Maggioranze disproporzionali e aporie marine
1 – Le dimissioni di Marino da Sindaco e il successivo ritiro delle stesse consentono alcuni appunti sul sistema elettorale degli enti locali e sul modo in cui lo stesso concorre a definire la democrazia locale.
Il punto di partenza di questi appunti è che quando il Sindaco si dimette la clausola simul stabunt simul cadent che determina le contemporanee dimissioni della Giunta e lo scioglimento del Consiglio si giustifica per effetto del premio di maggioranza e della disproporzionalità che lo stesso determina.
Il passaggio successivo del ragionamento si concentra sulle ragioni che giustificano a una maggioranza disproporzionale di revocare la propria fiducia al Sindaco e di determinare nuove elezioni. In questo caso, si vedrà che la disproporzionalità è solo apparente.
L’ultimo passaggio del discorso riguarda la legittimazione della maggioranza disproporzionale a determinare una nuova elezione per mezzo delle contemporanee dimissioni della maggioranza assoluta dei consiglieri comunali. In questo caso, si vedrà che la disproporzionalità è effettiva.
Il completamento del discorso consente di interrogarsi sul rispetto nel sistema che regola le elezioni locali dei principi costituzionali in materia di democrazia elettorale, così come gli stessi sono stati fissati da Corte cost. 1/2014.
2 – Il discorso che si svolge non ha nulla a che vedere con la vicenda politica di Ignazio Marino e della sua maggioranza, vicenda che serve solo a illuminare esemplarmente una disproporzionalità che appare assai significativa dal momento che il modello elettorale di democrazia locale impostato sin dalla legge 81/1993 è servito più di altri a formare il punto di riferimento degli esperimenti di ingegneria costituzionale che si sono via via succeduti dopo la definitiva crisi di quella che siamo soliti chiamare prima repubblica.
3 – Il primo passaggio del discorso riguarda il premio di maggioranza che, nei comuni con oltre 15.000 abitanti, fa sì che, in caso di elezione del sindaco al primo turno, alla lista o all’insieme delle liste che hanno ottenuto non meno del 40% dei voti validi spetti una maggioranza del 60% dei seggi (art. 73, decimo comma, primo periodo, d.lgs. 267/2000). Al secondo turno, viene comunque assegnato il premio di maggioranza del 60%, indipendentemente dal superamento della soglia del 40% al primo turno (art. 73, decimo comma, secondo periodo, d.lgs. 267/2000).
Nella spiegazione di questo modello, normalmente, si dice che la sua ragionevolezza si fonda su un duplice ordine di ragioni: da una parte, il premio di maggioranza scatta solo nel caso in cui sia stata già raggiunta una maggioranza ragionevolmente solida (il 40%) e, dall’altra parte, si aggiunge che il premio di maggioranza opera soltanto in un intervallo altrettanto ragionevole limitando così la disproporzionalità. Difatti, se una lista o un insieme di liste supera il 60% dei consensi il premio di maggioranza non opera sicché il premio di maggioranza opera unicamente nel caso in cui la lista o le liste collegata o collegate al sindaco che ha vinto la competizione elettorale abbia ottenuto un risultato compreso fra il 40 e il 59% e questo conduce il premio di maggioranza in un intervallo compreso fra l’1% e il 20%.
Questa spiegazione vale solo per il primo turno, poiché l’art. 73, decimo comma, secondo periodo, d.lgs. 267/2000 nel regolare il secondo turno non limita l’assegnazione del premio di maggioranza alla lista o al gruppo di liste che “abbia ottenuto almeno il 40 per cento dei voti validi”, ma si limita a stabilire: “Qualora un candidato alla carica di sindaco sia proclamato eletto al secondo turno, alla lista o al gruppo di liste ad esso collegate che non abbia già conseguito, ai sensi del comma 8, almeno il 60 per cento dei seggi del consiglio, viene assegnato il 60 per cento dei seggi, sempreché nessuna altra lista o altro gruppo di liste collegate al primo turno abbia già superato nel turno medesimo il 50 per cento dei voti validi. I restanti seggi vengono assegnati alle altre liste o gruppi di liste collegate ai sensi del comma 8.”
