Il fantasma nel marchingegno (a proposito di voto segreto e decadenza di un ex candidato premier)
1 – Vi è un fantasma dietro la decisione della Giunta del regolamento di ieri, che ha stabilito, con la maggioranza di un solo voto e comunque a maggioranza, il voto palese per la decisione dell’assemblea in punto di convalida della elezione di Silvio Berlusconi.
Il fantasma, come spesso accade in questa nostra repubblica, è di Craxi. Fu Craxi nel 1988 a considerare il voto palese come una condizione imprescindibile (morale, politica e etica) per la sopravvivenza di un governo a guida socialista, contro la volontà di DC e PCI e fu Craxi ad esserne travolto, proprio nello stesso torno di giorni del precedente più volte evocato dal senatore Russo nella relazione approvata dalla Giunta del regolamento.
Il fantasma, come spesso accade in questa nostra repubblica, è di Craxi.
Nel primo caso, il marchingegno Craxi era funzionale a impedire che il governo diventasse ostaggio del voto segreto e a costringere i singoli parlamentari a dichiarare apertamente al proprio gruppo quali fossero i propri intendimenti: Ho illustrato al capo dello Stato la posizione dei socialisti italiani impegnati a sostenere una riforma di alto valore politico, morale e funzionale. In questa circostanza i socialisti difendono ad un tempo un principio, una politica ed un punto essenziale del programma della coalizione di governo. La loro azione si svolge nel più rigoroso rispetto delle regole, a partire dalla Costituzione (in questi termini, il comunicato stampa in cui Craxi riassumeva il senso del colloquio del 30 settembre 1988 con Cossiga sull’abolizione del voto segreto in parlamento).
Ci si deve ricordare che, allora come oggi, la battaglia per il voto segreto era condotta sulla base del contenuto dell’art. 67, Cost. (il principio per cui ciascun membro del Parlamento rappresenta l’intera nazione e perciò non può essere costretto a rispettare direttive vincolanti da parte di una parte soltanto della nazione), mentre la battaglia per il voto palese si fondava sull’affermazione di un’etica della responsabilità, in cui ciascun membro del Parlamento accetta di rappresentare la nazione perché è disponibile a dichiarare alla nazione quali saranno i suoi comportamenti.
Ci si deve ricordare che, allora come oggi, la battaglia per il voto segreto era condotta sulla base del contenuto dell’art. 67, Cost. (il principio per cui ciascun membro del Parlamento rappresenta l’intera nazione e perciò non può essere costretto a rispettare direttive vincolanti da parte di una parte soltanto della nazione), mentre la battaglia per il voto palese si fondava sull’affermazione di un’etica della responsabilità, in cui ciascun membro del Parlamento accetta di rappresentare la nazione perché è disponibile a dichiarare alla nazione quali saranno i suoi comportamenti.
Ci si deve ricordare infine che nessuno vinse la battaglia sul marchingegno Craxi, come lo chiamava l’Unità di quegli anni: ci si assestò sulla linea dei partiti laici minori che accettavano il principio del voto palese, con alcune limitate eccezioni (i voti sulle libertà individuali e i voti sulle persone, principalmente, ma per Biondi e La Malfa anche le questioni in materia di legge elettorale e, in generale, costituzionale).
Nella riforma regolamentare del 1988, quindi, si è affermato il principio della prevalenza del voto palese, ma questo principio non è assoluto, perché riguarda inderogabilmente solo le ipotesi in cui si faccia questione di un problema che riguarda la formazione dell’indirizzo politico e non fanno parte dell’indirizzo politico (né di maggioranza, né di minoranza) le questioni che riguardano i diritti civili o le singole persone.
2 – Nel secondo caso, il voto segreto ha travolto Craxi e con Craxi la prima repubblica.
E’ pacifico che fino al 1993 le votazioni in materia di immunità ai sensi di 68, primo, secondo e terzo comma, dovevano essere svolte a scrutinio segreto perché riguardavano persone.
Il 6 maggio 1993, la Giunta del regolamento – su proposta del Presidente del Senato, Spadolini – ha stabilito il principio opposto con riferimento all’art. 68, primo comma: si tratta di deliberazioni che devono essere assunte a scrutinio palese perché riguardano il rapporto fra il Parlamento e il potere giudiziario e, quindi, il prestigio dell’assemblea nel suo interagire con gli altri poteri dello Stato.
