Patienda meliorum impera (la sfiducia individuale non è mai individuale)
L’affaire Shalabayeva è stato trattato lungamente nelle aule parlamentari.
Lo è stato il 16 luglio, in Senato, Informativa urgente del Ministro dell’interno sul caso di Alma Shalabayeva e conseguente discussione, quando il ministro dell’interno ha dato conto della inchiesta interna affidata al Prefetto Pansa.
Lo è stato il 19 luglio, sempre in Senato, quando è stato discussa e respinta la mozione di sfiducia individuale del ministro dell’interno dopo una lunga discussione.
Il caso, in sé, è abbastanza semplice: il signor Ablyazov è un latitante kazakho definito pericoloso dal suo paese e, nello stesso tempo, un oppositore del proprio regime. Il confine fra criminalità e dissidenza, senza scomodare Sakharov, può essere molto sottile e non è impossibile che il signor Ablyazov possa essere considerato come una personalità dai tratti ambigui, che opera in un paese dai tratti altrettanto ambigui e che è governato da un autocrate ancora più ambiguo.
Le autorità kazakhe hanno ragione di ritenere che abbia trovato rifugio in Italia, chiedono la collaborazione della nostra polizia, che mette sotto sorveglianza l’abitazione e si accorge in questa circostanza che ci sono già gli israeliani che stanno sorvegliando la villa, viene fatta una irruzione, il latitante non viene rintracciato, ma viene rintracciata la figlia e la moglie che vengono affidate alle autorità del paese di origine che le rimpatriano in grande fretta.
La questione politica che questo caso pone è se la repubblica italiana possa consentire che la moglie e la figlia di una persona che potrebbe essere sia un dissidente che un criminale, ma che in ogni caso è ricercata in un paese ragionevolmente sospettato di non essere la culla dei diritti dei detenuti, siano rimpatriate e se, una volta data risposta negativa a questa domanda, si possa tollerare la permanenza del ministro dell’interno il cui dicastero è stato responsabile del rimpatrio.
La sostanza di questo problema è stata ben definita dal primo firmatario della mozione di sfiducia, il senatore Giarrusso:
Adesso, noi possiamo dire che l’articolo 95 della Costituzione stabilisce che: «I Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri, e individualmente degli atti dei loro dicasteri», ministro Alfano. Lei, per l’articolo 95 della Costituzione, è responsabile; a che titolo sarà sicuramente accertato in altre sedi, come è stato per Abu Omar, ma lei, qua dentro, in questa Aula, signor ministro Alfano, lei, per la nostra Costituzione è responsabile di quanto è accaduto.
L’articolo 54 della Costituzione recita infatti solennemente che «Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica e di osservarne la Costituzione e le leggi», signor Ministro dell’interno. I cittadini poi, come lei, cui sono affidate funzioni pubbliche, hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore.
Mi chiedo, signor ministro Alfano, quale disciplina, quale onore c’è nel rapire una donna indifesa e una bambina con tutto quel dispiegamento di mezzi. Ce lo spieghi in quest’Aula con parole sue.
È stato detto che c’è uno stato di necessita, che c’è la crisi e che non possiamo compromettere il suo Governo. Ma voi vi rendete conto quale vaso di Pandora demoniaco si apre in questo modo? Se è stato fatto tutto questo nei confronti di una bambina e di una donna per mero interesse economico, che cosa potrà accadere all’aggravarsi della crisi? Noi questo lo dobbiamo impedire, perché questo non è uno stato di necessità, non è una cosa che possiamo accettare.
Voi, onorevoli colleghi, avete oggi la possibilità di scegliere, di uscire da quest’Aula a testa alta, fieri di aver difeso il nome del nostro Paese e di aver messo un argine alla barbarie che un domani potrà colpire tutti noi. La signor Alma e sua figlia Alua non hanno avuto questa scelta.
Nello stesso tempo, la sostanza politica della questione è anche un’altra: se il nostro Paese sta attraversando un momento di crisi eccezionale, se l’unico governo che questa italietta può avere è formato dalla coalizione delle due maggiori forze, che elettoralmente sono chiamate a formare rispettivamente governo e opposizione e non a unirsi, con tutte le evidenti tensioni che il movimento elettorale scatena sull’art. 67, Cost., è possibile adottare nei confronti del ministro Alfano lo stesso atteggiamento che Dini ebbe per Mancuso tramite Motzo (il Governo si rimette al giudizio dell’assemblea per la fiducia a un suo ministro richiamando la propria specificità «tecnica»: «anche in considerazione del fatto di essersi formato al di fuori di una maggioranza politica precostituita»)?