Il meccanismo determina un diverso funzionamento del premio di maggioranza nel caso in cui si abbia il ballottaggio e nel caso in cui il ballottaggio manchi.
Se manca, il ballottaggio, come si è visto, si ha una limitata, per quanto significativa, disproporzionalità e, soprattutto, il premio di maggioranza deriva dal superamento di una soglia elettorale significativa (il 40%) dalla lista o dal gruppo di liste che hanno sostenuto il candidato sindaco. Poiché il candidato sindaco viene eletto con il 50% dei voti e le liste che lo sostengono hanno ottenuto almeno il 40% dei voti, il premio di maggioranza deriva alle liste che sostengono il Sindaco dalla differenza di voti fra queste liste e il sindaco e questa differenza sta fra il 40% e il 50% e quindi è molto probabilmente meno del 10% (il ragionamento è valido se il candidato sindaco ottiene poco più del 50% e se le liste che lo sostengono ottengono meno voti del candidato sindaco che è lo scenario maggiormente frequente).
Se, invece, si ha il ballottaggio, il candidato sindaco porta in dono alla sua maggioranza la differenza fra il 60% dei seggi disponibili e quelli ai quali la maggioranza avrebbe avuto diritto in uno scenario proporzionale.
Nel primo caso, la disproporzionalità è meno evidente ed è comunque giustificata dal risultato ottenuto dalla lista mentre nel secondo caso la disproporzionalità è più evidente e giustifica la considerazione della maggioranza consiliare come di una maggioranza del Sindaco che può dire alla sua maggioranza che la differenza fra i seggi che ha ottenuto e i seggi cui avrebbe avuto diritto applicando un meccanismo proporzionale è il frutto della sua capacità di incarnare le aspettative dell’elettorato.
4 – L’applicazione di questi principi a quanto è accaduto nella tornata elettorale romana del 2013 è particolarmente illuminante.
Al termine delle elezioni, su complessivi 48 consiglieri, i consiglieri assegnati alle liste che hanno sostenuto Marino sono stati 29.
Le liste che hanno sostenuto Marino hanno ottenuto complessivi 433.714 voti su 1.203.335 voti espressi (gli aventi diritto erano 2.359.119).
In questa circostanza, le liste che hanno sostenuto Marino avrebbero ottenuto, applicando un sistema rigidamente proporzionale, 17 seggi, sicché il premio di maggioranza ha contato 12 seggi.
Dall’altra parte, le liste che non hanno sostenuto Marino hanno complessivamente ottenuto tutti i voti che non hanno ottenuto le liste che hanno sostenuto Marino: 769.621. Questa cifra elettorale avrebbe, in un sistema rigidamente proporzionale, determinato l’assegnazione di 31 seggi.
Per parte sua, Marino ha ottenuto al secondo turno 512.720 voti.
Di conseguenza:
(a) la differenza fra i voti che ha ottenuto Marino al ballottaggio e i voti che hanno ottenuto le liste che lo sostenevano al primo turno conta 79.006 voti;
(b) questa differenza ha determinato l’assegnazione di un premio di maggioranza che ha portato la maggioranza da 17 a 29 seggi e perciò ha contato esattamente 12 seggi;
(c) la maggioranza per ottenere 29 seggi avrebbe avuto bisogno di 25.069 (totale dei voti espressi / numero dei seggi) moltiplicato per 29 e il risultato è 727.015, sicché la differenza dei voti ottenuti da Marino al ballottaggio e quelli ottenuti da Alemanno (323.272), che conta 189.448 voti, ha determinato il passaggio di 293.301 voti dalle minoranze, che non si sono visti assegnare i seggi cui avrebbero avuto diritto, alla maggioranza che si è vista assegnare 12 seggi in più di quelli ai quali avrebbe avuto diritto.
