L’integratore costituzionale e gli affari segreti del Presidente della Repubblica (Note polemiche nell’imminenza di Corte cost. 1/2013)
La Corte costituzionale ha depositato la sentenza n. 1 del 2013, chiarendo la sorte delle intercettazioni del Capo dello Stato.
La dottrina, quella che ha l’onore delle prime pagine dei giornali, ha variamente lodato l’equilibrio della Consulta.
Immeritatamente, se è possibile esprimere un giudizio sincero.
La sintesi del ragionamento del giudice delle leggi (o, forse, dell’integrazione costituzionale) è che la Costituzione si deve interpretare per principi e che i principi costituzionali consentono di ricavare norme inespresse che si sovrappongono al tessuto letterale della Costituzione.
Queste norme hanno il sapore della Costituzione perché la Corte ha il potere di enunciarle, oltre la rozza interpretazione letterale, al di là di quella minima conquista dello Stato di diritto che ci permette di conoscere il diritto leggendo la Gazzetta Ufficiale.
Questa Costituzione assomiglia molto al Corpus Juris Civilis dei commentari seicenteschi: non importa quello che c’è scritto, ma importano le interpretazioni dei giureconsulti che via via si sono pronunciati.La Costituzione si deve interpretare per principi e che i principi costituzionali consentono di ricavare norme inespresse che si sovrappongono al tessuto letterale della Costituzione
E’ una Costituzione oscura perché non se ne può conoscere il significato prima delle pronunce che la interpretano, chiarendone ed integrandone il contenuto.
In altre parole, quello che disturba di questa sentenza è, in primo luogo, il metodo, molto più del risultato.
Probabilmente è corretto che il Presidente della Repubblica non possa essere intercettato, neppure per caso.
E, forse, non tanto perché è il Presidente della Repubblica, ma perché tutti i cittadini hanno diritto alla libertà ed alla segretezza, considerate come una endiadi, della loro corrispondenza e quindi anche delle comunicazioni elettroniche o telefoniche.
Per dirlo, è sufficiente osservare che se le intercettazioni sono uno strumento di investigazione, gli organi costituzionali godono di una autonomia costituzionale che non le consente a meno che non siano espressamente previste, come accade per i parlamentari ed i membri del Governo.
Non era necessario dire che il Presidente della Repubblica incarna l’unità nazionale nel senso di ricondurre ad unità l’operato degli altri poteri dello Stato, che, a questo fine, che appare un fine molto politico e che sembra in contrasto con la logica della separazione dei poteri, perché evoca la mitologia dello Stato assoluto che proprio sulla unità dello Stato come incarnato dal sovrano si fondava, intrattiene rapporti strettamente confidenziali con chi fa parte dei poteri che sarebbe chiamato a ricomporre ed ordinare in un quadro armonico.Ma era davvero necessario costruire il Capo dello Stato come un sovrano assoluto?
Che cosa significa riservatezza in questo caso?
Non vale ad ammettere che il Capo dello Stato deve essere sicuro di parlare senza essere ascoltato perché quello che dice all’uno (nel caso di specie, alternativamente, il procuratore della Repubblica di Palermo e l’indagato dal procuratore della Repubblica) non deve essere ascoltato dall’altro (le stesse persone, ma a parti inverse)?
Davvero fa parte delle prerogative del Presidente della Repubblica una sorta di segreto di Stato sulle sue comunicazioni?
E questo segreto non ci lascia immaginare un Presidente della Repubblica che si aggira nei corridoi e sussurra a qualcuno qualcosa che non deve essere ascoltato dall’altro e neppure conosciuto dall’opinione pubblica?
Come dire che nelle consultazioni che precedono la nomina del Presidente del Consiglio ci sono cose che si possono dire perché si è sicuri che non saranno ascoltate.
Probabilmente è così.
Ma è dannatamente di cattivo gusto affermarlo.