Pare di no, e in questo senso il richiamo alla ragione di stato presente nelle parole del Senatore Russo:
È nostro dovere, allora, parlare agli italiani con il linguaggio della verità e del coraggio; il coraggio di ammettere che in questo Paese è successo qualcosa di abnorme; che si sono lasciate compiere a diplomatici ed esponenti di un Paese straniero pressioni e interferenze incomprensibili perfino se inquadrate, senza ipocrisie, nei rapporti complessi con una realtà strategica per i nostri approvvigionamenti di energia; e che molto va rivisto nei servizi di sicurezza e nella loro catena di comando, per evitare che fatti simili possano ripetersi fuori dal controllo dell’autorità politica.
Il coraggio – e mi rivolgo al ministro Alfano di cui non ci sfugge il ruolo di equilibrio istituzionale e di leale sostegno al Governo – di dire che in un contesto normale, in qualunque altra situazione diversa dall’emergenza economico-politica che vive il nostro Paese, le sue dimissioni sarebbero state la strada maestra ed obbligata. Siamo certi per la sua lunga esperienza politica che lo sa anche lui.
Lo diciamo, però, riconoscendo che oggi, in questo caso, non è corretto invocare la responsabilità oggettiva e che non abbiamo alcun dubbio rispetto alle conclusioni della relazione del Capo della Polizia che escludono ogni diretto o indiretto coinvolgimento del Ministro nel blitz di Casal Palocco.
Eppure la ragione di stato sarebbe una cosa diversa, anche nel suo teorico maggiore che (Giovanni Botero, Della ragione di stato, Venezia, Gioliti, 1589) la definiva come: notitia di mezi atti a fondare, conservare et ampliare un dominio. Egli è vero che, se bene, assolutamente parlando, ella si stende alle tre parti sudette, nondimeno pare, che più strettamente abbracci la conservatione che l’altre, e dell’altre due più l’ampliatione che la fondatione. E la causa si è perché la ragione di Stato suppone il prencipe e lo Stato, che non suppone, anzi precede affatto, la fondatione, come è manifesto, e l’ampliatione in parte: ma l’arte del fondare e dell’ampliare è l’istessa; perché chi amplia giuditiosamente ha da fondare quel che amplia e da fermarvi bene il piede. Ma nello stesso tempo la giustificava con il fatto che il governo fosse effettivamente affidato ai migliori (patienda meliorum impera, nelle parole che Tacito nel tredicesimo libro degli annali mette in bocca ad Avito): quel che mi moveva non tanto a meraviglia quanto a sdegno si era il vedere che così barbara maniera di governo fosse accreditata in modo che si contraponesse sfacciatamente alla legge di Dio, sino a dire che alcune cose sono lecite per ragione di Stato, altre per conscienza. Del che non si può dir cosa né più irrationale né più empia, con ciò sia che chi sottrae alla conscienza la sua giuridittione universale di tutto ciò, che passa tra gli uomini, sì nelle cose publiche, come nelle private, mostra che non have anima né Dio. Sino alle bestie hanno uno istinto naturale, che le spinge alle cose utili, e le ritira dalle nocevoli, et il lume della ragione e’l dettame della conscienza, dato all’uomo per saper discernere il bene, e’l male, sarà cieco negli affari pubblici, difettoso ne’ casi d’importanza? Spinto io non so se da sdegno o da zelo, ho più volte avuto animo di scrivere delle corruttioni introdotte da costoro ne’ governi e ne’ consigli de’ prencipi; onde hanno avuto origine tutti gli scandali nati nella Chiesa di Dio e tutti i disturbi della cristianità.
Sempre sul piano politico che qualcosa non ha funzionato è evidente dalle stesse parole del ministro Alfano che il 16 luglio 2013 ha introdotto la sua risposta alla interrogazione sull’affare Shalabayeva con questa premessa: Sono qui per riferire di una vicenda della quale non ero stato informato, della quale non era stato informato nessun altro collega del Governo, della quale non era stato informato il Presidente del Consiglio. E sono qui per riferire, attraverso la relazione finale dell’inchiesta interna condotta, come e perché questo sia potuto accadere e cosa occorra fare perché ciò non abbia ad accadere mai più: cioè che un Ministro e l’intero Governo non vengano informati di una vicenda così rilevante.