In questo schema, è empiricamente evidente che vi è una forte disproporzionalità fra i seggi che le liste ottengono per effetto della vittoria al ballottaggio e i seggi cui avrebbero diritto in base ai voti che hanno ottenuto.
La disproporzionalità che si è cercato di dimostrare empiricamente rileva sul piano del significato elettorale del voto di ballottaggio, che è solo apparentemente il voto in cui si decide soltanto il sindaco perché è anche il voto in cui si decide dell’assegnazione di un numero di seggi consiliari pari alla differenza fra il 60% dei seggi e quelli ai quali la maggioranza avrebbe naturalmente diritto in base a un sistema proporzionale.
In altre parole, quando vi è stato il ballottaggio fra Marino e Alemanno nelle elezioni del 2013, l’elettore ha scelto contemporaneamente il candidato sindaco e la sua maggioranza, scelta che contava una disproporzionalità di 12 seggi nel caso di vittoria di Marino e di 16 seggi nel caso di vittoria di Alemanno.
Questa disproporzionalità non è affatto irrilevante nella costruzione del modello di democrazia locale di cui si sta discutendo.
5 – Sulla base di queste premesse, è possibile affrontare il problema delle dimissioni del Sindaco.
E’ pacifico che l’art. 53, terzo comma, d.lgs. 267/2000 non possa non essere interpretato se non nel senso che le dimissioni del Sindaco dopo venti giorni diventano irrevocabili e determinano lo scioglimento del Consiglio con contestuale nomina di un commissario.
La logica di questa previsione sembra essere che quando colui che ha generato il premio di maggioranza si dimette cade anche la distribuzione dei seggi che si è determinata per effetto della sua elezione.
Forse è una logica soltanto apparente: Marino ha ottenuto 79.006 voti in più della maggioranza che lo sorregge(va). In rapporto ai voti espressi, si tratta del 7% contro i 433.714 della sua maggioranza che contano circa il 36% dei voti espressi.
E ci si deve chiedere se sia ragionevole che il 7% degli elettori possa condizionare il 36% e, forse, non lo è del tutto o lo è soltanto se il sistema funziona perfettamente e coloro che hanno eletto il Sindaco si sono espressi tenendo conto della coalizione che lo sorreggeva.
6 – Sulla base delle stesse premesse, è possibile considerare anche il problema della mozione di fiducia.
Sul piano della logica politica, questo problema sembra più di scuola che altro: è davvero molto difficile che la polarizzazione delle democrazie locali possa consentire a chi è stato eletto in uno schieramento di cambiare i propri orientamenti in occasione di un voto di fiducia, non tanto perché non possa essere cambiato il sentimento all’interno della maggioranza ma perché per quanto il sentimento interno alla maggioranza possa essere cambiato è assai difficile che chi è stato eletto con lo schieramento che ha goduto del premio di maggioranza si possa unire all’altro schieramento.
Chi ha goduto del premio di maggioranza ha un legame con gli elettori tenue perché i voti che la sua lista o coalizione ha ricevuto sono (in proporzione) meno dei rappresentanti che ha espresso: qui la disproporzionalità ha un segno positivo. Al contrario chi ha perso e siede egualmente in consiglio ha un legame molto forte perché è fra i pochi che sono stati selezionati malgrado gli effetti distorsivi del premio di maggioranza.
In parole diverse, se si dividono i voti della maggioranza per i seggi ottenuti dalla maggioranza si ha un numero (14.956) molto più basso di quello che si ha dividendo i voti della minoranza per i voti che la stessa minoranza ha ottenuto (40.506) e non è difficile immaginare che un consigliere da 15000 voti avverta il pericolo di un abbraccio con il consigliere da 40.000 voti che lo fronteggia.
E’ molto difficile, insomma, che un rappresentante debole della coalizione vincente possa unirsi agli eletti maggiormente rappresentativi delle coalizioni perdenti.
