Il “connubio” e le riforme costituzionali nella questione di fiducia
1 – L’avvento di Renzi al governo può far pensare molto.
Se si avesse ancora voglia di pensare.
Le prime riflessioni sono di carattere politico: non è chiaro se il coraggio “gagliardo” di Renzi (l’espressione è della Michaela Biancofiore), con cui per la prima volta forse dal 1861 il leader dello schieramento opposto a quello al Governo trova una legittimazione nella forza di maggioranza relativa, possa effettivamente superare la grande anomalia italiana, per cui il sistema è bloccato su di una maggioranza sostanzialmente inevitabile perché l’alternativa viene dipinta come antisistema.
Non è chiaro.
Ma è coraggioso e lo si deve riconoscere.
Come pure si deve riconoscere che ve ne era bisogno.
Il problema è che da questo riconoscimento rischia di nascere un ennesimo “connubio”, un movimento in cui i centri dei due schieramenti contrapposti si uniscono e determinano l’uscita di scena delle ali estreme, sul modello dell’accordo del 1852 fra Cavour e Rattazzi, ma anche del Patto Gentiloni o del tentativo di Giolitti di portare Turati al governo.
Un modello molto vicino al sentire italiano, ma molto lontano da una politica “gagliarda”.
Soprattutto un modello che non potrebbe sopravvivere senza il trasformismo: la formula è di Depretis e risale al 1882.
Insomma, vi è molto di nuovo nelle parole di Renzi, ma la sua formula potrebbe suonare dannatamente vecchia.
Anche se, forse, il nostro paese ha forse più bisogno del vecchio, che del nuovo, perché è nella rivitalizzazione delle tradizioni che può crescere una democrazia, anche se le nostre si chiamano trasformismo, crisi di regime e crisi di sistema.
2 – Sul piano più strettamente costituzionale, il discorso di Renzi ha un’eco straordinaria perché le dichiarazioni programmatiche del Presidente del Consiglio incaricato non hanno riguardato semplicemente la politica.
Hanno riguardato il disegno costituzionale complessivo presente nella seconda parte della Costituzione.
Il Presidente del Consiglio ha detto chiaramente che la seconda parte deve essere trasformata radicalmente.
In primo luogo, deve scomparire il Senato come organo elettivo ed essere sostituito da una camera di membri di diritto, coincidenti con i sindaci delle maggiori città.
In secondo luogo, deve essere controriformato il Titolo V della Costituzione, eliminando un regionalismo troppo forte, all’origine di troppi conflitti, arbitrati da una Corte costituzionale che diventa in questo modo a sua volta troppo forte.
In terzo luogo, deve essere riformato il sistema elettorale, garantendo la formazione di maggioranze stabili nella prima camera, l’unica chiamata a votare sulla manovra finanziaria dello Stato e a concedere la fiducia.
Da ultimo, deve essere drasticamente ridotto il numero dei parlamentari.
Sono scelte coraggiose.
In un certo senso ragionevoli: se si desidera abbandonare un bicameralismo perfetto, la scelta per una seconda camera formata dai sindaci potrebbe non essere irragionevole, perché l’elezione diretta dei sindaci ha dato buona prova di sé e ha consentito la costruzione di un ufficio non soltanto politico, di un ruolo di unificazione all’interno delle comunità locali.
Egualmente, non è irragionevole, in un tempo di crisi, pensare che la storia di Italia è la storia faticosa di una unità non sempre raggiunta e spesso tradita, sicché ripensare alle spinte centripete e centrifughe arbitrare dalla Corte costituzionale nel contenzioso Stato / regioni è una cosa meritevole.
Sulla riforma elettorale, vi è poco da dire. Se la legge 270/2005 è stata quello che è stata nelle parole del suo artefice, non è che con il sistema proporzionale uscito (ma è davvero uscito?) dal terremoto costituzionale si possa fare molto.
Ancora meno si deve dire sul numero dei parlamentari. E’ davvero banale osservare che se gli italiani sono circa 60 milioni una rappresentanza di mille, duemila o cento cambia pochissimo nella piramide del potere, che è sempre tremendamente lontano dal popolo.
Quello che dispiace osservare è che il governo non ha semplicemente preso parte al disegno di riforma costituzionale.
Lo ha impostato nel momento in cui ha chiesto la fiducia al Parlamento.
Si deve ricordare, perché invecchiando si diventa conservatori, che mai il governo presentò una sola proposta all’Assemblea costituente e, forse, è davvero la prima volta che un Governo si presenta al Parlamento chiedendo la fiducia sull’abolizione della Camera che la vota.
