Il Senato nella ghigliottina
1 – Renzi e Napolitano sembrano avere accennato all’uso della ghigliottina, o tagliola, nel procedimento di revisione costituzionale.
Si tratta di un procedimento previsto per l’approvazione dei decreti legge, in cui il Senato è costretto alla votazione finale del disegno di legge, indipendentemente dal punto in cui è arrivata la discussione.
La giustificazione di questo strumento è, così Violante, nel principio per cui la maggioranza non può essere costretta a non decidere a causa dell’ostruzionismo delle minoranze.
Una giustificazione piuttosto ragionevole per ogni affare di competenza del Parlamento, ma, forse, meno ragionevole per l’approvazione di una modifica alla Costituzione, perché la Costituzione trova la sua legittimazione nel procedimento di revisione costituzionale e questo procedimento si giustifica perché ciascuno può contribuire all’elaborazione del testo, sia per mezzo dei suoi interventi, sia per mezzo della presentazione di opportuni emendamenti.
2 – La verità, però, è molto diversa da quanto appare sulle notizie on line.
La prima verità è che il Governo non ha alcun potere di imporre la ghigliottina al Senato.
In primo luogo, la norma che stabilisce la ghigliottina (art. 78, quinto comma) si riferisce unicamente ai disegni di conversione dei decreti legge e i disegni di conversione dei decreti legge sono atti necessariamente governativi, in cui la responsabilità politica del Governo è massima. Al contrario, un disegno di legge costituzionale è un atto che oltrepassa l’indirizzo politico di maggioranza, che è collegato alla legislatura e all’attuazione del programma politico del Governo. La revisione della Costituzione è destinata a durare per sempre e le modifiche della Costituzione non possono appartenere all’indirizzo politico di maggioranza, perché la Costituzione non può essere della maggioranza.
In secondo luogo, l’art. 121, r. S. stabilisce che ai disegni di legge costituzionale si applichi in prima lettura lo stesso procedimento previsto per i disegni di legge ordinaria. Di conseguenza, la programmazione dei lavori segue lo schema dell’art. 55, terzo comma, r. S. (Il calendario, se adottato all’unanimità, ha carattere definitivo e viene comunicato all’Assemblea. In caso contrario, sulle proposte di modifica decide l’Assemblea con votazione per alzata di mano, dopo l’intervento di non più di un oratore per Gruppo e per non oltre dieci minuti ciascuno. Il calendario definitivo e` pubblicato e distribuito) e quinto comma (Per la organizzazione della discussione dei singoli argomenti iscritti nel calendario, la Conferenza dei Presidenti dei Gruppi parlamentari determina di norma il tempo complessivo da riservare a ciascun Gruppo, stabilendo altresì la data entro cui gli argomenti iscritti nel calendario debbono essere posti in votazione). In questo schema, non è il Governo che fissa la data entro cui gli argomenti iscritti in calendario devono essere posti in votazione, ma la conferenza dei presidenti dei gruppi parlamentari, in cui il Governo, attraverso il ministro per i rapporti con il Parlamento, gode di un ruolo fondamentale, ma non tale da sopprimere l’autonomia del Parlamento.
Non è il Governo che può imporre la ghigliottina al Senato, ma il Senato stesso che deve, per mezzo della conferenza dei capi gruppo, fissare la data entro cui la riforma costituzionale deve essere votata e la giustificazione di questo principio è che le minoranze presenti in Senato non possono impedire alla maggioranza del Senato di addivenire a una decisione, se la maggioranza lo ritiene opportuno e ragionevole, il che potrebbe non essere, ma è comunque una questione politica.
3 – Se questa è la verità dei regolamenti, una verità piuttosto indiscutibile, almeno a prima lettura, la verità politica è diversa e più complicata da gestire.
La sostanza politica della riforma del Senato è che il Parlamento, o meglio: il principio parlamentare, sono stati profondamente messi in discussione, nella loro essenza assiologica di giustificazione delle decisioni pubbliche attraverso il principio maggioritario e di giustificazione del principio maggioritario attraverso il valore della discussione parlamentare.
Non è un caso che il verbo “parlamentare” non sia quasi più usato nella lingua italiana e che stia a significare l’attività di chi negozia con il nemico, cerca, con la discussione, di trovare una soluzione a una lite, o di fissare le regole di ingaggio in una battaglia ovvero la durata di una tregua.
E’ proprio il “parlamentare” inteso come verbo che oramai non ha più molto senso e il valore della riforma costituzionale è di discutere intorno a un nuovo modello di rappresentanza, che sia in grado di andare oltre il principio parlamentare, di giustificare la democrazia senza bisogno di una discussione che i più giudicano inutile e che persino i meno che hanno la passione di guardare i lavori parlamentari trovano sterile.
In questa sostanza politica, la richiesta del Governo al Parlamento, e più precisamente alla conferenza dei capi gruppo, di porre un termine alla discussione sulla riforma della Costituzione è molto più elegante e profonda di quanto non appaia a prima vista.
Non è diretta a sacrificare le prerogative del Senato: è solo il Senato che può fissare la tagliola in questa discussione e poco importa se la richiesta venga dal ministro per i rapporti con il Parlamento.
E’, molto più sottilmente, diretta a rendere evidente la necessità di sopprimere il Senato e di superare il principio bicamerale perché niente è più inutile di un’assemblea in cui una minoranza impedisce alla maggioranza di decidere.
In questa visuale, poco importa se il Senato concluderà i lavori di esame degli emendamenti o se l’ostruzionismo costringerà la conferenza dei capi gruppo ad applicare la tagliola o se la riforma del Senato sarà discussa dopo la pausa estiva. Quello che importa è che il Senato, non riuscendo a decidere, dimostra la sua inutilità e mette da solo la testa nella ghigliottina.
Esattamente quello che non dovrebbe fare se volesse sopravvivere…