Tuttavia, anche in questo caso, se la mozione di sfiducia venisse approvata si avrebbe lo scioglimento del consiglio comunale e la nomina di un commissario secondo quanto previsto dall’art. 52, secondo comma, d.lgs. 267/2000.
Ci si deve chiedere se è ragionevole che uno di coloro che sono stati eletti per effetto del premio di maggioranza possa determinare l’inutilità del voto di tutti coloro che hanno designato il Sindaco e si può facilmente osservare che il premio di maggioranza conta il solito 7% dei voti espressi mentre il Sindaco ha ricevuto complessivamente il 63,93% del 57,69% degli elettori che si sono recati al ballottaggio e la disproporzionalità potrebbe sembrare affatto irragionevole.
Però in questo caso l’art. 52, secondo comma chiede la maggioranza assoluta e la maggioranza assoluta del consiglio capitolino è formata da 25 consiglieri, di cui 19 appartengono alle minoranze sicché in questo caso i consiglieri che si devono muovere nella maggioranza sono sei e non è assolutamente detto che siano i sei consiglieri più deboli.
Nello stesso tempo, se i consiglieri si muovono dalla maggioranza alla minoranza per sottoscrivere e votare la stessa mozione di fiducia l’effetto che determinano è la reversione della disproporzionalità generata dal premio di maggioranza e non sembra per nulla irragionevole che quando colui che ha portato con sé il premio di maggioranza non rispecchia più le attese della propria coalizione, i membri della sua coalizione si uniscano agli avversari per far cadere il Sindaco e andare a nuove elezioni.
Si ha in questo caso l’inversione della logica che ha sorretto l’attribuzione del premio di maggioranza e non è irragionevole che una minoranza della maggioranza possa unirsi alle minoranze per determinare in favore delle minoranze stesse la riespansione della forza elettorale che avevano ricevuto dagli elettori e che il premio di maggioranza aveva attenuato.
A ben vedere ed empiricamente, la sfiducia a Marino sarebbe votata da 25 consiglieri e di questi 25 consiglieri, 6 sarebbero espressione della maggioranza e peserebbero (disproporzionalmente) per 89.734 elettori (il risultato del numero di voti necessario per essere eletti con la maggioranza moltiplicato per sei), ovvero un po’ di più dei 79.006 voti che hanno consentito l’elezione di Marino.
Nello stesso tempo, questi sei consiglieri da novantamila voti consentono la riesumazione della forza elettorale dei 19 consiglieri dell’opposizione che contano 769.921 voti e questo non può essere considerato per nulla irragionevole.
7 – Nel caso in cui il Sindaco, con le proprie dimissioni, determina lo scioglimento del Consiglio comunale la disproporzionalità si pone come irragionevole perché una minima parte degli elettori (la differenza fra coloro che hanno votato la coalizione di maggioranza e il sindaco e coloro che hanno votato solo il sindaco) fa cadere la volontà espressa dalla maggioranza degli elettori.
Al contrario, nel caso in cui si andasse al voto della mozione di sfiducia e questa fosse approvata con il voto favorevole di tutte le minoranze e dei consiglieri di maggioranza “mediani”, i consiglieri mediani determinerebbero la riespansione piena della forza elettorale persa dalle minoranze per effetto del premio di maggioranza.
Un tanto rende solo apparente la disproporzionalità, come si è cercato di evidenziare.
8 – Una notazione a parte merita il caso in cui, ai sensi dell’art. 38, ottavo comma, d.lgs. 267/2000 la maggioranza assoluta dei consiglieri, sempre 25 e sempre di maggioranza, rassegni le dimissioni contemporaneamente rendendo inevitabile lo scioglimento del consiglio comunale, il che è già avvenuto a Viareggio fra la primavera e l’estate di questo anno.
L’art. 52, ottavo comma prevede che le dimissioni debbano essere presentate personalmente o per mezzo di un atto avente data certa non anteriore di più di cinque giorni al momento in cui viene presentato.
