L’ultima resa (a proposito di un conflitto presentato dal Gruppo PD del Senato)
1 – L’ultima resa, come si conviene a una guerra d’altri tempi, è di un parterre de roi.
Ha il sapore di una resa il ricorso per conflitto di attribuzioni presentato dal gruppo parlamentare del PD al Senato con l’assistenza di alcuni fra i maggiori costituzionalisti del Paese (Caravita, Cecchetti, De Vergottini, Falcon, Lucarelli, Onida e la Randazzo), molti dei quali non collegati al PD da nessuna affinità politica.
Si chiede alla Corte di annullare la legge di bilancio perché approvata per mezzo di un maxi emendamento che, quando è stato discusso, era stato presentato da poco più di sette ore, non era sostanzialmente stato esaminato in Commissione e pensare che i Senatori abbiano avuto il tempo e il modo di comprenderne il contenuto è esercizio di spericolato ottimismo.
Lo si chiede con forza perché questa volta la prevaricazione delle prerogative parlamentari è stata particolarmente evidente.
Ma è costretto a chiederlo alla Corte costituzionale ammettendo quindi che gli organi chiamati a tutelare le prerogative parlamentari, ovvero, in questo caso, la Presidenza del Senato e la giunta del regolamento, non sono in grado di farlo.
Il ricorso per conflitto, in altre parole, ha come presupposto l’incapacità dell’autonomia del Parlamento di salvaguardare l’indipendenza e la funzionalità del sistema della rappresentanza.
Questo significa arrendersi perché la Corte non è solo un ultima fortezza. E’ soprattutto un istituto che opera come garanzia per le istituzioni che non hanno la capacità di trovare spazio nel sistema con la legittimazione che deriva dalla loro capacità di autonomia.
Il bisogno di giustizia costituzione nasce nel momento in cui una istituzione non riesce a giustificare la propria esistenza e cerca nella giurisprudenza costituzionale lo spazio per difendersi dalle aggressioni degli altri poteri.
E’ un’ammissione di debolezza e nello stesso tempo la ricerca nella giurisprudenza della Corte di quello che si dovrebbe riuscire a ottenere con l’autorevolezza della propria autonomia.
2 – Il ricorso fa forza sulla crisi del metodo parlamentare imposta dalla prassi del maxi emendamento.
Se la commissione permanente competente per materia discute un testo che viene sostituito interamente dal Governo prima della sua votazione in aula con un altro testo, completamente diverso, sul quale viene posta la fiducia, è evidente che il metodo parlamentare entra in crisi perché le Commissioni hanno lavorato a vuoto e non vi è alcuno spazio per gli accordi negoziati al loro interno fra maggioranza e opposizioni.
Si insiste sulla costruzione, come regola costituzionale derivata dal principio di leale collaborazione, della pretesa alla piena conoscibilità dell’affare su cui il Parlamento è chiamato a discutere e deliberare, ovvero del diritto del Parlamento a discutere e deliberare consapevolmente sulle questioni che gli vengono sottoposte dal Governo anche se il Governo pone la questione di fiducia.
Viene costruito in termini consapevolmente spericolati un modello di separazione fra i poteri in cui maggioranza e minoranze sono poteri dello Stato per effetto di una interpretazione dell’art. 94 come regola di organizzazione: la minoranza che pone la questione di fiducia, considerata come “maggioranza oppositiva qualificata” viene considerata come un potere dello Stato per effetto della sua considerazione espressa nell’art. 94, quinto comma.
Sono tutte considerazioni molto profonde e non a caso provengono dai costituzionalisti più sensibili alle dinamiche dei conflitti fra poteri.
Ma, purtroppo, non colgono nel segno almeno sotto due aspetti.
La fiducia, da tempo, forse da sempre, non è un cleavage fra maggioranza e minoranze, ma uno strumento nelle mani della maggioranza per governare stabilmente e individua un preciso modo di essere del rapporto fra Parlamento e Governo.
