Tra garanzie e feticci: il divieto del terzo mandato
È irritante, quando i concetti costituzionali sono richiamati a sproposito e deformati, a volte fino a farli funzionare all’incontrario. Ad esempio quando una garanzia di libertà viene eretta a feticcio, fino a trasformarla in un ostacolo irrazionale alla stessa libertà.
Mi è successo di provare questo senso di irritazione, di recente, a proposito del divieto di terzo mandato. Mi è successo a causa di due fatti distinti, dei quali ho avuto notizia per vie diverse.
Qualche settimana fa, un consigliere circoscrizionale eletto a Bologna nel 2011 si dimette: si era candidato con il «Movimento 5 Stelle»; ma poi si era scoperto che aveva ricoperto due mandati nel consiglio comunale della stessa città nel 1990 e nel 1995. Tra le regole del movimento, c’è appunto il divieto di candidarsi per chi ha «assolto in precedenza più di un mandato elettorale, a livello centrale o locale». Per la verità, questo caso era complicato dal fatto che il consigliere aveva dichiarato di essere in posizione ortodossa rispetto ai canoni del movimento, e quindi di non avere già ricoperto due mandati elettivi: dunque, c’era un problema di sincerità, oltre a uno di terzo mandato.
Qualche giorno fa, nella mia casella di posta elettronica, trovo il seguente scambio. Tizio ripropone la propria candidatura per un terzo mandato di rappresentante in un oscuro organismo amministrativo interno. Caio ribatte: «la regola dei due mandati è una garanzia democratica collaudata in tutto il mondo; quando non è applicata, ci sono più problemi che vantaggi; quante volte lo abbiamo chiesto e lo stiamo chiedendo ad altri; se la coerenza ha un valore, dobbiamo essere i primi a praticarla». Segue dibattito (ve lo risparmio).
Al fondo, c’è un dato comune: il divieto di terzo mandato sta diventando un feticcio. Come tutti i feticci, mal si presta ad analisi critiche, sottigliezze e distinzioni. Come si vede, i suoi sostenitori più zelanti lo invocano per ogni tipo di carica e sommano mandati eterogenei tra loro, anche a notevole distanza di tempo.la regola dei due mandati è una garanzia democratica collaudata in tutto il mondo; quando non è applicata, ci sono più problemi che vantaggi; quante volte lo abbiamo chiesto e lo stiamo chiedendo ad altri; se la coerenza ha un valore, dobbiamo essere i primi a praticarla
Non dubito della loro buona fede. Non dubito nemmeno che la loro radicalità dipenda da un giusto sdegno per un ceto di rappresentanti avviticchiati alle proprie posizioni e avulsi da ciò – da coloro – che dovrebbe rappresentare.
Tuttavia, non è il caso di generalizzare. Al contrario, è il caso di fermarsi a ragionare come e quando il divieto di terzo mandato è utile o addirittura necessario.
L’istinto sarebbe di elencare alcuni punti per la riflessione, ma altri lo hanno già fatto, sulla base di studi approfonditi. Mi riferisco alle audizioni svoltesi il 17 gennaio 2001 presso la Commissione Affari Costituzionali della Camera in merito al funzionamento delle disposizioni per l’elezione diretta di sindaci e presidenti di provincia. Mi riferisco, in particolare, all’analisi di diritto comparata fatta dal prof. Carlo Fusaro (Università di Firenze). Questa analisi è edita anche, con il titolo Il limite al numero dei mandati. Esperienze italiane e modello americano, in Le Istituzioni del Federalismo (rivista giuridico-politica della Regione Emilia-Romagna), 2001, n. 3-4, pp. 773 ss.