Ma è una premessa falsa: il rapporto dell’inchiesta interna conclude per l’assenza di responsabilità politica perché è mancato il flusso ascendente di informazione dalla funzione amministrativa alla funzione politica e muove dallo stesso presupposto, con un movimento circolare in cui la verità che si intende dimostrare è la conclusione che si intende raggiungere, il movimento tipico della dimostrazione dei teoremi matematici o delle verità teologiche, ma non delle inchieste amministrative. In questi esatti termini le parole del prefetto Pansa: L’incarico affidato allo scrivente è quello di accertare la mancata. informativa al Governo sull’intera vicenda che, pur essendo pienamente regolare, “presentava sin dall’inizio elementi e caratteri non ordinari”. Tale incarico quindi è volto essenzialmente ad individuare dove si è fermato il flusso informativo ascendente. E’ evidente che in ordine alla prima parte della vicenda andrà verificato anche se tutti i funzionari di polizia coinvolti fossero a conoscenza che il .ricercato kazako fosse anche un dissidente politico nel suo paese. E’ altrettanto necessario che, in ordine alla parte amministrativa dell’intera vicenda, vengano verificate le modalità esecutive dell’espulsione che, al di la della loro chiara legittimità, evidenziano caratteri non ordinari. E così l’attenta critica del senatore Casson, nel suo intervento in occasione della discussione della mozione di sfiducia individuale: La prima sorpresa istituzionale si è avuta quando è stato incaricato degli accertamenti il ministro dell’interno Alfano: ma se una persona, qualsiasi persona, viene accusata o anche solo sospettata di essere implicata in una qualsiasi vicenda a torto o a ragione si vedrà), come può quella stessa persona essere responsabile degli accertamenti su sé stessa? «Mi dica, oste: è buono il suo vino?» (soprattutto se l’oste, come in questo caso, ha la forza di un Ministro-Vice Presidente del Consiglio).
Soprattutto, però, è una premessa storicamente falsa se si ha la pazienza di leggere il resoconto dell’inchiesta amministrativa del prefetto Pansa, non facilmente individuabile all’interno del sito del Ministero dell’Interno, malgrado le promesse di Alfano: si trova nella sezione Notizie, dove si legge che il 28 maggio, e quindi prima che l’affare iniziasse, II Ministro dell’Interno, a seguito di ulteriori telefonate dell’Ambasciatore, cui non ha risposto, fa incontrare lo stesso con il suo Capo di Gabinetto.
Di conseguenza, dal punto di vista storico, se Alfano non è venuto a sapere dell’affare Shalabayeva, ciò non è dipeso dal suo apparato che si è mosso autonomamente, ma dalla sua decisione di non occuparsene, di lasciare che lo stesso fosse trattato dal suo Capo di Gabinetto e, per esso, dalla squadra mobile, dalla Digos e dagli altri apparati variamente competenti nell’affare.
E questo pare essere tipicamente uno di quei casi in cui il ministro non può dire di non essere responsabile degli affari del proprio dicastero: è difficile negarlo se il dicastero agisce all’oscuro del ministro, ma è davvero impossibile negarlo se è stato lo stesso ministro ad affidare l’affare al proprio capo di gabinetto rifiutandosi di curarlo personalmente.
Ma questo accadrebbe in un mondo perfetto. Non nel mondo in cui operano Alfano, Letta e i loro colleghi di governo.
Di conseguenza, ci si deve chiedere – e questo è il problema di diritto costituzionale di cui si occupano queste righe – se sia possibile rileggere il problema della questione di fiducia individuale alla luce dell’affare Shalabayeva.
Nella prassi parlamentare, le mozioni di sfiducia individuale sono nate sotto forma di ordini del giorno, interrogazioni, mozioni, interpellanze, ovvero atti tipici e tipicamente diversi da una mozione di sfiducia nei confronti del singolo ministro, in cui la motivazione impegnava, nel caso di voto favorevole, alla dimissioni il singolo ministro.
Questa prassi aveva un senso perché consentiva all’assemblea il voto segreto, secondo la regola generale in vigore per le mozioni, e quindi costringeva il Governo a porre esplicitamente la questione di fiducia (F. Donati, La responsabilità politica dei ministri nella forma di governo italiana, Torino, Giappichelli, 1997).
La prassi è stata codificata da un parere della Giunta per il regolamento del Senato del 24 ottobre 1984, in cui si sono ritenute ammissibili le mozioni di sfiducia individuali (non essendovi disposizioni che espressamente disciplinassero eventuali strumenti di sfiducia individuale, il regime di tali atti avrebbe dovuto essere, analogicamente, quello previsto dall’articolo 94 della Costituzione e dall’articolo 161 del reg. Senato, riguardante la mozione di sfiducia al Governo) con la conseguente applicazione analogica delle regole di cui all’art. 94 della Costituzione e all’art. 161, reg. Senato (firma di almeno un decimo dei componenti dell’assemblea, motivazione, discussione dopo non meno di tre giorni dalla presentazione, votazione per appello nominale).
