per un’azione di governo efficace; ora come a entità da ricondurre a una logica di responsabilità – alla quale, evidentemente, le autonomie non sono state abbastanza sensibili.
Nelle prime 20 pagine del documento, si fatica a trovare qualche cenno a regioni ed enti locali. Anche quando sono affrontate materie che rientrano nelle loro competenze, il ruolo di queste entità è sembra ignorato: così ad es. in tema di scuola, dove la regionalizzazione effettiva è debole; ma anche in tema di agricoltura, governo del territorio, sanità, assistenza ecc.
Qualche riferimento in più si trova a proposito dell’energia e del turismo, e aiuta a comprendere l’impostazione complessiva.
In tema di energia, si promette «uno snellimento e semplificazione della governance (…), riprendendo la proposta di modifica del titolo V della Costituzione – per riportare allo Stato le decisioni in materia di infrastrutture energetiche – accompagnata dall’introduzione, sulla base dell’esperienza dei Paesi nordeuropei, dell’istituto del “dibattito pubblico”». Quest’ultimo cenno potrebbe essere particolarmente importante: evidentemente, non si riconosce alle istituzioni locali la legittimazione a esprimere, o a esprimere adeguatamente, l’opinione delle comunità di riferimento. Alle comunità si vuol dare direttamente la parola mediante un dibattito pubblico (la cogenza dei cui esiti resta incerta); delle istituzioni si vuole ridimensionare il ruolo (ritenuto, sinora, eccessivamente oppositivo).
Anche della «macchina turistica» si dice che «va (…) governata meglio: oggi ci sono troppi centri decisionali, poco coordinati e con insufficiente massa critica per affrontare con successo la competizione globale. Per questo è necessario rafforzare il coordinamento centrale e incidere sul sistema ricettivo, fieristico, infrastrutturale, formativo, normativo e fiscale per renderli coerenti con un’offerta turistica che intercetti nuovi bisogni e migliori la qualità complessiva».
Del resto, in tempi più recenti, parlando della riforma del Titolo V, il senatore a vita l’ha descritta come una «specie di aborto di pulsione federalista che ha peggiorato il Paese nel suo insieme, e quindi anche le zone più avanzate», indicando proprio le energia e il turismo, insieme alle infrastrutture, come i settori più colpiti.
Qualche nota positiva risuona sul tema dell’assistenza. Dopo avere sottolineato la riedizione della cd. social card, e avere promesso la sua ulteriore generalizzazione ed evoluzione verso «un reddito di sostentamento minimo, condizionato alla partecipazione a misure di formazione e di inserimento professionale», e prima di annunciare un «piano per l’autosufficienza» – si suppone mediante rianimazione degli appositi stanziamenti, di recente azzerati – il documento trova il modo di tributare un piccolo riconoscimento al ruolo dei «servizi sociali territoriali». Si concede che essi «hanno sofferto nella stretta della finanza pubblica» e che, però, ora «devono essere riconosciuti nella loro importanza fondamentale, trovando una soluzione di finanziamento strutturale e di lungo periodo». L’ottica è prettamente finanziaria; i mezzi con cui alimentare in modo strutturale i servizi sociali non sono specificati.
Il quarto e ultimo capitolo del documento è il più interessante. Si apre con un paragrafo intitolato Riformare le istituzioni in cui, tra l’altro, vi è la nota promessa di una riforma elettorale come primo atto del Parlamento nella XVII Legislatura, che si prevede debba anche affrontare «il tema di come rendere le decisioni più efficaci e rapide, come riformare il bicameralismo e ridurre i membri del Parlamento».
Il paragrafo immediatamente successivo è intitolato Federalismo e autonomie responsabili. Conviene riportarne testualmente il contenuto:
«La pluralità, l’articolazione e l’autonomia dei territori sono la ricchezza e la forza di un Paese come l’Italia. Le esigenze di controllo della finanza pubblica e la necessità di un’azione efficace e unitaria sul piano europeo e internazionale hanno imposto di ripensare gli equilibri tra centro e periferia. Un federalismo responsabile e solidale che non scada nel particolarismo e nel folclore è fondamentale. Nei mesi passati le riforme che dovevano aggiornare l’assetto territoriale dello Stato e modernizzarlo, come la riforma delle province o la riforma del Titolo V della Costituzione si sono incagliate. Non si può perdere altro tempo. Bisogna avere una nuova collaborazione tra governo e autonomie responsabili con le regioni e i territori capaci di mettersi in gioco devono poter assumere più responsabilità rispondendo però dei risultati in termini finanziari e sociali secondo il principio di sussidiarietà».
Insomma, oltre l’apprezzamento per il pluralismo e il ripudio dell’egoismo territoriale, l’accento cade sempre sulle esigenze finanziarie, sui vincoli europei, sulla responsabilità – in termini, si ripete, “finanziari”, aggiungendo però anche “sociali” – di regioni ed enti locali.
Beninteso: l’autonomia non è un valore assoluto; ovunque, essa ha dovuto misurarsi con principi e interessi antagonistici; in Italia, il suo radicamento nella cultura politica e istituzionale non è mai stato robusto.
Ma, nell’Agenda Monti l’autonomia, non si scontra con il suo antagonista più tradizionale: l’eguaglianza. Qui, la critica alle autonomie si basa sull’efficienza e sulla responsabilità finanziaria. Sul presupposto che l’autorità e l’azione centrale siano in posizione migliore per garantire l’uno e l’altro obiettivo.
Una guida centrale più forte è in grado di aumentare l’efficienza e la responsabilità dell’azione pubblica? Il ‘quanto’ di autonomia opportuno in un ordimento è suscettibile di analisi economica? Se lo fosse, e nel caso che l’analisi permettesse di accertare un costo dell’autonomia in termini di efficienza complessiva del sistema, la sussistenza di tale costo – in tempi di crisi (autonomy crunch?) – sarebbe un motivo sufficiente per rinunciare all’autonomismo? Oppure quest’ultimo porta con sé valori che trascendono il piano economico e si legano a una certa idea della democrazia? O forse si ritiene che l’Italia non sia, non sia mai stata, un ambiente abbastanza propizio alla cultura dell’autonomia; e che, dunque, un ridimensionamento del ruolo degli enti territoriali sia, più che opportuno, realisticamente inevitabile?
Non so quanto sia diffusa la consapevolezza di questi interrogativi. Dieci, quindici anni fa, non si parlava di altro che di “federalismo”. Ora la sensibilità collettiva per questi temi è, eufemisticamente, diminuita: e forse anche questo è un principio di risposta. Altri ne verranno dai risultati elettorali: non nel senso di fare scoprire, o comprendere, le risposte più appropriate; ma proprio nel senso di dare forma a esse, di portarle a esistenza. Purtroppo, all’ombra dei ben noti scandali.