Per la Giunta del regolamento del Senato, le deliberazioni stesse costituiscono espressione di una prerogativa dell’Organo parlamentare nell’ambito del rapporto con altri Organi dello Stato e dunque non rappresentano in senso proprio “votazioni riguardanti persone” mentre al contrario dovevano continuare ad essere considerate votazioni riguardanti persone quelle che riguardavano le autorizzazioni alle limitazioni della libertà personale dei senatori, ai sensi di 68, secondo e terzo comma.
Si deve osservare, però, che questa decisione si comprende poco se non la si pone nel contesto di allora, in un contesto nel quale il discorso di Craxi sulla propria responsabilità penale aveva trasformato la questione sull’autorizzazione a procedere nei suoi confronti da un fatto personale a un fatto politico e politico in senso alto e aveva focalizzato intorno a questo tema tutto il dibattito in materia di applicazione dell’art. 68.
Per Craxi, il problema era politico ed era la rivendicazione di una responsabilità politica contro l’affermazione di una via giurisdizionale alla verità che riteneva inadeguata: Mi chiedo come e quando tutto questo si concili con la verita’, che rapporto abbia con la verita’ storica, con gli avvenimenti e le fasi diverse e travagliate che abbiamo attraversato e nelle quali molti di noi hanno avuto responsabilita’ politiche di governo di primo piano. Davvero siamo stati protagonisti, testimoni o complici di un dominio criminale? Davvero la politica e le maggioranze politiche si sono imposte ai cittadini attraverso l’attuazione ed il sostegno di disegni criminosi?, disse alla Camera dei Deputati nel suo discorso del 29 aprile 1993.
Ed è proprio questo discorso che consente di comprendere perché il voto sulle autorizzazioni a procedere in quel contesto non poteva essere considerato un voto sulle persone, non tanto perché riguardava il prestigio dell’organo nel suo riferirsi agli altri poteri dello Stato, ma perché riguardava l’essenza di un discorso politico: l’affermazione dell’autonomia della politica rispetto all’azione penale, in un sistema in cui se il politico rinuncia al privato (tutto è politica nel modello argomentativo del leader socialista, anche il privato), allora anche gli eventuali misfatti che lo stesse compie non sono comuni misfatti, sono il risultato di un discorso politico.
Si può non essere d’accordo, ma l’affermazione del voto palese in materia di autorizzazioni a procedere è la presa di coscienza da parte del Parlamento del problema politico e non personale che le stesse pongono (o meglio: ponevano con viva forza negli anni in cui questo parere fu elaborato, fra i vivi applausi del PSI e del MSI-DN) e un problema di questo genere deve essere risolto dall’assemblea in maniera trasparente verso la pubblica opinione.
3 – Molto si è speso in questi giorni per giustificare il voto segreto con i principi in materia di libero mandato parlamentare.
Probabilmente a sproposito.
Nel sistema dello Statuto Albertino, ma anche fino alla riforma regolamentare del 1971, si poteva ragionevolmente sostenere che il voto segreto, imposto dall’art. 63 dello Statuto per la votazione finale sui disegni di legge, fosse un presidio della libera autonomia che caratterizza il rapporto del membro del Parlamento con la nazione che rappresenta: in quel sistema, il voto segreto era la regola perché come il parlamentare non poteva sapere chi lo aveva eletto, perché il voto dell’art. 48, Cost. è personale, libero e segreto, ma altrettanto personale, libero e segreto era il voto dello Statuto Albertino, così il cittadino non poteva sapere come il singolo parlamentare aveva votato.
La ratio del voto segreto nel tessuto statutario si trova illustrata nel famoso intervento di Di Rudinì nella seduta della Camera del 17 aprile 1888 (su cui: LONGI-STRAMACCI, Il regolamento della Camera dei deputati illustrato con i lavori preparatori, Milano 1968, pp. 176-179):
«Quando si dice che la votazione nominale educa il paese, educa il deputato, si dice qualche cosa di vero; ma si dice qualche cosa che è altrettanto vera, quando si afferma che spesse volte la coscienza di un deputato si trova talmente stretta e legata che non riacquista la sua indipendenza che non dinnanzi all’urna. Ma, ripeto, lasciamo da parte queste argomentazioni: la ragione vera è questa, che, dacché esiste la Camera italiana, mai e poi mai si è abusato della domanda di scrutinio segreto… Ora io credo che, quando noi vogliamo riformare il nostro regolamento, dobbiamo farlo soltanto in quelle parti in cui il regolamento presente abbia dato luogo ad inconvenienti».
