La Costituzione veloce
1 – Osserva Repubblica di oggi, nella persona del direttore, che Renzi è costretto alla velocità, che il suo stile si distacca da quelli che lo hanno preceduto, perché non solo fa delle promesse, ma è anche in grado di giustificarle sul piano razionale e di trasformarle in slogan convincenti.
La velocità è sempre stato uno degli argomenti forti di Renzi: non contano le promesse, ma anche il tempo in cui le si realizzano.
E’ un argomento molto ragionevole quando si ha a che fare con i bambini, e quindi anche con la politica: i regali di Natale non possono arrivare a Pasqua, di meno quando si discute della Costituzione.2 – Nel disegno di riforma costituzionale del Senato della Repubblica è davvero evidente il collegamento con la riforma elettorale per la Camera dei deputati.
Il presupposto delle due riforme è che il Senato non debba poter fare crisi, per rievocare una delle caratteristiche del Senato regio.
In altre parole, il corpo elettorale deve essere messo in grado di esprimere una maggioranza forte e decisa in ordine alla designazione del Capo del Governo e questo non può accadere se vi sono due camere espressione di maggioranze potenzialmente diverse.
Si devono però ricordare due cose.
La prima è che il Senato regio non faceva crisi per effetto di una convenzione costituzionale, forse una vera e propria consuetudine, ma sul punto il Commentario di Racioppi e Brunelli non è così deciso, per cui solo la Camera aveva ricevuto un mandato elettorale e di conseguenza poteva partecipare al circuito della fiducia.
Un tanto riduceva fortemente l’influenza del Senato nel disegno costituzionale, perché una Camera estranea al circuito della fiducia non partecipa dell’essenza della forma di governo parlamentare e si colloca ai suoi margini.
Di conseguenza, nel momento in cui il Senato della Repubblica non può più aprire una crisi di governo o partecipare alla investitura del governo, la rappresentanza che viene espressa nel Senato diventa una rappresentanza di grado inferiore, qualitativamente e democraticamente inferiore, rispetto a quella espressa dalla Camera dei Deputati e cade il presupposto del bicameralismo di garanzia previsto dai costituenti.
La seconda è che i costituenti hanno voluto il bicameralismo e le regioni in una logica di garanzia.
Qui occorre spiegarsi meglio: il fondamento del bicameralismo era correggere le possibili degenerazioni in senso autoritario della forma di governo parlamentare nel momento in cui la stessa fosse collegata a una sola Camera, potenzialmente succube di una maggioranza del caso, orientata verso un uomo della provvidenza in grado di conquistare un livello di consenso pericoloso per le istituzioni repubblicane.
Per questa ragione, il bicameralismo voluto dai costituenti era fortemente differenziato, sia a durata delle due camere: 5 e 6 anni, sia a composizione: il Senato avrebbe dovuto essere eletto su base maggioritaria, con un sistema non dissimile da quello in vigore nel Regno Unito, mentre la Camera avrebbe dovuto essere eletta con metodo proporzionale, con un sistema coincidente con quello utilizzato nel 1921 e successivamente rimasto inalterato nei suoi fondamenti logici fino alle elezioni del 1994.
Le due camere avrebbero garantito il funzionamento di un sistema parlamentare basato su una doppia garanzia di rappresentanza, una più vicina ai partiti, l’altra più vicina ai territori, e per questa ragione avrebbero dovuto esprimere entrambe la fiducia e partecipare entrambe alla approvazione della legge di bilancio, perché in questo modo si avrebbe avuto la certezza della centralità del Parlamento, inteso non semplicemente come organo, ma soprattutto come metodo parlamentare.
Lo stesso vale per il regionalismo voluto dall’Assemblea costituente, che nasceva dalla dolorosa esperienza degli altopiani di Emilio Lussu e che serviva a costruire una sovranità composta di autonomie, ciascuna delle quali titolare di una porzione di indirizzo politico, capace di correggere in senso democratico eventuali torsioni autoritarie del centro dello Stato.
Vi è quindi, nel nostro sistema costituzionale, un forte collegamento fra un bicameralismo di garanzia e un regionalismo che può essere considerato altrettanto di garanzia, un collegamento forte e che non merita di essere dimenticato anche se le cose sono andate diversamente.
