Nessuna preoccupazione costituzionale?
Le indiscrezioni sul nuovo libro di Allan Friedman sono molto più accattivanti di quelle che potrebbe suscitare un intervento di Milton Friedman.
Riguardano il ruolo del Capo dello Stato nella caduta del Governo Berlusconi.
Il Presidente della Repubblica sulle colonne del Corriere della Sera opportunamente ricorda che è stato il Parlamento a non approvare (l’8 novembre 2011) il rendiconto generale dello Stato, inducendo Berlusconi alle dimissioni che furono subito certificate come irrevocabili seppur posticipate all’approvazione della legge di stabilità.
Tutto questo è molto vero.
Ma è altrettanto vero che il “brillante pubblicista” (la definizione è del Capo dello Stato) dà conto di una pluralità di contatti del Presidente della Repubblica con Monti ben prima della sua nomina a senatore a vita o del suo incarico di Presidente del Consiglio dei Ministri.
Esattamente come dà conto di un piano per la crescita dell’Italia che il Presidente della Repubblica avrebbe informalmente commissionato a un banchiere molto attento alle sorti del paese (Passera, all’epoca amministratore di Banca Intesa) e che contiene misure draconiane, come una imposta patrimoniale del 2%, l’aumento dell’Iva al 23%, etc., misure che sono assai lontane da un’idea di indirizzo politico costituzionale, che vorrebbe la discrezionalità del Capo dello Stato agganciata al bisogno di ricondurre il dialogo fra le forze politiche nel disegno assiologico disegnato dalla Costituzione.
La verità è che il Presidente della Repubblica, indipendentemente dal merito della vicenda, sta facendo politica e che la politica del Presidente della Repubblica si sta sovrapponendo alla centralità del Parlamento.
La differenza fra queste due politiche è che il metodo parlamentare si fonda sulla pubblicità, è un processo in cui la legittimazione delle scelte pubbliche è perseguita attraverso la loro discussione in pubblico, nel quale l’arte di far credere, come la Harendt definiva la politica, è disegnata dalla teatralità della discussione.
Al contrario, il Presidente della Repubblica nel suo intervento sul Corriere della Sera rivendica la naturale riservatezza che dovrebbe circondare l’esercizio delle sue attribuzioni e cita Corte cost. 1/2013, su cui non poco, anche in queste pagine si è scritto.
La riservatezza delle conversazioni del Capo dello Stato ha sicuramente il tono di un valore costituzionale, ma è un valore costituzionale in cui il Capo dello Stato è lontano dalla politica, è il moderatore del discorso politico che altri conducono, nella teatralità dei luoghi a ciò deputati, e opera al fine di assicurare che la trama dei valori su cui si fonda il tessuto costituzionale non venga alterata.
Perde, invece, il valore e diventa una vera e propria preoccupazione costituzionale quando serve a coprire un discorso apertamente politico, come la decisione di introdurre una imposta patrimoniale o di aumentare l’Iva.
In altre parole, non basta dire: se erano conversazioni riservate, allora non ci si deve preoccupare (Azzariti in una intervista a Radio Popolare di questa mattina), ma si deve vedere se il Capo dello Stato esprime in forma riservata quello che davvero può essere espresso in confidenza.
Altrimenti, finisce per ricordare quegli avvocati che usano la formula “riservato e confidenziale” non per formulare proposte transattive ma per lanciare invettive contro il collega o il cliente del collega, nella tranquillità di scrittura che offre la coscienza della sua non producibilità in giudizio.