Senz’altro, si può far tutto, ma quando si fa una cosa che nessuno ha fatto prima, di solito, conviene stare attenti, soprattutto se si parla a braccio.
Dal punto di vista di queste righe, il governo non può chiedere la fiducia su una riforma costituzionale, non può far diventare la Costituzione e la sua revisione oggetto delle proprie dichiarazioni programmatiche, perché la Costituzione non può essere oggetto dell’indirizzo politico di maggioranza.
Non lo poteva essere nel 1946 – 1947, quando il governo era di larghe intese, più o meno come adesso, e non lo può essere neppure oggi, quando il governo si propone di seguire un doppio binario, a seconda che si tratti della materia costituzionale o della propria azione politica.
Ma non si può negare che chiedere al Senato di votare la fiducia sulla propria eliminazione sia “gagliardo”.
Più o meno come rivendicare, in un’aula non molto distante, un omicidio…
3 – L’ultima riflessione è di tattica parlamentare.
Nella tattica parlamentare, la mozione di fiducia è una mozione motivata per relationem alle dichiarazioni programmatiche “lette” dal Presidente del Consiglio dei Ministri, che una volta terminata la lettura porta il proprio discorso “scritto” all’altra camera, in modo che sia possibile la discussione nell’altro ramo del Parlamento, dove interviene al termine del dibattito per la replica.
Così, in assenza di una previsione regolamentare: il regolamento della Camera e quello del Senato non prevedono che le dichiarazioni programmatiche debbano essere scritte, è sempre stato.
Renzi ha innovato profondamente su questa prassi, che, forse, aveva la struttura di una vera e propria convenzione.
Lo ha fatto parlando a braccio, anche se una certa timidezza dei dattilografi del Senato ha depurato alcune parti del suo intervento e, forse, corretto le intemperanze sintattiche che emergevano durante la diretta parlamentare.
Questa volta, forse, Renzi ha profondamente rispettato l’autonomia del Parlamento: parlando a braccio, ha dimostrato di non voler costruire il proprio discorso su delle alchimie, ma di voler dire quello che pensava, lasciando libero il proprio interlocutore di interpretare al meglio il proprio pensiero.
Vi è, infatti, una profonda differenza fra leggere un testo scritto e parlare direttamente al proprio uditorio. Nel primo caso, non si condivide il proprio pensiero, ma lo si espone. Nel secondo caso, il pensiero che si illustra non può non cambiare, in tono, registro e forse anche contenuto, a seconda delle reazioni del proprio uditorio.
Probabilmente, è una innovazione che avrebbe voluto preludere a una ulteriore innovazione nelle prassi parlamentari. Come si sa, entrambi i rami del Parlamento costruiscono la relazione fiduciaria su di una mozione che viene presentata subito dopo la discussione sulle linee programmatiche illustrate dal Presidente del Consiglio da alcuni membri – i più autorevoli – della sua maggioranza.
Questa mozione è motivata per relationem. Una cosa del genere: La Camera, udite le dichiarazioni programmatiche del Presidente del Consiglio, le approva…
Ma il contenuto di questa mozione non dovrebbe cambiare nel momento in cui le dichiarazioni programmatiche del Presidente del Consiglio non sono un testo scritto, che si presta a essere richiamato per relationem, proprio perché scritto, ma un discorso orale? Che cosa significa approvare un discorso orale?
La sostanza della mozione di fiducia, forse, cambia, se le dichiarazioni programmatiche sono orali e non scritte.
Non dovrebbe più contenere una semplice motivazione per relationem, ma dovrebbe chiarire perché quelle dichiarazioni programmatiche così come esposte dal Presidente del Consiglio meritano di essere approvate.
Forse era questo che Renzi avrebbe voluto dal Parlamento: lo sforzo di costruire la relazione di fiducia su un piano paritario. Dopo che il Premier ha parlato, il Parlamento discute il contenuto della mozione di fiducia e nell’elaborazione di questa mozione evidenzia quali sono gli aspetti dell’azione governativa su cui intende esprimere la propria fiducia.
Si tratta di raccogliere l’invito di un lontano Malagodi che in questo senso si espresse nella seduta del Senato dell’11 dicembre 1982, o i precedenti dei governi Spadolini del 1981 e del 1982, ma anche il Fanfani V.
Forse, infatti, la fiducia “orale” non ha molto senso, se non si recupera il significato profondo della mozione di fiducia come atto proveniente dall’autonomia parlamentare.
E qui, non è stato Renzi a fare un passo falso, ma il Parlamento a non raccogliere un invito nello stesso tempo galante e “gagliardo”. Ma all’incapacità del Parlamento di leggere i tempi, purtroppo, ci andiamo abituando…