E’ vero che il bicameralismo in Italia non ha funzionato bene, soprattutto negli ultimi anni, per effetto delle misrappresentazioni della realtà generate dalla legge elettorale del 2005, ma anche per la perdita dei caratteri di forte differenziazione strutturale fra le due Camere che la Costituzione e i suoi lavori preparatori volevano.
Ma non è questa la questione principale, che è invece se vi sia o meno ancora oggi bisogno di un bicameralismo di garanzia, se vi sia ancora oggi bisogno di una doppia espressione del voto nel circuito fiduciario ovvero nell’approvazione del bilancio dello Stato.
In altre parole, l’Italia ha effettivamente raggiunto una maturità democratica tale da potersi affidare a un sistema parlamentare senza i correttivi atti a evitarne le degenerazioni, prima di tutto la degenerazione tipica dello spirito italiano che è la tentazione di affidarsi a un uomo solo, designato da un voto di “provvidenza”, più che per mezzo di meccanismi democratici fondati sul metodo parlamentare.
3 – Questa domanda può essere considerata insidiosa, può anche essere considerata stupida e persino superflua, ma non è una domanda da poco e ha bisogno di una risposta.
La risposta a questa domanda sul piano del metodo non può essere collegata ai bisogni della legge elettorale.
Le leggi elettorali sono il terreno della tattica elettorale, un terreno nel quale vi sono dei vincitori e dei perdenti. Gli attori del consenso politico si affrontano sul campo delle regole elettorali dal punto di vista tattico, cercando quelle regole che favorendo gli uni danneggiano gli altri. E’ la logica della legislazione elettorale di ogni paese democratico ed è una logica destinata a essere dominata dal principio maggioritario tipicamente in vigore in ogni democrazia deliberativa.
Il campo della Costituzione è molto diverso. Nell’area di gioco della Costituzione gli attori del consenso non cercano di sovrapporre il proprio punto di vista a quello dei propri avversari, ma cercano di costruire un’area nel quale gli uni e gli altri possano interagire portando le proprie visioni a confronto e individuando i punti di ragionevole intersezione fra le stesse.
Vi è una forte differenza di gradiente democratico fra le scelte elettorali e le scelte costituzionali: le prime sono dominate dall’indirizzo politico di maggioranza, sono necessariamente transeunti perché mutano a ogni evoluzione del sistema (o del regime), le altre sono l’ambito entro il quale l’indirizzo politico di maggioranza deve collocarsi, sono necessariamente stabili perché caratterizzano un determinato sistema (o regime).
Aver confuso, in nome di una Costituzione veloce, questi due campi, non è, forse, ragionevole, perché sposta l’ambito costituzionale all’interno dell’indirizzo politico di maggioranza, con una torsione sinora sconosciuta al sistema.
In realtà, si può sostenere che la Costituzione si sia evoluta in un certo senso in direzione della flessibilità, almeno quanto ai caratteri della forma di governo e ai rapporti fra gli organi che detengono l’indirizzo politico.
Ma è sempre stata una flessibilità nemine contradicente, nella quale le modifiche formali della Costituzione si sono rivelate necessarie nella misura in cui uno degli attori politici si opponeva alla torsione costituzionale richiesta dagli altri attori politici.
Un tanto è accaduto perché la Costituzione ha effettivamente operato come area all’interno della quale si formava l’indirizzo politico di maggioranza e, perciò, era estranea all’indirizzo politico di maggioranza.
Sotto questo aspetto, vi è una sorta di contraddizione logica fra un disegno di legge costituzionale di iniziativa governativa e una riforma organica della Costituzione: l’uno non può che nascere dall’indirizzo politico di maggioranza, dalla decisione di includere alcuni e di escludere altri all’interno del processo deliberativo, mentre l’altra è l’oggetto di una decisione cui tutti devono essere messi in grado di partecipare, di una decisione che si pone in contrasto con l’animo necessariamente in contraddittorio dell’indirizzo politico di maggioranza.
Ci si deve chiedere se sia l’indirizzo politico di maggioranza, l’indirizzo politico del governo (non di questo governo in particolare, ma di un qualsiasi governo) a poter rispondere alla domanda se vi sia ancora bisogno di un correttivo della forma di governo parlamentare o se questo correttivo sia divenuto un inutile appesantimento.
Forse, il governo è parte in causa di questo interrogativo. Forse chi partecipa all’indirizzo politico di maggioranza, chi ha dimostrato di saperlo conquistare con abilità e intelligenza non dovrebbe partecipare alla sua risposta. Forse è in conflitto di interessi, se così si può dire, rispetto al contenuto della domanda e dovrebbe astenersi dal decidere.