Al parere della Giunta per il regolamento del Senato ha fatto seguito la Camera dei Deputati regolando espressamente la mozione di sfiducia individuale nella parte dedicata alla sfiducia del governo, malgrado le perplessità sul punto: « È fondata la questione di principio sull’ammissibilità della mozione di sfiducia nei confronti del singolo ministro [se la mozione riguardava un aspetto dell’attività politica del singolo ministro, la responsabilità non poteva che essere del governo, ma se non riguardava una questione politica, allora, era improprio utilizzare strumenti tipici del sindacato politico] La Giunta ha peraltro inteso apprestare una soluzione pratica, che ritiene utile nei rapporti fra la Camera ed il Governo » (replica del relatore, onorevole Gitti, nella seduta del 7 maggio 1986).
Il modello della ammissibilità della sfiducia individuale basato sulla interpretazione analogica dell’art. 94, Cost. è stato fatto proprio anche dalla Corte costituzionale nella sentenza 7/1996, a proposito del conflitto sollevato dal guardasigilli Mancuso: Nella forma di governo parlamentare, la relazione tra Parlamento e Governo si snoda secondo uno schema nel quale là dove esiste indirizzo politico esiste responsabilità […] e là dove esiste responsabilità non può non esistere rapporto fiduciario […] La Costituzione, nel prevedere, all’art. 95, comma 2, la responsabilità collegiale e la responsabilità individuale, conferisce sostanza alla responsabilità politica dei ministri, nella duplice veste di componenti della compagine governativa da un canto e di vertici dei rispettivi dicasteri dall’altro, una correlazione fra le due forme di responsabilità – collegiale ed individuale – nel comune quadro della responsabilità politica, di talché le costanti prassi registratesi in proposito conducono a una vera e propria integrazione del tessuto costituzionale e possono essere considerate come una consuetudine costituzionale.
E’ una impostazione che lascia vivere tutti i problemi che si sono sempre segnalati a proposito della sfiducia individuale.
In primo luogo, resta la questione di fondo, già segnalata da Paladin (L. Paladin, voce Governo italiano, in Enciclopedia del diritto, vol. XIX, Milano, Giuffrè, pp. 675 ss.): il rapporto fiduciario previsto dalla Costituzione riguarda il Governo nel suo complesso e ciascuna delle aule che compongono il Parlamento.
Sotto questo aspetto, se l’azione politica di un singolo ministro è in contrasto con quella del Governo, spetta al Governo, con la limitata eccezione del governo tecnico di Dini che si è citata, in cui la rimessione della questione di coordinamento interno alla compagine governativa all’assemblea si giustifica con il fatto che lo stesso si è formato al di fuori e in contrasto con i risultati elettorali e perciò può vivere solo degli indirizzi parlamentari, risolvere il problema politico.
In questo caso, nell’affare Shalabayeva, il Governo ha formalmente e sostanzialmente sorretto il proprio ministro degli interni, ne ha giustificato l’operato anche con la partecipazione del presidente del consiglio al dibattito sulla sfiducia individuale.
Non ha detto che, come nel caso Dini – Mancuso, il problema era solo di Mancuso e del suo rapporto con il Parlamento. Ha seguito la linea del Quirinale: la sfiducia al ministro dell’interno sarebbe stata un problema di tenuta della maggioranza e la maggioranza deve tenere nell’interesse del paese.
Ma questa impostazione non equivale a dire che la sfiducia individuale non ha senso, perché in realtà riguarda l’intero governo? Non equivale a dare forza all’obiezione di Paladin, trasformandola intimamente: non è la mozione di sfiducia individuale ad essere inammissibile perché il rapporto di fiducia intercorre fra ciascuna aula del Parlamento e il governo, ma è il fatto che il rapporto di fiducia intercorre fra le due assemblee e il governo a far sì che la sfiducia individuale equivalga alla sfiducia verso il governo nel suo complesso?
In secondo luogo, si è detto che la questione di sfiducia individuale porta a un governo per ministeri, anziché a un governo collegiale (C. Chiola, Uno strappo alla Costituzione: la sfiducia al singolo ministro, in Giurisprudenza costituzionale, 1986, vol. I, pp. 810 ss.).
Ed anche questo è vero nel caso Shalabayeva: la responsabilità dell’affare è stata interamente scaricata sull’ignavia del ministro dell’interno, che ha sottolineato di non essere al corrente di quello che accadeva. Ma questo non è un modo per ignorare che, nello stesso tempo, ne sarebbe dovuto essere a conoscenza anche il Presidente del Consiglio dei Ministri da cui dipendono i servizi segreti? Si può davvero pensare che non vi sia una responsabilità del primo ministro nel momento in cui agenti israeliani e kazakhi operano sul nostro territorio sorvegliando una villa in una zona non proprio periferica della capitale? E il ministro degli esteri non ne doveva sapere nulla?