Soprattutto se chi lo afferma è la Corte costituzionale in una sentenza che pare essere scritta per essere riletta nei manuali di diritto costituzionale (lo ha scritto Ainis nel Corsera di ieri) e nei sussidiari di educazione civica, dove alla voce Capo dello Stato ci si può immaginare che l’autore debba scrivere: Altissima carica dello Stato, del tutto libera di esprimere il proprio pensiero intrattenendo oscuri rapporti con le altre cariche dello Stato allo scopo di guidarne l’operato secondo disegni a lui soltanto noti…La serenità del segreto è compatibile con l’assolutezza del potere evocato dalla funzione di rappresentanza dell’unità nazionale intesa come sintesi della sovranità?
Per fortuna, siamo in Italia dove, secondo il noto paradosso di Joseph La Palombara (Id., Democracy Italian Style, Yale University Press, 1987), si accompagnano un apparent chaos ed un surprising success della democrazia, in termini tali da obbligare a ripensare le stesse categorie fondanti l’istituto nella teoria generale.
In questo caso, c’è da ripensare, davvero e parecchio, il ruolo del Capo dello Stato come rappresentante dinamico ed interferente dell’unità nazionale in forma costituzionalmente riservata.
Ma c’è anche da pensare alla riservatezza perché se le esigenze che si oppongono al diritto di penna e di tribuna devono essere ricostruite sistematicamente ed organicamente (G. Pitruzzella, Segreto, I) Profili costituzionali, voce, in Enc. Giur. Treccani, Roma, 1992, vol. XXVII, 1 e ss.), la necessaria riservatezza delle attività informali con cui il Capo dello Stato esercita la sua funzione di rappresentanza dell’unità nazionale non equivalgono a qualcosa di molto simile al segreto di Stato, ovvero ad un istituto che chiama costantemente in causa la Corte costituzionale come “giudice del segreto” (P. Barile, Democrazia e segreto, in Quad. Cost., 1987, 40), non esistendo in una democrazia nessun segreto talmente segreto da non poter essere conosciuto dalla Consulta senza che l’arcanum imperii divenga un arcanum seditionis, per usare le categorie care a Bobbio?
Ed il segreto che deve circondare il Capo dello Stato non lo sposta verso l’indirizzo politico, secondo lo schema di Omar Chessa (Il Presidente della repubblica parlamentare. Un’interpretazione della forma di governo italiana (Jovene Editore, Napoli, 2010), dal momento che la neutralità politica del Presidente sembra poter essere incompatibile con un’attività caratterizzata dalla doverosa riservatezza? Il segreto, in fondo, è un’attributo che caratterizza il governo, il quale lo maneggia e se ne ammanta proprio in virtù della sua responsabilità politica: un organo irresponsabile che agisce nell’ombra ricorda fantasmi di altre epoche perché postula una legittimazione che non può essere democratica, che non lo può più essere dai tempi della rivoluzione francese.
Il vero problema è che se la Corte di oggi, non riesce a non decidere la querelle (di bassa cucina, nella sostanza dei fatti) fra Napolitano ed Ingroia, senza voler evocare il respiro epicamente costituzionale della Corte del 1956 nella decisione, quella davvero fondamentale per la costruzione di una teoria democratica dello Stato, sul conflitto fra il valore programmatico ed il valore normativo delle norme costituzionali, i costituzionalisti di oggi – absit injuria verbis – ben difficilmente possono sfiorare il tono del dibattito che ne seguì (solo per citare Crisafulli, Esposito, Giannini, Lavagna, Mortati e Vassalli, Dibattito sulla competenza della Corte costituzionale in ordine alle norme anteriori alla Costituzione, in Giur. cost. 1956, 261 e ss.).
E la Corte, quando si sente di esprimere voli così alti sul senso dell’interpretazione costituzionale e sul contenuto assiologico delle norme costituzionali che organizzano i poteri dello Stato, questo lo sa benissimo, quasi dicesse: Mi esprimo liberamente perché la penna che mi commenterà è poco più che un tweet…
Ma questa sentenza è molto più che un tweet perché, come correttamente ieri scriveva Ainis, rappresenta il vero lascito di Napolitano al suo successore, ovvero ad una delle partite più delicate che stanno dietro l’attuale campagna elettorale, che, certo, non si caratterizza per trasparenza.