Il principio del libero mandato parlamentare si impone nella sua assolutezza ad ogni prerogativa e attività dei membri del Parlamento, sicché sarebbe davvero assurdo sostenere che lo stesso sia presidiato in una elezione mediante schede (ad esempio nell’elezione dei membri non togati del CSM o dello stesso Capo dello Stato) e non dovesse, invece, valere per la votazione del disegno di legge di bilancio.
In questo contesto, il ricorso al voto segreto si è già allontanato dalla tutela della libertà di coscienza e di mandato del deputato, è già divenuto una questione di tattica parlamentare, nel senso per cui le norme parlamentari sono la forma di un discorso politico e perciò rappresentano lo strumento per dare ordine all’attività di sintesi politica che il Parlamento è chiamato a svolgere attraverso i suoi dibattiti e i suoi voti.
Le ragioni del voto segreto emergono con continuità nel dibattito in assemblea costituente sull’ammissibilità della richiesta di voto segreto a proposito dell’emendamento che eliminava l’aggettivazione “indissolubile” dal matrimonio (23 aprile 1947). In quella occasione, il problema era se la costituzione potesse essere trattata con il voto segreto, se il principio del libero mandato parlamentare consentisse di tollerare il voto segreto quando si discuteva di questioni importanti come il divenire del testo costituzionale nella sua formazione letterale e si affermò che questo era possibile, non tanto perché la formulazione di un testo costituzionale determini un particolare atteggiamento del mandato parlamentare ma semplicemente perché lo prevedeva il regolamento e il regolamento deve essere rispettato. Così, infatti, Togliatti:
«Noi non abbiamo chiesto il voto segreto e non ce ne importa nulla, perché il nostro voto è pubblico; l’abbiamo dichiarato (Commenti). Noi non vogliamo il divorzio, ma non vogliamo nemmeno che si includa la dichiarazione di indissolubilità del matrimonio in questo articolo della Costituzione […] Noi siamo 104 comunisti. Siamo una minoranza. Guai se ammettessimo che si violi il regolamento della Camera. Il regolamento della Camera è il presidio della nostra libertà. Per questo, se è stata chiesta la votazione segreta, la votazione segreta si deve fare».
Vi è una forte continuità fra le posizioni di Di Rudinì e di Togliatti, che non possono certo essere considerati faziosi sodali di una stessa corrente politica: il voto segreto ha a che fare con la fedele applicazione delle norme regolamentari, che è necessaria a tutela delle minoranze, punto sul quale, peraltro, i due avevano una opinione nettamente diversa e assai distante, mentre ha ben poco a vedere con la tutela del libero mandato parlamentare, che è una questione di coscienza del singolo membro del Parlamento.
La sostanza del voto segreto e del voto palese è che il primo può essere giustificato, può consentire un’attenuazione dell’etica della responsabilità che deve governare ogni attività parlamentare, solo nel caso in cui corrisponda ad un interesse dell’ordinamento lasciare piena libertà di coscienza ai membri del Parlamento in una determinata decisione.
D’altra parte, il principio del libero mandato parlamentare si impone nella sua assolutezza ad ogni prerogativa e attività dei membri del Parlamento, sicché sarebbe davvero assurdo sostenere che lo stesso sia presidiato in una elezione mediante schede (ad esempio nell’elezione dei membri non togati del CSM o dello stesso Capo dello Stato) e non dovesse, invece, valere per la votazione del disegno di legge di bilancio.
Se il libero mandato parlamentare si tutela con il voto segreto, allora, non si capisce perché questa prerogativa debba valere solo in alcuni casi e non sempre.
4 – La sostanza del voto segreto e del voto palese è che il primo può essere giustificato, può consentire un’attenuazione dell’etica della responsabilità che deve governare ogni attività parlamentare, solo nel caso in cui corrisponda ad un interesse dell’ordinamento lasciare piena libertà di coscienza ai membri del Parlamento in una determinata decisione.
Questo non accade ogni volta in cui la decisione sia una decisione politica, perché in questo caso il discorso politico del Parlamento deve apparire con tutta evidenza dinanzi all’opinione pubblica che ha affidato ai suoi rappresentanti la formazione della propria volontà.