La terza obiezione deriva dal principio, molto discusso, per cui, secondo una intuizione di Mortati (Istituzioni di diritto pubblico, IX ed., t. I, Padova, Cedam, 1975), seguita dalla Carlassarre (L. Carlassarre, Governo Parlamento e Presidente della Repubblica. Relazione generale, in Associazione italiana dei costituzionalisti, Annuario 2001. Il Governo, Atti del XVI convegno annuale, Palermo, 8-10 novembre 2001, Padova, Cedam, pp. 73 ss.), il Presidente del Consiglio dei Ministri può revocare i singoli ministri e questo potere di revoca rende impossibile l’attivazione della sfiducia individuale perché essa equivale a censurare la mancata revoca da parte del Presidente del Consiglio del ministro individualmente sfiduciato e quindi non può non essere considerata equivalente a una sfiducia del Governo perché il Presidente del Consiglio dei Ministri non è in grado di guidarlo.
Anche questa obiezione si rivela in tutta la sua fondatezza: Letta ha confessato di non essere in grado di fare a meno di Alfano, ma questo significa che Letta non è il Presidente del Consiglio dei Ministri, che la sua non è una responsabilità politica, perché non gli appartiene individualmente. Perché non è in grado di far venire meno l’incarico ad Alfano, malgrado Alfano abbia dimostrato di non poter essere considerato responsabile degli atti del proprio dicastero (ma che cosa dovrebbe essere un ministro se non una persona capace di essere responsabile degli atti del proprio apparato e che cosa dovrebbe essere un Presidente del Consiglio se non la persona che è responsabile dell’altrui responsabilità?).
Tutte queste obiezioni conducono a una strana configurazione della sfiducia individuale: la sfiducia individuale, nella realtà di un governo politico, ovvero di un governo che non delega al Parlamento la propria responsabilità politica, equivale a una sfiducia collettiva ed è esattamente questa la ragione che ha consentito al Senato di confermare la propria fiducia ad Alfano, non perché vi sia o perché vi siano ragioni per concederla, ma perché altrimenti vi sarebbe stato un voto di sfiducia per l’intero governo.
Di conseguenza, allo stato delle cose, la sfiducia individuale non sembra esistere, e questo proprio perché le obiezioni che si sono ricordate sono ben più forti delle prassi costituzionali che si sono instaurate sul punto.
Sotto questo aspetto, vale la pena ricordare il precedente di Vito Lattanzi che, in occasione della fuga del criminale nazista Kappler, ebbe a giustificarsi con il mancato rispetto delle proprie direttive da parte del suo apparato: se sbaglia un piantone non può dimettersi un ministro. La strategia del ministro fu sostenuta dal Presidente del Consiglio, l’Andreotti del monocolore uscito dalle elezioni del 20 giugno 1976 con un mandato fondato sulle astensioni e la “non sfiducia”, che si recò in Parlamento a rispondere alle numerose interrogazioni presentate e si assestò su una linea di condivisione delle responsabilità ministeriali.
Tuttavia Andreotti spostò Lattanzi dalla difesa ai trasporti, affidandogli anche l’interim della marina mercantile, comunicando alle Camere questa soluzione come la risposta corretta a esigenze contraddittorie e ritenendo irresponsabile l’apertura di una crisi di governo, del governo fondato sulla non sfiducia che in quel momento pareva – e probabilmente era – l’unico possibile.
Il commento di Tosi (S. Tosi, La Repubblica Alla Prova: Il Dibattito Sulle Istituzioni in Italia Dal 1976 Al 1987, Felice Le Monnier – Firenze, 1990, part. 16) fu che Andreotti era cosciente di chiedere una assurdità costituzionale, pur valutandola con freddezza perfettamente rispondente all’assurdità del momento politico.
Al di là del fatto che Andreotti ebbe la forza, all’interno di un monocolare, di allontanare Lattanzi dalla difesa, resta il fatto che allora come adesso il punto di aggressione alla sfiducia individuale è la necessità di evitare una crisi di governo, la consapevolezza che la sfiducia a un singolo ministro non può, con la limitata eccezione del governo Dini, la quale si fonda sulla confessione di Motzo che si è richiamata e che suona parecchio come un noi facciamo così perché, in realtà, siamo quelli della reiterazione dei decreti legge, non siamo mica un governo, che essere anche una sfiducia del Presidente del Consiglio.