Le ragioni del NI: il gregge referendario
La democrazia è anche una questione ovina se il problema è – correttamente – fare in modo che un gregge diventi popolo e il gregge resta gregge se le occasioni di partecipare alla dimensione politica non valgono il suo tempo sia nel senso che è necessario troppo tempo per comprendere gli estremi della questione su cui viene interpellato ad referendum sia nel senso che il tempo che impiega per esercitare il proprio diritto politico è sproporzionato rispetto agli effetti che il cittadino ritiene possano derivare dalla sua manifestazione di volontà.
Chi è stato chiamato ad esprimere la sua opinione sulla riforma della Costituzione ha prontamente avvertito che tanto più si rafforza la maggioranza tanto più sono necessari dei contrappesi (così M. Luciani nella sua audizione presso la 1° Commissione del Senato il 18 luglio 2015).
La Costituzione della Repubblica Italiana, quella pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 1 gennaio 1948, considera la democrazia referendaria come un correttivo del sistema rappresentativo e del principio di maggioranza che viene espresso attraverso il sistema rappresentativo e consiste di strumenti a disposizione dei cittadini, a prescindere dal loro inserimento in qualsiasi formazione sociale, per attivare, integrare o completare processi decisionali politici.
Il referendum nella stagione dei referendum ha fortemente inciso sulla storia della Repubblica perché ha consentito al corpo elettorale di completare una transizione che senza una frattura referendaria nel processo di sintesi politica parlamentare sarebbe stata probabilmente impossibile.
Da allora, è passato molto tempo e l’ultima consultazione referendaria è stata affossata da un dialogo sulla doverosità o meno del voto che ha appannato il vero problema: se manca il quorum in un referendum, il suo comitato promotore non è riuscito a convincere il corpo elettorale referendario della necessità della consultazione e questa sconfitta è costituzionalmente fisiologica una consultazione che si caratterizza per un quorum deliberativo. Quando la Costituzione prevede all’art. 75 che il referendum sia valido solo se partecipano oltre la metà degli aventi diritto al voto, consente alla metà degli aventi diritto al voto di esprimere un giudizio negativo sulla opportunità della consultazione. E’ una scelta profondamente ragionevole se si riflette sul fatto che il nostro Parlamento consuma circa un miliardo di Euro ogni anno e che, nel 2015, ha prodotto, considerando anche le leggi di ratifica dei trattati internazionali, 107 leggi: come dire che ciascuna legge costa un po’ più di nove milioni di Euro e che magari prima di farla cadere potrebbe essere opportuno pensarci sopra un po’.
Sotto questo aspetto e ad avviso di chi scrive, il vero problema della democrazia referendaria è fare in modo che la stessa sia un’occasione di coinvolgimento effettivo del corpo elettorale e questo è possibile nella misura in cui il problema su cui il corpo elettorale è chiamato a rispondere sia un tema coinvolgente per la società civile perché politicamente rilevante e nello stesso tempo tale da evidenziare un possibile contrasto fra la volontà del popolo e la sintesi politica cui sono pervenuti i suoi rappresentanti in Parlamento.
E’ questo il prisma attraverso il quale si può guardare l’art. 15 della legge di riforma della Costituzione che per i primi tre commi ripete sostanzialmente il contenuto dell’attuale art. 75, Cost. mentre al quarto comma introduce la previsione che nel caso in cui la proposta di referendum sia stata avanzata da almeno ottocentomila elettori, il referendum si intende approvato nel caso in cui partecipi alla consultazione la maggioranza di coloro che hanno partecipato alle ultime elezioni per la Camera dei Deputati e sia stata votata dalla maggioranza dei voti validamente espressi.
Si ha per la parte in cui la norma resta invariata la conferma del sistema attualmente in vigore che è una scelta profondamente significativa in termini di politica costituzionale perché il cuore di questo sistema è, nel primo comma, la previsione che il referendum possa essere proposto per l’abrogazione “totale o parziale” di una legge o di un atto avente forza di legge sicché spetta alla Corte costituzionale giudicare l’ammissibilità del quesito dal punto di vista della sua formulazione e la Corte costituzionale ha sempre esercitato in termini piuttosto elastici la sua potestà giurisprudenziale. Per giudicare se il quesito è ammissibile, la Corte valuta se lo stesso ha per oggetto una norma che esprima un contenuto omogeneo e perciò consenta all’elettore di scegliere fra due alternative secche: il si o il no. Un giudizio di questo genere, soprattutto nel caso in cui il referendum riguardi una pluralità di disposizioni accuratamente ritagliate dall’intelligenza del comitato promotore non è per nulla semplice e, nella sostanza, assegna alla Corte costituzionale un ruolo di arbitraggio nel conflitto fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa che non sempre è stato esercitato con autorevole sicurezza.
Lo stesso vale per il secondo comma dell’art. 75 nel quale si prevede che non siano ammissibili i referendum che hanno per oggetto le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto e quelle di autorizzazione alla ratifica dei trattati internazionali. Fin dalla sentenza 16/1978, la Corte costituzionale ha individuato dei limiti ulteriori per la potestà referendaria (le leggi a contenuto costituzionalmente necessario e le leggi a contenuto costituzionalmente vincolato, ad esempio), ritenendo insufficiente un’applicazione letterale della disposizione costituzionale. Anche in questo caso, la riforma della Costituzione conferma il ruolo di arbitraggio della Corte costituzionale e rinuncia a codificare nel testo della Costituzione i casi di inammissibilità del referendum abrogativo, come invece aveva fatto la bozza elaborata dalla Commissione bicamerale presieduta dall’On. D’Alema.