La manovra finanziaria non è l’oggetto di una deliberazione parlamentare sul contenuto della manovra, sui diciannove miliardi che saranno ricavati dalle privatizzazioni e sulla articolazione della flat tax per le partite Iva. Ma è piuttosto una deliberazione referendaria sull’accordo raggiunto fra il Governo e la Commissione UE nella cornice del patto di stabilità e crescita e dei suoi strumenti di attuazione.
Sotto entrambi gli aspetti, quello che importa non è lo spazio a disposizione del Parlamento per parlamentare sul contenuto di una manovra che è sostanzialmente immodificabile e che può essere accettata o respinta ma non emendata. Quello che conta è che il Governo sia costretto a chiedere la fiducia del Parlamento sulla propria idea economica di nazione, su come è riuscito a negoziare la propria idea economica di nazione con i custodi del patto di stabilità e crescita.
Negare che questo sia il ruolo del Parlamento nel processo di bilancio può essere possibile sul piano della forme costituzionali, ma non è possibile sul piano storico e non importa se il Governo è quello di Prodi, di Berlusconi, Renzi o Conte perché è una derivata del semestre di bilancio così come costruito nella direttiva Vicky Ford, che ha avuto come scopo esattamente la verticalizzazione del processo di bilancio e la sua concentrazione nel rapporto esecutivi nazionali – commissione, evitando che l’intervento dei parlamenti nazionali si potesse risolvere in quell’assalto alla diligenza che la nostra storia costituzionale conosce benissimo.
3 – La verità, quindi, è che la crisi del metodo parlamentare è sempre più evidente e che immaginare di affidare questa crisi alla capacità taumaturgica della giurisprudenza costituzionale è esercizio di superstizione costituzionale.
Non sembra un caso che i giornali abbiano preferito soffermarsi sul solitamente mite Fiano che lancia il volume con l’emendamento contro il banco del Governo centrandone un membro piuttosto che sul ricorso del gruppo PD al Senato, passato sotto tono e sotto voce.
Non è nemmeno difficile immaginare che la Corte costituzionale affermerà che un decimo dei parlamentari, il decimo dei parlamentari previsto dall’art. 94, quinto comma per presentare la mozione di sfiducia, è un potere dello Stato con riferimento alla presentazione della mozione di sfiducia e alla sua trattazione, ma non con riferimento alla sindacabilità degli interna corporis, consolidando questo antico feticcio, dichiarando il ricorso inammissibile.
Qui, infatti, non ci sono leoni. Ci sono atti interni alla sfera costituzionalmente riservata all’autonomia del Parlamento su cui neppure la Corte costituzionale può sindacare.
Eppure, resta una domanda.
Se il ricorso non è lo strumento giusto per affermare il diritto alla piena conoscibilità da parte dei parlamentari degli affari sui cui sono chiamati a decidere, se la reazione corretta non può essere semplicemente il lancio di un fascio di carta contro il banco del Governo, anche se attuato con invidiabile maestria, che cosa si poteva fare?
La risposta è nella premessa.
Chi ha tradito il Parlamento non è stato il Governo. E’ stato il Presidente del Senato, prima, e il Presidente della Camera, poi, che hanno accettato di trattare e discutere un affare senza che vi fosse il tempo per una istruttoria consapevole e, secondo il metodo parlamentare, aperta a una partecipazione non sterile delle opposizioni.
Probabilmente, la democrazia fondata sul cleavage del populismo, dei radicalismi esasperati da differenze sociali e culturali che difficilmente possono dialogare secondo lo schema deliberativo del consenso per intersezione, non può più tollerare dei presidenti di assemblea che una volta eletti non possono più essere rimossi dal loro incarico.
La regola che questa vicenda chiede di ripensare è la stabilità assicurata ai presidenti dei due rami del Parlamento dalla lacuna regolamentare sulla possibilità di revocarne l’incarico.
Questa regola, davvero, non sembra più appropriata allo spirito dei tempi perché se il presidente non è il garante dell’autonomia del Parlamento una minoranza qualificata dei membri del Parlamento deve poterne chiedere le dimissione e questa mozione deve essere discussa e votata con lo stesso voto segreto che ne ha assicurato l’elezione.