La convenzione condannata
E’ stato divertente insegnare diritto costituzionale quest’anno.
Per una volta, materia viva e non storia del diritto.
Parla di storia del diritto, invece, la convenzione che nei giorni del preincarico ha agitato i sogni di costituente di molti politici.
Era una sciocchezza, a cominciare dalla scelta del nome: Convenzione ricorda la rivoluzione francese e soprattutto un passaggio in cui le opposte ali erano costrette a confrontarsi con la centralità di una palude che ne condizionava qualsiasi scelta.
Era anche una sciocchezza la scelta del metodo: un testo condiviso all’interno di un’assemblea composta per una parte di parlamentari e per un’altra parte di rappresentanti del popolo (chi rappresentano i parlamentari?) che arriva in Parlamento con la forza di un condizionamento esterno nella procedura di revisione costituzionale.
Abbiamo già visto una legge costituzionale (la 1/2012) approvata in prima lettura praticamente senza dibattito e dopo che il ministro Giarda aveva indotto le commissioni competenti a un emendamento pressoché totale del testo in esame all’assemblea il giorno prima del voto finale.
Adesso, pare che si torni al metodo parlamentare per l’esame delle riforme costituzionali: saranno le commissioni affari costituzionali ad occuparsi del testo che, magari, sarà predisposto da un’apposita commissione costituita ad hoc, sul modello della Commissione Bozzi che operò sulla base di una risoluzione e di un ordine del giorno rispettivamente della Camera dei Deputati e del Senato e che aveva il compito di formulare proposte di riforme costituzionali e legislative, nel rispetto delle competenze istituzionali delle Camere e senza interferire sull’iter delle iniziative legislative in corso.
Un metodo apparentemente rispettoso della legalità costituzionale.
Ma, forse, a ben vedere non è in grado di raggiungere alcun risultato e nello stesso tempo il rispetto della legalità costituzionale è solo apparente.
Non è in grado di raggiungere alcun risultato perché sia il Parlamento che la Commissione per le riforme costituzionali, se si farà e se si chiamerà così, sarebbero dannatamente soli dinanzi alle scelte da compiere.
Ci si deve chiedere, infatti, quale sia la legittimazione del Parlamento per una riforma più o meno integrale della seconda parte della Costituzione.
Dal punto di vista della legalità costituzionale, l’art. 138, Cost. apparentemente non pone altri limiti al potere di revisione costituzionale che non siano quelli di cui all’art. 139, Cost., più o meno estensivamente interpretati, e questo sicuramente riguarda la forma repubblicana non anche i meccanismi di articolazione della sovranità di cui all’art. 1, secondo comma, Cost.
Ma questo è solo apparente: nessuna riforma costituzionale dopo il 1948, neppure la riforma del Titolo quinto della Costituzione, ha toccato la sostanza della Costituzione e l’unica vera riforma è stata quella elettorale del 1993 che si è potuta fare siccome sospinta da un referendum e da un referendum che aveva un sapore costituente.
La realtà è che il potere di revisione costituzionale non può prendere il posto del potere costituente e che quando si tocca l’essenza della rappresentanza, quando si maneggiano i nodi dell’art. 1, secondo comma, Cost., lo si può fare solo con un mandato popolare che abbia un minimo di certezza, in cui le istruzioni siano sufficientemente dettagliate da non renderlo annullabile per indeterminatezza.
Il Parlamento, con o senza la Convenzione, con o senza una Commissione per le riforme costituzionali, è troppo solo: può indicare i sistemi di accesso alla giustizia costituzionale, può modificare le norme in tema di responsabilità ministeriale, quelle sulle immunità parlamentari, può perfino adeguare il sistema delle autonomie a una realtà complessa, ma non può esercitare un potere materialmente costituente.
Per quello ha bisogno di un referendum.
Allora, la questione vera, la scelta fra un parlamentarismo ancora più corretto in termini tali da contenerne le degenerazioni e un semipresidenzialismo alla francese, che corrisponde alla scelta del sistema elettorale, che Sartori vorrebbe indipendente, ma che indipendente non è per nulla, dovrebbe essere l’oggetto di una discussione parlamentare, anche per mezzo di una commissione apposita secondo il modello del 1984-85, ma poi dovrebbe essere rimessa al popolo per mezzo di un referendum di indirizzo da cui ricavare un mandato certo.
Senza questo referendum, il Parlamento è solo e le riforme istituzionali restano un miraggio.
Anche se forse questo è un bene, perché è stata proprio l’assenza di riforme istituzionali che ha assicurato alla nostra Costituzione un livello di resilienza di cui non sempre ci si rende conto.