Il passaggio maggiormente significativo, allora, è la previsione di una sorta di doppio binario per la consultazione referendaria: uno, in cui non cambia nulla, se vengono raccolte cinquecentomila firme: deve partecipare alla consultazione la maggioranza di coloro che vi hanno diritto e la proposta è approvata con la maggioranza dei voti validamente espressi; l’altro, se sono raccolte più di ottocentomila firme: la consultazione è valida se partecipano la maggioranza di coloro che hanno partecipato alle ultime elezioni della Camera dei Deputati e se ottiene la maggioranza dei voti validamente espressi.
Di solito, si sottolinea che vi è una soluzione di continuità logica fra il numero di firme raccolte sulla richiesta di referendum dal comitato promotore e il numero di elettori che partecipano alla consultazione e che non ha senso confondere le due questioni perché le une hanno a che fare con l’esercizio del diritto politico allo svolgimento della consultazione mentre le altre guardano all’efficacia della consultazione stessa (in questi termini, Luciani nella audizione che si è richiamata).
E’ sicuramente vero ed è ancora più vero se si esce da una logica dogmatica e si entra in una arida logica numerica: nelle ultime consultazioni elettorali per la Camera dei Deputati (Archivio storico delle elezioni del Ministero dell’interno, elezioni del 24 febbraio 2013), gli elettori erano 46.905.154, i votanti sono stati 35.270.296 e le schede nulle (comprese le bianche) sono state 1.265.171.
Sulla base di questi dati, si ha che il quorum necessario perché la consultazione referendaria sia valida se le firme raccolte sono più di cinquecentomila ma meno di ottocentomila, è di 23.452.578 elettori mentre il quorum scende a 17.635.464 se le firme raccolte sono state non meno di ottocentomila. La differenza è di 5.817.114 firme.
Nello stesso tempo, se si guarda al numero di voti validi necessari per l’approvazione della proposta, le schede bianche e nulle agiscono differentemente perché il loro impatto rischia di essere maggiore dove è minore il numero di voti necessari per l’approvazione della proposta.
Non è difficile osservare che 500.000 elettori sono poco più dell’un per cento degli aventi diritto al voto e che 800.000 elettori sono poco meno del due per cento, mentre 5.817.114 (la differenza dei due quorum) è un po’ più del dodici per cento degli aventi diritto.
Sulla base di queste osservazioni, si potrebbe concludere che in questa parte la riforma della Costituzione abbia poco senso perché dalla raccolta di 300.000 firme fa dipendere una diminuzione del quorum di quasi 6.000.000 di votanti e non ha senso che meno l’uno per cento degli elettori conti tanto da considerare irrilevante il silenzio del dodici per cento degli stessi.
Questa è la ragione del no.
Dall’altra parte, però, si può osservare che la previsione di un referendum a doppia velocità, che era già stata introdotta dalla bozza elaborata dalla Commissione bicamerale presieduta dall’On. D’Alema, non è irragionevole perché la raccolta delle firme è il momento in cui si concentra il consenso sulla opportunità o meno della consultazione elettorale e la modifica della Costituzione aumentando il numero delle firme necessarie per addivenire alla consultazione nel caso in cui si voglia alleggerire il numero dei voti necessari all’approvazione della proposta concentra l’attenzione in questa fase.
Dal punto di vista del ni, forse, le questioni sul tavolo sono altre: ha ancora senso, dopo la riforma del Senato in chiave regionale, mantenere il diritto di cinque consigli regionali di chiedere il referendum? Ha ancora senso prevedere che le firme raccolte sul quesito siano un determinato numero compreso fra poco più dell’1% degli elettori e poco meno del 2% senza nulla dire sulle aree geografiche di appartenenza degli elettori?
Sul primo aspetto, forse, il Senato della Repubblica dovrebbe essere lo spazio riservato alle regioni per muoversi in chiave correttiva rispetto all’indirizzo politico centrale e non ha molto senso che cinque consigli regionali possano proporre un quesito referendario.
Sul secondo aspetto, l’art. 24, par. I, TFUE prevede l’iniziativa legislativa dei cittadini europei e chiede un milione di firme da parte di cittadini che siano residenti in almeno quattro Stati e, forse, avrebbe senso prevedere una disciplina molto simile anche per il referendum abrogativo.
L’ultima osservazione riguarda sempre i numeri: in assemblea costituente si sono previste 500.000 firme sulla base di una esperienza in cui gli elettori erano 28.005.449 e 500.00 firme erano poco meno del 2%, più o meno la stessa cosa delle 800.000 firme previste per il referendum a capacità propulsiva rinforzata del nuovo art. 75, quarto comma.
Allora, come oggi, il problema del referendum era assicurare che lo stesso fosse uno strumento di partecipazione effettiva alla vita della Repubblica e questo è possibile solo nella misura in cui i problemi posti all’attenzione del corpo elettorale siano davvero centrali per la sua mobilitazione.
Questo problema, però, non lo risolve la Costituzione: lo risolve la classe politica.