Come risulta da quell’analisi, in quasi tutti gli ordinamenti in cui si elegge una carica nazionale di vertice monocratica dotata di poteri politici rilevanti e di attribuzioni esecutive, sono previsti limiti al numero di rielezioni. Nel 2001, facevano eccezione due ordinamenti: Islanda e Francia. Oltralpe, però, la riforma costituzionale del 2008 ha introdotto il limite dei due mandati consecutivi per il Presidente della Repubblica. Se dal livello nazionale si passa a quello territoriale, la situazione è più eterogenea. Quanto poi ai mandati parlamentari, un limite al numero di rielezioni è previsto nelle assemblea di alcuni Stati degli USA – dove questo tema ebbe una fiammata di popolarità negli anni ’80 del XX secolo – ma non in tutti. È forse il caso di ricordare che Barack Obama è stato eletto nel Senato dell’Illinois tre volte, poi al Senato degli Stati Uniti e infine, come tutti sanno, due volte Presidente; e che Ted Kennedy ha rappresentato il Massachusetts nel Senato degli Stati Uniti dal 1962 al 2009, anno della sua morte – senza nemmeno entrare nella top ten del parlamento statunitense.
Rimandando all’analisi di Fusaro per maggiori informazioni, anche in merito al caso statunitense (dove la regola del doppio mandato presidenziale fu introdotta solo nel 1951), mi limito a ricordare che quell’analisi elenca anche i pro e i contro della regola in esame: tra l’altro, da un lato, essa ostacola i rappresentanti nell’acquisizione di competenze e nella realizzazione di politiche di periodo non breve; dall’altro, evita eccessivi accumuli di potere politico, favorisce la rotazione nei ruoli rappresentativi (ma non è detto che ciò faciliterebbe l’accesso delle minoranze, come alcuni ritengono sia avvenuto negli USA) e in generale rende le posizioni di potere più contendibili.
In Italia, il divieto di terzo mandato vale per sindaci (e presidenti di provincia). Ha creato problemi applicativi, e si discute se sia opportuno nei comuni più piccoli, dove è più difficile trovare candidati disponibili: v. qui. Ma ha un senso, soprattutto se si considerano i poteri del sindaco e la posizione relativamente debole del consiglio nella forma di governo locale.Fuori dai casi di cariche monocratiche elette dai cittadini, titolari di poteri esecutivi discrezionali e soggette a controlli deboli da parte delle assemblee rappresentative dei rispettivi sistemi istituzionali, il limite dei due mandati diventa opinabile. Può essere una legittima preferenza soggettiva. In alcune contingenze – nei confronti di una classe politica autoreferenziale – può anche essere un criterio di scelta opportuno. Difficilmente può essere un criterio assoluto. Certamente, non è un mantra da ripetere, e applicare, ossessivamente
È grave che il divieto non sia stato imposto con rigore ai presidenti delle regioni. Ciò è dipeso da una certa interpretazione della legge nazionale sulle elezioni regionali. Vi erano argomenti tecnico-giuridici rispettabili, per questa interpretazione; ma essa ha disattivato una garanzia importante proprio in un settore in cui di essa c’era molto bisogno.
Fuori da questi casi (dai casi di cariche monocratiche elette dai cittadini, titolari di poteri esecutivi discrezionali e soggette a controlli deboli da parte delle assemblee rappresentative dei rispettivi sistemi istituzionali), il limite dei due mandati diventa opinabile. Può essere una legittima preferenza soggettiva. In alcune contingenze – nei confronti di una classe politica autoreferenziale – può anche essere un criterio di scelta opportuno. Difficilmente può essere un criterio assoluto. Certamente, non è un mantra da ripetere, e applicare, ossessivamente.
Ossessiva mi sembrerebbe, in particolare, l’applicazione del principio che (è un esempio, diverso dal caso ricordato all’inizio) costringesse un brillante parlamentare, dopo una legislatura, ad abbandonare le sue battaglie politiche, perché dieci anni prima ha fatto il consigliere di quartiere. I caratteri delle due cariche, le differenze tra esse, il tempo trascorso ecc.: tutto militerebbe contro questa ipotesi. Tutto, tranne il feticismo del terzo mandato.