Questo accade, invece, ogni volta in cui la decisione deve essere presa secondo coscienza, perché non è una decisione politica, ovvero è un’attribuzione che riguarda la posizione di autonomia del Parlamento nel sistema ma non la propria funzione di canale privilegiato di espressione della rappresentanza.
Sembrerebbe questo il principio che consente di risolvere, in termini diametralmente opposti alla decisione della Giunta del regolamento del Senato del 30 ottobre 2013, la questione delle modalità di voto sulla decadenza di un senatore per incandidabilità sopravvenuta.
Se è una decisione politica, questo significa che il Parlamento è libero e gode di un’ampia discrezionalità nell’interpretazione del d.lgs. 235/2012, perché non decide della trasformazione di una volontà astratta in concreta di legge attraverso la compilazione secondo coscienza della premessa maggiore e della premessa minore del sillogismo, ma decide su una controversia politica, di un conflitto fra legge, politica e magistratura e lo decide secondo la propria sensibilità che è una sensibilità politica.
In questo caso, il voto deve essere palese.
Se, invece, non è una decisione politica, perché il Parlamento deve solo stabilire se il candidato ha subìto una condanna che impedisce allo stesso di coprire una carica elettiva, allora questa decisione deve essere coperta dal voto segreto, perché è segreto il voto del giudice quando applica la legge e questa segretezza è un presidio di indipendenza, quella stessa indipendenza che è intollerabile in una decisione politica, dopo l’abbandono della logica statutaria che si è ricordata.
5 – La Giunta del regolamento del Senato, perciò, non ha deciso che il voto sulla decadenza di un senatore riguarda il prestigio dell’istituzione.
Ha coperto con quest’argomentazione, come già era accaduto nel 1993, una verità molto più inconfessabile: il fatto che oggi come allora il fatto personale del singolo membro del Parlamento non è un fatto personale, è un problema politico.
Perché allora non si discuteva del prestigio dell’assemblea, ma della sopravvivenza di una classe politica che si era macerata nella palude del pentapartito, del problema politico posto da chi aveva per anni condotto la propria battaglia per il consenso attraverso un finanziamento illecito, ma che ciononostante aveva garantito la sopravvivenza delle istituzioni repubblicane nella stagione del terrorismo.
La Giunta del regolamento del Senato, perciò, non ha deciso che il voto sulla decadenza di un senatore riguarda il prestigio dell’istituzione. Ha coperto con quest’argomentazione, come già era accaduto nel 1993, una verità molto più inconfessabile: il fatto che oggi come allora il fatto personale del singolo membro del Parlamento non è un fatto personale, è un problema politico.
Esattamente come oggi non si discute del prestigio dell’assemblea, ma della possibilità per la magistratura di penetrare i segreti di un uomo che più di ogni altro negli ultimi venti anni ha saputo incarnare il consenso popolare e, nello stesso tempo, della possibilità per il legislatore di colpire i diritti politici di quest’uomo, della giustizia sostanziale e politica di una legge che impedisce al protagonista della politica di questi ultimi venti anni di mantenere il proprio ruolo.
In altre parole, la Giunta del regolamento del Senato ha deciso che la decisione sulla contestazione dell’elezione del senatore Berlusconi non riguarda l’applicazione secondo coscienza del d.lgs. 235/2012, ma riguarda la soluzione di un problema politico, che come tale deve essere svolta a scrutinio palese, e questo problema politico è la giustizia sostanziale del principio su cui si basa il d.lgs. 235/2012, per cui chi ha subito una condanna per determinati reati non può incarnare l’etica della rappresentanza partecipando al gioco elettorale.
Ma dietro questa decisione non vi è la consapevolezza che queste decisioni riguardano il prestigio dell’organo astrattamente considerato, vi è una diversa verità: esse riguardano la tutela del prestigio dell’organo contro quei suoi membri che, con i loro comportamenti, la mettono continuamente a repentaglio.
6 – Eppure questo discorso lascia insoddisfatti.
Lascia insoddisfatti come l’espressione “giudicato parlamentare” che si usa per le decisioni in materia di elezioni contestate e che suona come un ossimoro.
Il giudicato è il risultato di un’applicazione anonima della legge, l’applicazione che ne fa il potere giurisdizionale, in cui non deve importare chi è stato il giudice, ma solo che vi è stato un giudice a pronunciarsi in una posizione di assoluta e anonima terzietà.