Questa disposizione trasforma il divieto di mandato imperativo nobilitato dall’art. 67, Cost. nelle forme del libero mandato parlamentare in un mero divieto di dimissioni in bianco, se non la si è mal interpretato.
Consente, in ogni caso, alla maggioranza assoluta del consiglio di determinare la decadenza dell’intero consiglio.
Però, la maggioranza assoluta del consiglio ha un valore ben diverso a seconda che sia espressione della maggioranza o della minoranza cui si sono uniti i membri mediani della maggioranza.
Perché se è espressione della minoranza unita ai membri mediani della maggioranza le conclusioni non possono essere diverse da quelle che si sono appena tratteggiate con riferimento al voto della mozione di sfiducia.
Al contrario, se, come sarebbe in questo caso e come è stato a Viareggio, le dimissioni contestuali servono a evitare l’imbarazzo di una mozione di sfiducia e della sua discussione, si ha che il peso elettorale di 373.891 elettori è in grado di paralizzare un voto al quale hanno partecipato 1.203.335 e la disproporzionalità appare con tutta la sua evidenza.
9 – Gli appunti che precedono non vogliono essere un punto di arrivo e sono perfettamente consapevoli che una disproporzionalità è inevitabile in qualsiasi sistema elettorale, persino nel sistema proporzionale più puro.
Vogliono però porre un problema che si colloca nel contesto della democrazia locale. La democrazia locale per come si è sviluppata a partire dalla legge 81/1993 è in un certo senso il modello preso a riferimento dal sistema generale. E’ il modello al quale ci si riferisce per dire che è possibile far funzionare le cose.
Forse le cose non funzionano troppo bene neppure lì e non tanto per vicende politiche concrete davvero complesse da indagare e sulle quali è assai difficile esprimere un giudizio e soprattutto non è al costituzionalità che compete farlo. Quanto perché ci si deve chiedere se i principi acutamente fissati dalla Corte costituzionale nella sua sentenza 1/2014 siano rispettati.
Si legge nella giurisprudenza costituzionale come la «determinazione delle formule e dei sistemi elettorali costituisc(a) un ambito nel quale si esprime con un massimo di evidenza la politicità della scelta legislativa» (sentenza n. 242 del 2012; ordinanza n. 260 del 2002; sentenza n. 107 del 1996); che il principio costituzionale di eguaglianza del voto esige che l’esercizio dell’elettorato attivo avvenga in condizione di parità, in quanto «ciascun voto contribuisce potenzialmente e con pari efficacia alla formazione degli organi elettivi» (sentenza n. 43 del 1961), ma «non si estende […] al risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettore […] che dipende […] esclusivamente dal sistema che il legislatore ordinario, non avendo la Costituzione disposto al riguardo, ha adottato per le elezioni politiche e amministrative, in relazione alle mutevoli esigenze che si ricollegano alle consultazioni popolari» (sentenza n. 43 del 1961).
Sicché secondo Corte cost. 1/2014, che però riguarda le assemblee parlamentari, disposizioni che “non impongono il raggiungimento di una soglia minima di voti alla lista (o coalizione di liste) di maggioranza relativa dei voti; e ad essa assegnano automaticamente un numero anche molto elevato di seggi, tale da trasformare, in ipotesi, una formazione che ha conseguito una percentuale pur molto ridotta di suffragi in quella che raggiunge la maggioranza assoluta dei componenti dell’assemblea” sono incostituzionali perché è “palese che in tal modo esse consentono una illimitata compressione della rappresentatività dell’assemblea parlamentare, incompatibile con i principi costituzionali in base ai quali le assemblee parlamentari sono sedi esclusive della «rappresentanza politica nazionale» (art. 67 Cost.)”.
Ma nell’esempio che si è cercato di svolgere non si ha una disproporzionalità molto simile a quella censurata dal Giudice delle leggi?