Magari erano eleganze d’altri tempi, ma si può ricordare che De Gasperi non partecipò in alcun modo ai lavori della Costituente, che pure seguì con estrema attenzione e che quei lavori proseguirono anche dopo che il movimento socialcomunista fu escluso dall’indirizzo politico di maggioranza. La nostra storia costituzionale ha dimostrato che una costituzione in grado di durare nel tempo può nascere solo se si forma in un confronto fra le forze politiche caratterizzato da un gradiente democratico che non può essere dominato dai bisogni della ricerca del consenso.
Attrarre la Costituzione nell’indirizzo politico di maggioranza significa, in altre parole, snaturarla e privarla di una delle sue caratteristiche essenziali: la stabilità.
In generale, una Costituzione non può essere veloce, ha bisogno di lentezza e di consolidamenti e, nello stesso tempo, l’indirizzo politico di maggioranza non si trova nella condizione migliore per poter decidere dei correttivi atti a contenerne le degenerazioni.
4 – Ma la domanda da cui si è partiti probabilmente deve essere indagata anche sotto un estremo punto di vista.
Nell’attuale contingenza politica, si dice che il Parlamento deve darsi delle riforme e durare sino al 2018 per giustificare la sopravvivenza di un intero ceto che lo occupa con una interminabile agonia da oltre centocinquanta anni.
E’ un’affermazione di carattere sicuramente politico e ben giustificata con la necessità di assicurare all’indirizzo politico di maggioranza la fine della legislatura.
Sul piano delle forme costituzionali, però, non è un’affermazione che si può caratterizzare per la sua indiscutibilità.
L’attuale legislatura è il risultato di una tornata elettorale che si è svolta sulla base di regole che sono state dichiarate incostituzionali perché violavano il principio democratico, con una sentenza che ha determinato un vero e proprio terremoto incostituzionale, costringendo il Presidente della Repubblica a muoversi in una penombra algida destinata a durare fino a una completa riforma elettorale, ovvero a una riforma elettorale che riguardi entrambe le camere.
Un costituzionalista può sostenere, sul piano delle rigidamente elastiche argomentazioni che caratterizzano un pensiero debole della Costituzione, che il Parlamento così eletto, eletto in violazione del principio democratico, sia egualmente legittimato a operare nei limiti della Costituzione.
Ma non può seriamente negare che la legittimazione di questo Parlamento, la legittimazione democratica di questo Parlamento, dipenda dalle elezioni che lo hanno formato e che se queste elezioni si sono svolte in contrasto con il metodo democratico, il Parlamento è privo di una seria legittimazione.
Dispiace doverlo ammettere, ma un Parlamento eletto in contrasto con il principio democratico non è vivo, è un morto che cammina e il rito che lo ha evocato è un argomento dalla struttura commissariale, secondo le categorie di Schmitt.
Il Parlamento continua ad agonizzare perché un sistema parlamentare non può esistere senza un Parlamento che approva o nega la fiducia all’esecutivo, ma nello stesso tempo non può essere considerato di una sintesi politica fondata sulla rappresentanza perché è stato eletto in violazione del principio democratico e quindi non rappresenta razionalmente le aspettative dei cittadini.
In questa chiave, la logica che giustifica la mortale sopravvivenza dell’attuale legislatura è quella della dittatura commissariale: il Parlamento non è stato eletto secondo le regole, è stato eletto in virtù di un fatto che è stato posto in essere contro le regole, di talché la sua sopravvivenza si giustifica unicamente negli stretti limiti in cui un tanto è necessario per giungere a nuove elezioni che siano in grado di assicurare l’effettiva espansione del principio democratico.
In questa chiave, la centralità del Parlamento ha il sapore di una dittatura commissariale.
Ci si deve chiedere che cosa possa fare un Parlamento che ha questi limiti di natura e di struttura.
Soprattutto, ci si deve chiedere se un Parlamento con questi limiti di natura e di struttura possa rispondere alla domanda circa l’opportunità della soppressione di un correttivo, giustificato dal principio democratico, alle possibili degenerazioni del parlamentarismo.