Questa interpretazione non sarà anonima e non avrà perciò la forza di imporsi come se fosse la mera trasformazione di una volontà astratta di legge in concreta.
Sarà, e lo sarà sempre, una decisione di parte, che consentirà agli uni di considerarla una vittoria politica e agli altri una persecuzione, quasi un pogrom.
Il voto deve essere palese perché riguarda un problema politico. Ma, in una repubblica diversa dalla nostra, in una repubblica ideale, in cui il Parlamento opera la convalida degli eletti applicando la legislazione elettorale, ponendosi come l’interprete e l’attuatore di questa legislazione, allora il voto non dovrebbe essere palese, perché il discorso non dovrebbe essere politico, dovrebbe essere lo svolgimento da parte del Parlamento di una funzione sostanzialmente giurisdizionale, in una posizione di sostanziale terzietà rispetto agli interessi in gioco
Tutto questo porta a chiedersi quale sia oggi il valore del giudicato parlamentare in materia di convalida delle elezioni.
E non è probabilmente una risposta univoca, perché diversi sono i casi della vita in cui il Parlamento è chiamato a pronunciarsi e diverso è quindi il valore di questa decisione.
Ciò che ha reso il voto sulle autorizzazioni a procedere palese nel 1993 non è stato il prestigio dell’assemblea nel rapporto con gli altri poteri dello Stato, questa giustificazione, se vale, vale anche per le autorizzazioni al provvedimento di cui al 68, secondo e terzo comma.
E’ stata la forza del problema politico, di indirizzo politico perché collegato alla stessa essenza della interpretazione della rappresentanza, posto da Craxi in quella tormentata primavera del 1992.
Egualmente ciò che rende palese il voto sulla decadenza di Berlusconi, un voto che ha la sostanza di una nuova approvazione parlamentare dei principi espressi all’art. 1, commi 64 e 65, legge 190/2012, è la forza del problema politico posto dalla applicazione di una legge che affida al giudice penale il compito di definire chi e chi non è eleggibile.
In questi casi, il voto deve essere palese perché riguarda un problema politico.
Ma, in una repubblica diversa dalla nostra, in una repubblica ideale, in cui il Parlamento opera la convalida degli eletti applicando la legislazione elettorale, ponendosi come l’interprete e l’attuatore di questa legislazione, allora il voto non dovrebbe essere palese, perché il discorso non dovrebbe essere politico, dovrebbe essere lo svolgimento da parte del Parlamento di una funzione sostanzialmente giurisdizionale, in una posizione di sostanziale terzietà rispetto agli interessi in gioco.
7 – Resta un’ultima domanda: ma davvero l’art. 66, Cost. nel riservare la funzione di controllo sulle operazioni elettorali al Parlamento è una disposizione costituzionalmente necessaria? Si sa che nasce in un contesto diverso da quello attuale, il contesto in cui la riserva di attribuzione in materia di controllo sullo svolgimento delle operazioni elettorali si giustificava con il principio logico per cui la sovranità elettorale non può conoscere altro giudice che non sia chi è stato eletto, perché altrimenti il popolo non sarebbe più sovrano. Si sa anche che questo principio, nel momento in cui il popolo esercita la propria sovranità nei limiti del tessuto costituzionale, ha perso gran parte della propria forza idealmente giacobina.
Esiste anche un’altra giustificazione di questa riserva di attribuzioni, ed è collegata al principio di separazione fra i poteri, alla necessità che il Parlamento non possa essere considerato subordinato al potere della magistratura, allora collegata organicamente all’esecutivo. E, forse, questa necessità esiste ancora oggi, non più perché la magistratura è collegata organicamente all’esecutivo, ma perché è divenuta troppo indipendente e troppo irresponsabile.
Eppure, purtroppo, esiste anche un’altra giustificazione di questa riserva di attribuzioni, ed è collegata al principio di separazione fra i poteri, alla necessità che il Parlamento non possa essere considerato subordinato al potere della magistratura, allora collegata organicamente all’esecutivo.
E, forse, questa necessità esiste ancora oggi, non più perché la magistratura è collegata organicamente all’esecutivo, ma perché è divenuta troppo indipendente e troppo irresponsabile.
E, forse, in questa logica, il principio di cui all’art. 66, Cost. dovrebbe suonare come un’assunzione di responsabilità, piuttosto che come la rivendicazione di un privilegio…