La risposta non può che essere negativa: una risposta di questo genere è caratterizzata da un gradiente democratico cui questo Parlamento non può ambire. E’ una risposta che deve essere data attraverso la massima valorizzazione di tutte le istanze democratiche evocate dal canone nemine contradicente, e un Parlamento in cui alcuni attori politici si trovano sovradimensionati per effetto di un trickaccounting elettorale mentre altri sono drasticamente ridimensionati dallo stesso giochetto contabile non sembra in grado di dare risposte in grado di parlare all’intero paese.
Se questo è il Parlamento di oggi e se questo Parlamento ritiene davvero necessario e opportuno rinunciare a un correttivo del sistema parlamentare in grado di arginare il rischio iperpresidenziale caratteristico di ogni movimento elettorale diretto alla stabilità di governo, probabilmente dovrebbe restaurare una situazione in cui tutti gli attori politici possano dialogare serenamente intorno alla Costituzione e ai suoi nodi.
La dittatura commissaria per non trasformarsi in sovrana, infatti, trova un limite nell’esigenza di ritornare alla legalità costituzionale prima possibile. Se questa esigenza è recuperare il principio democratico, il Parlamento si deve dare delle norme elettorali nel più breve tempo possibile. Per gestire la riforma elettorale, un parlamento agonizzante per asfissia democratica non dovrebbe dover discutere molto. Soprattutto, non dovrebbe consentire a una maggioranza parlamentare che è creata artificialmente e che non rispecchia la maggioranza del paese di utilizzare i propri voti a discapito di coloro la cui voce è stata incostituzionalmente sopraffatta. L’unica legge elettorale sicuramente non incostituzionale è il sistema proporzionale puro, qualcosa di non molto lontano dal consultellum che deriva dall’applicazione della normativa di risulta fatta salva dalla Corte costituzionale.
Si può e si deve dubitare che un Parlamento eletto in violazione del principio democratico possa partecipare alla funzione di revisione costituzionale senza violare nuovamente il principio democratico. Può sopravvivere, ma solo in una logica commissaria e non sovrana.
5 – Eppure, si dirà, sta succedendo esattamente l’opposto.
E’ vero, come è vero che le dittature commissarie si trasformano facilmente in dittature sovrane. E’ nella loro natura questa tentazione ed è nella maturità del sistema il saper resistere.
Come il fatto che stia accadendo dimostra ulteriormente la tesi che si è cercato di illustrare circa la flessibilità della Costituzione nemine contradicente. E’ proprio questa clausola che consente al Parlamento di esaminare una legge elettorale fondata sul principio maggioritario proprio delle democrazie deliberative legittimamente elette e non una legge elettorale di emergenza destinata unicamente a consentire la formazione di una nuova assemblea democraticamente eletta e democraticamente in grado di varare le riforme che si desiderano.
Ma la democrazia, tutte le democrazie occidentali, non solo la nostra, sta cambiando e la sua trasformazione non va verso forme assembleari fondate sulle elezioni e sui partiti politici, va verso un incerto futuro in cui si deve prendere atto che l’indirizzo politico è tramontato nelle sovranità nazionali, che le sovranità nazionali hanno sempre più senso sul piano dei diritti e delle garanzie individuali e sempre meno su quello della democrazia deliberativa, che i partiti politici sono in un’agonia che sembra irreversibile e tendono a essere sostituiti dalla capacità di comunicazione di leader in grado di coagulare vasti consensi ben oltre e ben al di là delle antiche logiche di schieramento.
Le incertezze di questo percorso di riforma costituzionale, incertezze che sembrano insuperabili sul piano della forma costituzionale, aprono la strada all’alba di un nuovo mondo, probabilmente né migliore né peggiore del vecchio, ma nel quale sicuramente restano molto attuali le necessità di correttivi in grado di assicurare la tenuta complessiva del sistema democratico.
In conclusione, se il sogno è di un Senato delle autonomie che per mezzo della fedele ed efficace attuazione del principio bicamerale sia in grado di lavorare sia come correttivo delle degenerazioni del sistema parlamentare sia come strumento per la rivitalizzazione di un regionalismo che appare assai stanco, la realtà è ben diversa e impone di pensare a un mondo nuovo caratterizzato da una democrazia iperpresidenziale, attuata non per mezzo della separazione dei poteri ma tramite la progressiva marginalizzazione del Parlamento, in cui il nodo, probabilmente non è né l’architettura urbanistica dello Stato né l’ingegneria istituzionale dell’indirizzo politico ma la capacità di dare soddisfazione ai bisogni dei cittadini.